“Potere al popolo”: una lettera alla sinistra
Abbiamo seguito con attenzione l’assemblea al teatro Italia di sabato scorso a Roma: c’era entusiasmo. La soddisfazione di aver fatto implodere a sinistra l’ennesimo Frankenstein dei trombati della politica che si sarebbero riuniti al Brancaccio e il trasporto per un’avventura senza padrini.
L’operazione promossa da ex-Opg è chiara. Abbiamo negli anni apprezzato questa virtù, seguendo e in alcune occasioni interagendo con l’importante lavoro territoriale svolto dai compagni e dalle compagne di Napoli. La proposta non cerca scorciatoie, vive dentro un’esperienza viva: individua un obiettivo e sceglie un campo suo proprio. Senza fraintendimenti.
Loro non ci girano intorno, noi saremo altrettanto schietti: l’obiettivo della candidatura alle prossime elezioni politiche e il collocarci nel campo storico della sinistra non possono appartenerci. La sfida è legittima ma la riteniamo sbagliata: sbagliati i presupposti, quindi sbagliati i referenti e il terreno dello scontro che sceglie.
Non ci interessano le grosse iperboli. Non tireremo in ballo comitati d’affari della borghesia ai quali ci si venderebbe entrando nell’arena democratica; non invocheremo il purismo di una lotta di classe macchiata dal compromesso.
I feticci ideologici ci repellono.
Abbiamo con questi compagni e compagne di Napoli, spesso assieme a loro, attraversato le lotte sociali di questi anni e sappiamo che molti accorsi al teatro Italia sono stati, sono o possono essere dei nostri compagni e compagne di lotta nelle piazza e negli scontri che capillarmente innervano questo paese. Parte del dato concreto e umano di una resistenza in questo paese. Un popolo? Non sappiamo, non crediamo.
Questa locuzione ha più spesso negli ultimi anni nominato la crisi di coordinate politiche classiche. C’è allora un popolo che è espressione degli interessi e delle pulsioni contrapposte delle classi popolari, quello delle periferie, delle pulsioni razziste e della disaffezione alla politica. È il magma entro il quale si agita la classe, quello che ha fatto implodere la sinistra e le sue bussole ideologiche, culturali, politiche e antropologiche.
Non siamo orfani della sinistra né siamo innamorati di questo popolo per così com’è, ma sappiamo che lì stanno i nostri. Pur attraversando anche noi la sua crisi, l’essere stati come realtà antagoniste il polo estremo, opposto e destabilizzante di una storia di cogestione, sviluppo e redistribuzione capitalistica, la sinistra non ci manca. La nostra storia passa anzi non solo dalla critica alla sinistra ma dall’ipotesi della sua rottura. I tempi ci hanno superato. Quella storia è finita perché è finito il patto sociale che la giustificava storicamente. Non chiederemo agli orologi di portare indietro le lancette.
La sfida di ex-Opg si inscrive ancora in quella cornice. Avanza un’ipotesi: è possibile, ancora, da sinistra rappresentare il popolo. Il nodo di essere organizzazione sociale che si fa parte contrapposta della società. È una grossa ambizione che sconta tra gli altri, per l’arretratezza di una sedimentazione dei conflitti, il limite di rappresentare una parola più che l’essere strumento per prendere parola. Dare quelle parole già note. Parlare per conto di.
Davanti a questa ipotesi, ma non contro, ne abbiamo un’altra. Un lavorio più lungo. Pensiamo che quel popolo vada scomposto sui conflitti e ricomposto a partire dalla sua negazione. L’universo degli esclusi non ci appartiene. Occorre uccidere questa falsa coscienza. Non abbiamo mai sentito un compagno di lotta, altri proletari, dirsi esclusi dal mondo contro cui si combatte assieme.
Non serve un fronte comune contro la barbarie, servono lotte in grado di suscitare nuovi desideri e ambizioni perché la priorità assoluta è per noi un progetto antagonista maggioritario approfondendo le pulsioni orientate dal basso verso l’alto della gerarchia sociale. Rendere la sovversione dell’esistente un desiderio concreto e vantaggioso per i proletari che lottano. Abbiamo poche risorse, lo confessiamo senza paure. Un metodo, una ricerca militante, degli esperimenti di conflitto nelle lotte sociali di questo decennio. Abbiamo un’ambizione, non un progetto perché a oggi non si può formalizzarlo, non in quelle forme. Allo stesso tempo non abbiamo luoghi da presidiare: non “il movimento”, non “la sinistra”.
La proposta di ex-Opg ha però il merito di porre una domanda, di indicare il limite più evidente dei cicli di lotte recenti: la mancanza di uno spazio di riconoscimento e continuità per quanti oggi si mettono in gioco in una linea di contrapposizione. Questo nodo ci riguarda e resta aperto anche per noi. Allora? Non ci interessa una ripresa di una forza esplicitamente anticapitalista in questo paese? Non vediamo alternative all’organizzazione delle possibilità del conflitto sulle contraddizioni che attraversano la dimensione della classe dentro al popolo e contro il popolo e questa società. Un discorso per questo popolo senza un suo stravolgimento non ci interessa. No, compagni e compagne, non vi diremo che state tradendo, che abbandonate le lotte. Non lo crediamo. Ma oggi le nostre strade non si incrociano.
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