Che la brezza diventi tempesta
I fans sono accontentati: Napolitano vuole l’approvazione della manovra bis del governo, e subito. Per tranquillizzare i mercati, of course. Come per l’affaire libico, con il cavaliere e tutto il governo in estrema difficoltà l’autorevole supplente entra in campo a supporto dei veri mandanti: il comitato di consulenza Draghi&Monti celere a recapitare a Roma i messaggi congegnati a Francoforte e Bruxelles. Il tutto in vista di quel “governo tecnico” di emergenza nazionale -su cui l’opposizione avrebbe ancor meno voce in capitolo- perorato dalla finanza internazionale che ha già allungato le mani sulla nuova preda. Quando si dice “credibilità” sui mercati…
Sciopero, malgrado tutto
Che la situazione italiana stia precipitando lo segnala proprio lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Ha sorpreso un po’ tutti, probabilmente la sua stessa base, dopo la firma apposta sotto l’accordo infame del 28 giugno che ha blindato la rappresentanza sindacale contro ogni minima spinta autonoma dal basso e contro la stessa Fiom. Ora Camusso prende atto che con la manovra si passa alla cancellazione definitiva non solo dell’articolo 18 sulla licenziabilità ma della valenza dei contratti nazionali e di ogni rappresentanza formale che non sia alla Bonanni, per dirla in breve: da servi e/o utili idioti. Certo, la gabbia se l’è preparata la stessa Cgil, ma adesso brucia.
Uno sciopero malgré soi, dunque. Vi è costretta per la durezza delle misure contro i soliti noti senza che il governo abbia voluto o saputo offrire la minima contropartita, anche solo simbolica, in termini di “sacrifici equi”. E per la nullità, nessuna sorpresa qui, dell’opposizione del Pd che attaccando la proclamazione dello sciopero -basta vedere la lettera dei galoppini di Chiamparino e della lobby pro-Tav a Torino- ha mostrato ancora una volta di essere separato come da un abisso dal paese reale, dalla crescente indignazione e rabbia trasversali ai diversi settori sociali, di essere incapace della minima seria interlocuzione con essi, completamente prono ai diktat dei mercati finanziari e, se è possibile, più realista del re.
In questo quadro, e senza nessun facile entusiasmo, il sei settembre può essere un’occasione -lo hanno inteso i sindacati alternativi pur con le solite tentazioni minoritariste- per iniziare a vedere in piazza la rabbia, per provare a creare situazioni oltre la mera testimonianza cui gli stanchi cortei sindacali ci hanno (mal) abituato, per riprendere una discussione sul dove siamo e dove vogliamo andare. Tenuto conto che se la Cgil programmaticamente esclude un percorso di crescita reale della mobilitazione il dato di fondo è che l’Italia è oramai entrata nei gironi più interni della crisi globale e da lì non si torna indietro. (Qualcuno lo ricordi all’intelligentone Tremonti, quello che le banche italiane sono sane ecc.). Ma se le cose stanno così, le dinamiche sociali una volte innescate non potranno accontentarsi del magro menù di questo sciopero. Anzi, se il disagio si allargherà e radicalizzerà, il primo problema sarà proprio come proseguire la mobilitazione, che forme e contenuti darle per renderla efficace, che respiro farle assumere oltre le barriere nazionali palesemente insufficienti, insomma: come andare oltre l’indignazione verso un programma di lotta e insieme di effettiva alternativa alla situazione attuale.
Problema per niente banale.
Proviamo allora ad approssimare qualche ipotesi di lavoro sul presupposto che non solo la crisi globale sta entrando in una nuova fase ma anche che le dinamiche soggettive possono e debbono fare un salto.
Un nuovo giro di crisi
In estrema sintesi, gli sviluppi agostani della crisi -sotto gli occhi di tutti a partire dai paurosi capitomboli della borse, principalmente europee, e dagli attacchi “speculativi” a Italia e Spagna- possono forse essere ricondotti a due fili principali.
Il primo è il peggioramento della congiuntura economica negli States che segna, questo il punto, il fallimento della strategia della Federal Reserve e di Obama di contrasto della crisi attraverso la creazione di moneta (ripianamento del debito con nuovo debito). Questo peculiare keynesismo finanziario ha mancato proprio l’obiettivo principale: rilanciare la domanda. Profitti se ne fanno, ma come prima e più di prima si sono involati nei rally di borsa mentre occupazione e redditi della popolazione non fanno che calare e la ripresa tarda. Così i nodi dell’indebitamento scaricato sui bilanci statali vengono al pettine. Di qui l’inasprimento dello scontro politico e la definitiva eclisse interna dell’esperimento Obama!
Ora, l’elemento decisivo della nuova situazione è che proprio l’incrudirsi della crisi negli Stati Uniti è la causa diretta dell’addensarsi della seconda e più distruttiva tempesta sull’Unione Europea e sui due pezzi grossi della sua “periferia”. Nel senso che, stante la non risoluzione dei problemi e i rischi effettivi di un double dip, la partita si è spostata ora decisamente sul come ripartire i costi della crisi tra i vari attori internazionali: di qui lo scontro sulle valute (l’euro sopravviverà?), e su chi (Ue?) deve bruciare propri capitali per salvare quelli degli altri (Usa) ovvero mettere risparmi patrimoni e produzioni a disposizione dei grandi fondi della finanza internazionale (v. crollo azionario delle banche italiche così più facili da ingurgitare). Uno scontro che si intreccia, va da sè, con quello su chi deve essere il beneficiario di ultima istanza del prelievo sul lavoro da inasprire senza precedenti (questione di mesi e ci beccheremo una bella “patrimoniale” sui conti correnti, copyright Profumo). Insomma, la torta non si allargherà per un bel po’, quindi si tratta di sottrarne porzioni agli altri non più solo con i classici meccanismi della competizione sui mercati e sul lavoro ma costringendo gli avversari direttamente a distruggere capitale (sub forma di titoli che divengono inesigibili). Nell’intreccio complessissimo di quella catena di debiti e crediti che è oggi il Finanzcapitalismo reale, in alto come tra alto e basso non siamo tutti nella stessa barca!
Geopolitica dell’interventismo umanitario
Il secondo fattore è che la partita si è esplicitamente fatta anche geopolitica e militare. Se qualcuno crede che la fine del “tiranno” Gheddafi sia una questione di intervento umanitario pro civili e di appoggio disinteressato alla causa dei valorosi freedom fighters, auguri. In realtà Washington, con l’aiuto (idiota) francese e (intelligente) inglese, ha con abilità riguadagnato spazi di manovra nell’area mediorientale detournando la promettente primavera araba per bloccarne la radicalizzazione, rovesciare a modo proprio i regimi non fidati (il prossimo: Siria o direttamente Iran?), dare uno schiaffo a Cina e Russia, mettere in difficoltà l’Europa (sotto questa luce, ridicolo o patetico il giro di valzer della politica italiota che ne esce con un sonoro schiaffone e interessi decurtati,vedi Eni). Senza con questo voler semplificare le contraddittorie dinamiche in atto e dare per definitivamente bloccata la sollevazione araba, è evidente che sul terreno militare ad oggi non c’è partita contro gli States. E Obama ha saputo dimostrare che questo terreno non è agibile solo coi metodi bushiani. E neppure va sottovalutato il messaggio politico che un leader come Cameron ha lanciato alla sua middle class tartassata dalla crisi: il rischio per la piccola proprietà non sarebbe rappresentato dalla finanza ma da “tiranni” mediorientali e giovani della nuova underclass.
Dittatura dei mercati
Al nuovo passaggio della crisi ci si arriva comunque sia con le armi spuntate. Salvata la grande finanza privata a costo di un incredibile socializzazione delle perdite, ma fallita la formula, ora ci si trova con una caterva di debiti “pubblici” da pagare pena lo spettro del default, cifra del nuovo emergenzialismo post guerra al terrorismo.
In questo quadro lo pseudo-bipolarismo in salsa italica è ben attestato su un terreno comune: i mercati, le borse indicano quanto va fatto senza appello e senza indugi, altrimenti sarà “come in Grecia”. Ci si può dividere, e sempre meno in termini sostanziali, su come imbellettare i sacrifici ma questi vanno fatti. In questa semplice formula si riassume tutta la sapienza della politica istituzionale.
Con una sfumatura e attenzione sociale differente, le “forze sociali responsabili” (di fronte a chi? innanzitutto agli stessi diktat dell’economia) come la Cgil, consapevole di dover in qualche modo catturare il disagio e seriamente preoccupati del declino socio-economico italico, propongono “sacrifici equi per tutti”. Il debito pubblico è di “tutti”e va pagato ma non esclusivamente dai soliti noti e non senza misure per la “crescita”. Anche qui, there is no alternative ma almeno…
Ora, anche senza voler mettere in campo -ma è possibile a questo punto?- il fatto che in fallimento è un intero meccanismo di crescita basato sulla finanziarizzazione e non si vede perchè le ricette che hanno portato alla crisi dovrebbero anche risolverla, è possibile avanzare due riflessioni. Ai cosiddetti mercati più dai e più ingoiano ed esigono senza che per questo ci sia ripresa dell’occupazione e delle condizioni sociali: non è cattiveria o avidità, è un dato strutturale oramai con numerose evidenze intorno a noi. Quindi, cedere significa imbucarsi in un tunnel senza luce possibile al fondo, e anzi farlo da posizioni di sempre maggiore debolezza.
Inoltre, e non è secondario, accettare sacrifici con questa ineffabile classe politica e dirigente, centrodestra o centrosinistra che sia, banchieri o confindustriali, Montezemolo o Profumo, e con questo sistema istituzionale e di rappresentanza sempre più separato e blindatoo, vale negarsi a priori, verrebbe da dire, ogni via d’uscita.
Debito di chi e per cosa? Spunti di soggettività altra
Non si tratta di introdurre temi ideologici esterni al sentire comune della gente, ancorchè confuso. Non è che non si vedono il disastro sociale in Grecia, e le lotte che lì non si sono placate, o gli spunti degli indignados spagnoli, o ancora il fallimento delle ricette obamiane e la mancanza di prospettive delle élites europee. Da noi poi abbiamo avuto i referendum contro la privatizzazione dei beni comuni, oggi rimessi violentemente in discussione dalle manovre di agosto, ed è in pieno corso la lotta NoTav.
Il nodo comune che sempre più emerge ed emergerà dalle disparate reazioni della gente comune è quello degli immani costi umani sociali e ambientali dell’economia del debito. La finanziarizzazione della vita, nelle sue molteplici forme, divora letteralmente il presente e ancor più il futuro: che fine faranno le pensioni? E l’istruzione? E la sanità? La precarietà è un destino inappellabile? E tutto questo per cosa, per quale tipo di sviluppo e di società?
Dietro tutto ciò la questione di fondo: a chi vanno i proventi del debito? Ad una cupola ultraconcentrata di fondi finanziari internazionali (in stragrande maggioranza anglosassoni ma con appendici e uomini dappertutto) il cui potere non solo non è stato per nulla intaccato dalla crisi ma oggi passano all’incasso elle risorse pubbliche che li hanno salvati. Quale il dispositivo fondamentale? Il pagamento degli interessi che insieme all’oscillazione alternata della curva dei tassi -ora bassi per favorire l’indebitamento dei soggetti più disparati, poi alti per strangolare e costringere all’emissione di sempre nuovi titoli debitori- non fa che alimentare la malattia. Con ciò il capitale si autonomizza dal lavoro. Ma la sua è un’autonomia illusoria e precaria: perchè è comunque alla produzione sociale che sottrae la linfa. Ed è per questo che la crisi attuale solleva questioni “di sistema”: continuare a pagare il debito non può che riprodurre in maniera allargata le radici stesse della crisi e prolungare, anzichè fermare, il nostro dissanguamento. Senza pagamento del debito il meccanismo si arresterebbe, ma ad arrestarsi sarebbe il meccanismo di una riproduzione capitalistica sempre più distruttiva, niente affatto quello della riproduzione sociale della vita, anche se ci vogliono convincere del contrario.
È allora “solo” questione di tempo e le reazioni agli effetti ultimi della crisi si troveranno costrette, non dalle idee di pochi “coscienti” ma dall’esperienza di molti, moltissimi, ad affrontare il problema di come organizzare diversamente la vita e il lavoro con un sistema “alternativo” di riproduzione sociale. Ciò non significa, attenzione, che già oggi le popolazioni siano disposte a rifiutare in generale il fardello del debito anche a rischio di default (il caso greco, nonostante alcuni promettenti segnali, lo dimostra mentre quello islandese è troppo peculiare). Non è così almeno per due ragioni di fondo. Innanzitutto, la finanziarizzazione è entrata profondamente nella vita dei soggetti, non è una mera escrescenza esogena ma l’“illusione reale” di accedere al reddito tramite l’esposizione sui mercati della potenza del proprio corpo-mente e delle proprie relazioni, una potenza sociale percepita però come capitale individuale. Non si salta senza scossoni e lotte oltre questo passaggio, forte è ad oggi il timore di rimettere in discussione con la crisi del sistema bancario e di borsa la propria stessa esistenza così come con il fallimento dell’impresa di veder cancellato il reddito legato al lavoro. In secondo luogo, non ci si stacca da meccanismi così potenti senza intravedere un barlume di alternativa “di sistema”, senza la capacità autonoma di ricostruire i legami sociali che colmino la voragine apertasi.
È però vero anche l’inverso. Da un lato vediamo attestarsi la gran massa delle popolazioni sulla linea dei sacrifici purchè distribuiti equamente fra tutti; dall’altro inizia a farsi strada l’idea che la soluzione non stia nel “non pagare solo noi” ma nel “non pagare” affatto per i costi della crisi. Su questo scarto si giocherà probabilmente la dinamica sociale e politica a venire. Esemplare al riguardo è la dinamica della lotta No Tav nella sua capacità di agganciare il nodo del debito pubblico -chi paga l’alta velocità e a chi/quale modello serve nella crisi?- che ha saputo anticipare nel panorama italiano e però, al tempo stesso, nel suo attestarsi ad oggi su un’indicazione per un suo abbattimento “virtuoso” ancorché legato a una lotta per un diverso modello di sviluppo e di politica.
In questo processo non privo di ambivalenze, e a condizione che proliferino e si ricompongano “vertenze” sui nodi della riproduzione sociale, sarà possibile far crescere l’obiettivo generale del rifiuto in quanto tale del pagamento del debito, e non solo come rivendicazione difensiva ma come processo costituente di riappropriazione della ricchezza sociale. (In una cornice almeno continentale: ma l’attuale discussione su eurobond ed Europa, a sinistra ancora piuttosto imprecisa e “scivolosa”, non è qui possibile affrontarla).
Tasse o reddito di esistenza?!
Nulla di tutto questo, ovviamente, nel programma ufficiale del sei settembre. Al contrario, risuona per l’ennesima volta la oramai incredibile storiella della “lotta all’evasione fiscale” come misura risolutiva delle difficoltà. A parte il fatto che messa così è poi difficile prendere le distanze dalle declamazioni ipocrite di Tremonti e Calderoli(!), sono i presupposti stessi a essere irrealistici e deleteri. Irrealistici perchè la grande evasione sta molto in alto, è un meccanismo strutturale che non verrà toccato in maniera incisiva da nessun governo di qualsivoglia colore (v. anche Obama) stante la necessità improrogabile di non disincentivare la “propensione a investire” (in quali settori, è un altro discorso). Deleteri perchè questo approccio -oltre a dimenticare che il lavoro tassato è sfruttato due volte- mina alla radice la possibilità di ogni politica di “alleanze” con la massa crescente di lavoro salariato di fatto ma formalmente non dipendente, con il lavoro autonomo di seconda ma anche di prima generazione (ovviamente non parliamo di ricchi professionisti, faccendieri, consulenti ammanicati con la politica, palazzinari ecc.) che si muove spesso al limite della sopravvivenza, tra fidi bancari e assenza di ammortizzatori sociali, tra rancore individuale e però anche disillusione verso berlusconismo e leghismo. Ecco un ampio settore da sottrarre alla destra che invece la politica sindacale, in questo del tutto consonante con l’opposizione di centrosinistra, si prepara nuovamente a regalare a una destra postberlusconiana ancora più incarognita. Frutti velenosi del mix di statalismo e moralismo quando invece a pagare dovrebbero essere non gli “evasori” genericamente intesi ma i “ricchi”, le grandi imprese, le banche, proprio quei soggetti a favore dei quali (v. Marchionne) lo Stato storna ricchezze.
E senza contare che il discorso anti-evasione presuppone comunque e sempre un prelievo sul lavoro, sfruttato così due volte, e che pure ammesso che si tolga ai ricchi lo si farebbe per dare ai ricchissimi di Wall Street. Per intanto a pagare da subito e salato sarà il lavoro salariato (v. l’aumento di tasse dirette e indirette della manovra governativa) in vista di recuperi futuribili che puntualmente non si sono mai dati e non si daranno. Su questo terreno come su quello del precariato il discorso sindacale canonico veleggia tra la nostalgia per il “buon tempo che fu” (il lavoro sfruttato ma “garantito” e “rappresentato”) e l’insipienza di fronte alle forme di sfruttamento “postmoderne” che si distendono sull’intero spettro della vita. Col risultato che governo e padroni possono agitare la bandierina della “riforma del welfare” per rompere del tutto un patto generazionale tenuto oramai su solo dal perverso welfare familistico italico. E se invece di tasse parlassimo finalmente di reddito di esistenza? (Non è un caso che la Fiom sia costretta a orecchiare il tema pur restando ancora legata al vecchio schema).
Disarticolazione in atto del sistema politico
Il quadro politico italiano rende particolarmente evidente una verità generale: la crisi destabilizza l’usuale gestione dei poteri, rimette in discussione gli equilibri fra i vari livelli istituzionali e territoriali, soprattutto disarticola i tanto declamati partiti personali e mediatici mettendone a nudo le fragilità di fondo stante l’incapacità strutturale di praticare mediazione sociale effettiva, sostituita nella fase della finanziarizzazione ascendente dai quei flussi clientelari di denaro definiti governance che oggi rischiano appunto di prosciugarsi o comunque di perdere quella capacità di composizione/scomposizione di un corpo sociale disperso in una miriade di soggetti frammentati che fin qui hanno avuto.
Tutto questo si dà in superficie nelle vesti di una “casta” politica arrivata alla frutta, senza idee e proposte, abbarbicata sui privilegi che declama ora di voler tagliare ma di cui non può fare a meno perchè sono i vettori della governance a tutti i livelli. A quello nazionale, dove lo Stato si è trasformato definitivamente in una funzione della sovranità dei mercati finanziari e delle banche centrali sovranazionali; ai livelli territoriali medio-grandi dove, in salsa leghista o berlusconiana, mastelliana o pidiessina, l’intreccio tra enti locali, imprese finanziarizzate, business dei derivati e “grandi opere” è oramai strutturale e va ben oltre i singoli casi di “corruzione” (v. Pisapia e l’expo milanese, il Pd torinese e l’alta velocità: non c’è bisogno di un Penati…). Non è un caso che la critica alle misure del governo da parte dei Comuni medi e metropolitani di ogni colore, per non parlare delle ragioni guidate da Formigoni, si appunta -dietro la generica denuncia dei “tagli”- sul venir meno proprio delle possibilità di “investimento” e di privatizzazione dei servizi pubblici secondo le esigenze della partnership pubblico-privato di questa neoborghesia territoriale (vedere a riprova cosa è diventata in pochissimo tempo la Lega: il Pci ci aveva messo qualche anno in più).
La disarticolazione del sistema politico-partitico, che è l’altra faccia della crisi della rappresentanza democratica, è un fatto. Il problema, in basso a sinistra, è come agirla dentro la crisi. Ci piacerebbero tante piazze Tahrir a scala continentale, ma nella mora è importante rimettere al centro una discussione sul come si prepara, o non si prepara, un percorso in direzione di una trasformazione radicale. Non lo si prepara liquidando tutto ciò che non si muove nei binari della vecchia politica e del politically correct di sinistra come “antipolitica”, “populismo”, ecc.: sia perchè si dimostra così di non capire le ragioni profonde delle nuove forme di mobilitazione, anche nei contenuti ambigui e contraddittori, sia perchè si finisce col rimanere al di qua del sentire sempre più diffuso “sono tutti uguali” invece di contribuire a posizionarsi al di là di esso e con la sua carica di rabbia. Non lo si prepara se non si tiene conto che la trasformazione dei partiti (tutti) è irreversibile, non solo per il loro farsi “impresa liquida”, ma perchè non possono più rispondere in nessun caso alla valorizzazione del protagonismo degli individui e delle relazioni umane che, seppur in maniera ambivalente, è radicata strutturalmente nella nuova composizione sociale. Non lo si prepara senza fare i conti fino in fondo col fatto che se ciò che è “politico” deve riacquisire significato per la vita deve essere interno al sociale, il suo farsi “di parte” antagonistico in cerca di soluzioni comuni: non a caso è (anche, a volte) quel che resta di un movimento sindacale non degenerato a raccogliere o “rappresentare” in certi momenti le istanze di cambiamento più generali in quanto più vicino ai nessi della riproduzione sociale e del lavoro, dove si crea e organizza la ricchezza sociale.
Se è così, una dinamica di mobilitazione radicale non può non tendere a scardinare i partiti istituzionali, a mostrare il vuoto in cui sono finiti, tutti, quel vuoto dal quale emerge la cupola dei veri decisori internazionali. Tempi e modi, come ovvio, non si decidono a tavolino. Per ora abbiamo due esempi concreti: il movimento NoTav e gli indignados spagnoli che, in contesti assai diversi, con flessibilità e intelligenza, si sono posizionati in piena autonomia da entrambi i poli partitici, pur senza farne un calderone indistinto, e hanno approssimato il livello anche europeo delle rispettive battaglie. Se questo ha una valenza più generale, ci dice che in Italia è indispensabile passare per una messa crisi decisiva del “principale partito di opposizione”, già di suo risucchiato dal grande centro in formazione e dal partito di Repubblica. Può essere che questo processo si incroci con qualche tentativo di “recupero” dal basso di questo partito a istanze un tantino meno forcaiole, ma nel caso ciò sarà possibile (comunque solo molto parzialmente) come sottoprodotto di dinamiche ampie di lotta, controllo dal basso e formazione di contropoteri, e non per qualche narrazione che il Pd punta semplicemente a salvarlo con qualche ritocco.
La primavera italiana, appena abbozzata, è già passata nell’estate calda valsusina. Se la brezza diventasse tempesta, la nostra non quella dei mercati…
Redazione InfoAut
5 settembre ‘11
I fans sono accontentati: Napolitano vuole l’approvazione della manovra bis del governo, e subito. Per tranquillizzare i mercati, of course. Come per l’affaire libico, con il cavaliere e tutto il governo in estrema difficoltà l’autorevole supplente entra in campo a supporto dei veri mandanti: il comitato di consulenza Draghi&Monti celere a recapitare a Roma i messaggi congegnati a Francoforte e Bruxelles. Il tutto in vista di quel “governo tecnico” di emergenza nazionale -su cui l’opposizione avrebbe ancor meno voce in capitolo- perorato dalla finanza internazionale che ha già allungato le mani sulla nuova preda. Quando si dice “credibilità” sui mercati…
Sciopero, malgrado tutto
Che la situazione italiana stia precipitando lo segnala proprio lo sciopero generale proclamato dalla Cgil. Ha sorpreso un po’ tutti, probabilmente la sua stessa base, dopo la firma apposta sotto l’accordo infame del 28 giugno che ha blindato la rappresentanza sindacale contro ogni minima spinta autonoma dal basso e contro la stessa Fiom. Ora Camusso prende atto che con la manovra si passa alla cancellazione definitiva non solo dell’articolo 18 sulla licenziabilità ma della valenza dei contratti nazionali e di ogni rappresentanza formale che non sia alla Bonanni, per dirla in breve: da servi e/o utili idioti. Certo, la gabbia se l’è preparata la stessa Cgil, ma adesso brucia.
Uno sciopero malgré soi, dunque. Vi è costretta per la durezza delle misure contro i soliti noti senza che il governo abbia voluto o saputo offrire la minima contropartita, anche solo simbolica, in termini di “sacrifici equi”. E per la nullità, nessuna sorpresa qui, dell’opposizione del Pd che attaccando la proclamazione dello sciopero -basta vedere la lettera dei galoppini di Chiamparino e della lobby pro-Tav a Torino- ha mostrato ancora una volta di essere separato come da un abisso dal paese reale, dalla crescente indignazione e rabbia trasversali ai diversi settori sociali, di essere incapace della minima seria interlocuzione con essi, completamente prono ai diktat dei mercati finanziari e, se è possibile, più realista del re.
In questo quadro, e senza nessun facile entusiasmo, il sei settembre può essere un’occasione -lo hanno inteso i sindacati alternativi pur con le solite tentazioni minoritariste- per iniziare a vedere in piazza la rabbia, per provare a creare situazioni oltre la mera testimonianza cui gli stanchi cortei sindacali ci hanno (mal) abituato, per riprendere una discussione sul dove siamo e dove vogliamo andare. Tenuto conto che se la Cgil programmaticamente esclude un percorso di crescita reale della mobilitazione il dato di fondo è che l’Italia è oramai entrata nei gironi più interni della crisi globale e da lì non si torna indietro. (Qualcuno lo ricordi all’intelligentone Tremonti, quello che le banche italiane sono sane ecc.). Ma se le cose stanno così, le dinamiche sociali una volte innescate non potranno accontentarsi del magro menù di questo sciopero. Anzi, se il disagio si allargherà e radicalizzerà, il primo problema sarà proprio come proseguire la mobilitazione, che forme e contenuti darle per renderla efficace, che respiro farle assumere oltre le barriere nazionali palesemente insufficienti, insomma: come andare oltre l’indignazione verso un programma di lotta e insieme di effettiva alternativa alla situazione attuale.
Problema per niente banale.
Proviamo allora ad approssimare qualche ipotesi di lavoro sul presupposto che non solo la crisi globale sta entrando in una nuova fase ma anche che le dinamiche soggettive possono e debbono fare un salto.
Un nuovo giro di crisi
In estrema sintesi, gli sviluppi agostani della crisi -sotto gli occhi di tutti a partire dai paurosi capitomboli della borse, principalmente europee, e dagli attacchi “speculativi” a Italia e Spagna- possono forse essere ricondotti a due fili principali.
Il primo è il peggioramento della congiuntura economica negli States che segna, questo il punto, il fallimento della strategia della Federal Reserve e di Obama di contrasto della crisi attraverso la creazione di moneta (ripianamento del debito con nuovo debito). Questo peculiare keynesismo finanziario ha mancato proprio l’obiettivo principale: rilanciare la domanda. Profitti se ne fanno, ma come prima e più di prima si sono involati nei rally di borsa mentre occupazione e redditi della popolazione non fanno che calare e la ripresa tarda. Così i nodi dell’indebitamento scaricato sui bilanci statali vengono al pettine. Di qui l’inasprimento dello scontro politico e la definitiva eclisse interna dell’esperimento Obama!
Ora, l’elemento decisivo della nuova situazione è che proprio l’incrudirsi della crisi negli Stati Uniti è la causa diretta dell’addensarsi della seconda e più distruttiva tempesta sull’Unione Europea e sui due pezzi grossi della sua “periferia”. Nel senso che, stante la non risoluzione dei problemi e i rischi effettivi di un double dip, la partita si è spostata ora decisamente sul come ripartire i costi della crisi tra i vari attori internazionali: di qui lo scontro sulle valute (l’euro sopravviverà?), e su chi (Ue?) deve bruciare propri capitali per salvare quelli degli altri (Usa) ovvero mettere risparmi patrimoni e produzioni a disposizione dei grandi fondi della finanza internazionale (v. crollo azionario delle banche italiche così più facili da ingurgitare). Uno scontro che si intreccia, va da sè, con quello su chi deve essere il beneficiario di ultima istanza del prelievo sul lavoro da inasprire senza precedenti (questione di mesi e ci beccheremo una bella “patrimoniale” sui conti correnti, copyright Profumo). Insomma, la torta non si allargherà per un bel po’, quindi si tratta di sottrarne porzioni agli altri non più solo con i classici meccanismi della competizione sui mercati e sul lavoro ma costringendo gli avversari direttamente a distruggere capitale (sub forma di titoli che divengono inesigibili). Nell’intreccio complessissimo di quella catena di debiti e crediti che è oggi il Finanzcapitalismo reale, in alto come tra alto e basso non siamo tutti nella stessa barca!
Geopolitica dell’interventismo umanitario
Il secondo fattore è che la partita si è esplicitamente fatta anche geopolitica e militare. Se qualcuno crede che la fine del “tiranno” Gheddafi sia una questione di intervento umanitario pro civili e di appoggio disinteressato alla causa dei valorosi freedom fighters, auguri. In realtà Washington, con l’aiuto (idiota) francese e (intelligente) inglese, ha con abilità riguadagnato spazi di manovra nell’area mediorientale detournando la promettente primavera araba per bloccarne la radicalizzazione, rovesciare a modo proprio i regimi non fidati (il prossimo: Siria o direttamente Iran?), dare uno schiaffo a Cina e Russia, mettere in difficoltà l’Europa (sotto questa luce, ridicolo o patetico il giro di valzer della politica italiota che ne esce con un sonoro schiaffone e interessi decurtati,vedi Eni). Senza con questo voler semplificare le contraddittorie dinamiche in atto e dare per definitivamente bloccata la sollevazione araba, è evidente che sul terreno militare ad oggi non c’è partita contro gli States. E Obama ha saputo dimostrare che questo terreno non è agibile solo coi metodi bushiani. E neppure va sottovalutato il messaggio politico che un leader come Cameron ha lanciato alla sua middle class tartassata dalla crisi: il rischio per la piccola proprietà non sarebbe rappresentato dalla finanza ma da “tiranni” mediorientali e giovani della nuova underclass.
Dittatura dei mercati
Al nuovo passaggio della crisi ci si arriva comunque sia con le armi spuntate. Salvata la grande finanza privata a costo di un incredibile socializzazione delle perdite, ma fallita la formula, ora ci si trova con una caterva di debiti “pubblici” da pagare pena lo spettro del default, cifra del nuovo emergenzialismo post guerra al terrorismo.
In questo quadro lo pseudo-bipolarismo in salsa italica è ben attestato su un terreno comune: i mercati, le borse indicano quanto va fatto senza appello e senza indugi, altrimenti sarà “come in Grecia”. Ci si può dividere, e sempre meno in termini sostanziali, su come imbellettare i sacrifici ma questi vanno fatti. In questa semplice formula si riassume tutta la sapienza della politica istituzionale.
Con una sfumatura e attenzione sociale differente, le “forze sociali responsabili” (di fronte a chi? innanzitutto agli stessi diktat dell’economia) come la Cgil, consapevole di dover in qualche modo catturare il disagio e seriamente preoccupati del declino socio-economico italico, propongono “sacrifici equi per tutti”. Il debito pubblico è di “tutti”e va pagato ma non esclusivamente dai soliti noti e non senza misure per la “crescita”. Anche qui, there is no alternative ma almeno…
Ora, anche senza voler mettere in campo -ma è possibile a questo punto?- il fatto che in fallimento è un intero meccanismo di crescita basato sulla finanziarizzazione e non si vede perchè le ricette che hanno portato alla crisi dovrebbero anche risolverla, è possibile avanzare due riflessioni. Ai cosiddetti mercati più dai e più ingoiano ed esigono senza che per questo ci sia ripresa dell’occupazione e delle condizioni sociali: non è cattiveria o avidità, è un dato strutturale oramai con numerose evidenze intorno a noi. Quindi, cedere significa imbucarsi in un tunnel senza luce possibile al fondo, e anzi farlo da posizioni di sempre maggiore debolezza.
Inoltre, e non è secondario, accettare sacrifici con questa ineffabile classe politica e dirigente, centrodestra o centrosinistra che sia, banchieri o confindustriali, Montezemolo o Profumo, e con questo sistema istituzionale e di rappresentanza sempre più separato e blindatoo, vale negarsi a priori, verrebbe da dire, ogni via d’uscita.
Debito di chi e per cosa? Spunti di soggettività altra
Non si tratta di introdurre temi ideologici esterni al sentire comune della gente, ancorchè confuso. Non è che non si vedono il disastro sociale in Grecia, e le lotte che lì non si sono placate, o gli spunti degli indignados spagnoli, o ancora il fallimento delle ricette obamiane e la mancanza di prospettive delle élites europee. Da noi poi abbiamo avuto i referendum contro la privatizzazione dei beni comuni, oggi rimessi violentemente in discussione dalle manovre di agosto, ed è in pieno corso la lotta NoTav.
Il nodo comune che sempre più emerge ed emergerà dalle disparate reazioni della gente comune è quello degli immani costi umani sociali e ambientali dell’economia del debito. La finanziarizzazione della vita, nelle sue molteplici forme, divora letteralmente il presente e ancor più il futuro: che fine faranno le pensioni? E l’istruzione? E la sanità? La precarietà è un destino inappellabile? E tutto questo per cosa, per quale tipo di sviluppo e di società?
Dietro tutto ciò la questione di fondo: a chi vanno i proventi del debito? Ad una cupola ultraconcentrata di fondi finanziari internazionali (in stragrande maggioranza anglosassoni ma con appendici e uomini dappertutto) il cui potere non solo non è stato per nulla intaccato dalla crisi ma oggi passano all’incasso elle risorse pubbliche che li hanno salvati. Quale il dispositivo fondamentale? Il pagamento degli interessi che insieme all’oscillazione alternata della curva dei tassi -ora bassi per favorire l’indebitamento dei soggetti più disparati, poi alti per strangolare e costringere all’emissione di sempre nuovi titoli debitori- non fa che alimentare la malattia. Con ciò il capitale si autonomizza dal lavoro. Ma la sua è un’autonomia illusoria e precaria: perchè è comunque alla produzione sociale che sottrae la linfa. Ed è per questo che la crisi attuale solleva questioni “di sistema”: continuare a pagare il debito non può che riprodurre in maniera allargata le radici stesse della crisi e prolungare, anzichè fermare, il nostro dissanguamento. Senza pagamento del debito il meccanismo si arresterebbe, ma ad arrestarsi sarebbe il meccanismo di una riproduzione capitalistica sempre più distruttiva, niente affatto quello della riproduzione sociale della vita, anche se ci vogliono convincere del contrario.
È allora “solo” questione di tempo e le reazioni agli effetti ultimi della crisi si troveranno costrette, non dalle idee di pochi “coscienti” ma dall’esperienza di molti, moltissimi, ad affrontare il problema di come organizzare diversamente la vita e il lavoro con un sistema “alternativo” di riproduzione sociale. Ciò non significa, attenzione, che già oggi le popolazioni siano disposte a rifiutare in generale il fardello del debito anche a rischio di default (il caso greco, nonostante alcuni promettenti segnali, lo dimostra mentre quello islandese è troppo peculiare). Non è così almeno per due ragioni di fondo. Innanzitutto, la finanziarizzazione è entrata profondamente nella vita dei soggetti, non è una mera escrescenza esogena ma l’“illusione reale” di accedere al reddito tramite l’esposizione sui mercati della potenza del proprio corpo-mente e delle proprie relazioni, una potenza sociale percepita però come capitale individuale. Non si salta senza scossoni e lotte oltre questo passaggio, forte è ad oggi il timore di rimettere in discussione con la crisi del sistema bancario e di borsa la propria stessa esistenza così come con il fallimento dell’impresa di veder cancellato il reddito legato al lavoro. In secondo luogo, non ci si stacca da meccanismi così potenti senza intravedere un barlume di alternativa “di sistema”, senza la capacità autonoma di ricostruire i legami sociali che colmino la voragine apertasi.
È però vero anche l’inverso. Da un lato vediamo attestarsi la gran massa delle popolazioni sulla linea dei sacrifici purchè distribuiti equamente fra tutti; dall’altro inizia a farsi strada l’idea che la soluzione non stia nel “non pagare solo noi” ma nel “non pagare” affatto per i costi della crisi. Su questo scarto si giocherà probabilmente la dinamica sociale e politica a venire. Esemplare al riguardo è la dinamica della lotta No Tav nella sua capacità di agganciare il nodo del debito pubblico -chi paga l’alta velocità e a chi/quale modello serve nella crisi?- che ha saputo anticipare nel panorama italiano e però, al tempo stesso, nel suo attestarsi ad oggi su un’indicazione per un suo abbattimento “virtuoso” ancorché legato a una lotta per un diverso modello di sviluppo e di politica.
In questo processo non privo di ambivalenze, e a condizione che proliferino e si ricompongano “vertenze” sui nodi della riproduzione sociale, sarà possibile far crescere l’obiettivo generale del rifiuto in quanto tale del pagamento del debito, e non solo come rivendicazione difensiva ma come processo costituente di riappropriazione della ricchezza sociale. (In una cornice almeno continentale: ma l’attuale discussione su eurobond ed Europa, a sinistra ancora piuttosto imprecisa e “scivolosa”, non è qui possibile affrontarla).
Tasse o reddito di esistenza?!
Nulla di tutto questo, ovviamente, nel programma ufficiale del sei settembre. Al contrario, risuona per l’ennesima volta la oramai incredibile storiella della “lotta all’evasione fiscale” come misura risolutiva delle difficoltà. A parte il fatto che messa così è poi difficile prendere le distanze dalle declamazioni ipocrite di Tremonti e Calderoli(!), sono i presupposti stessi a essere irrealistici e deleteri. Irrealistici perchè la grande evasione sta molto in alto, è un meccanismo strutturale che non verrà toccato in maniera incisiva da nessun governo di qualsivoglia colore (v. anche Obama) stante la necessità improrogabile di non disincentivare la “propensione a investire” (in quali settori, è un altro discorso). Deleteri perchè questo approccio -oltre a dimenticare che il lavoro tassato è sfruttato due volte- mina alla radice la possibilità di ogni politica di “alleanze” con la massa crescente di lavoro salariato di fatto ma formalmente non dipendente, con il lavoro autonomo di seconda ma anche di prima generazione (ovviamente non parliamo di ricchi professionisti, faccendieri, consulenti ammanicati con la politica, palazzinari ecc.) che si muove spesso al limite della sopravvivenza, tra fidi bancari e assenza di ammortizzatori sociali, tra rancore individuale e però anche disillusione verso berlusconismo e leghismo. Ecco un ampio settore da sottrarre alla destra che invece la politica sindacale, in questo del tutto consonante con l’opposizione di centrosinistra, si prepara nuovamente a regalare a una destra postberlusconiana ancora più incarognita. Frutti velenosi del mix di statalismo e moralismo quando invece a pagare dovrebbero essere non gli “evasori” genericamente intesi ma i “ricchi”, le grandi imprese, le banche, proprio quei soggetti a favore dei quali (v. Marchionne) lo Stato storna ricchezze.
E senza contare che il discorso anti-evasione presuppone comunque e sempre un prelievo sul lavoro, sfruttato così due volte, e che pure ammesso che si tolga ai ricchi lo si farebbe per dare ai ricchissimi di Wall Street. Per intanto a pagare da subito e salato sarà il lavoro salariato (v. l’aumento di tasse dirette e indirette della manovra governativa) in vista di recuperi futuribili che puntualmente non si sono mai dati e non si daranno. Su questo terreno come su quello del precariato il discorso sindacale canonico veleggia tra la nostalgia per il “buon tempo che fu” (il lavoro sfruttato ma “garantito” e “rappresentato”) e l’insipienza di fronte alle forme di sfruttamento “postmoderne” che si distendono sull’intero spettro della vita. Col risultato che governo e padroni possono agitare la bandierina della “riforma del welfare” per rompere del tutto un patto generazionale tenuto oramai su solo dal perverso welfare familistico italico. E se invece di tasse parlassimo finalmente di reddito di esistenza? (Non è un caso che la Fiom sia costretta a orecchiare il tema pur restando ancora legata al vecchio schema).
Disarticolazione in atto del sistema politico
Il quadro politico italiano rende particolarmente evidente una verità generale: la crisi destabilizza l’usuale gestione dei poteri, rimette in discussione gli equilibri fra i vari livelli istituzionali e territoriali, soprattutto disarticola i tanto declamati partiti personali e mediatici mettendone a nudo le fragilità di fondo stante l’incapacità strutturale di praticare mediazione sociale effettiva, sostituita nella fase della finanziarizzazione ascendente dai quei flussi clientelari di denaro definiti governance che oggi rischiano appunto di prosciugarsi o comunque di perdere quella capacità di composizione/scomposizione di un corpo sociale disperso in una miriade di soggetti frammentati che fin qui hanno avuto.
Tutto questo si dà in superficie nelle vesti di una “casta” politica arrivata alla frutta, senza idee e proposte, abbarbicata sui privilegi che declama ora di voler tagliare ma di cui non può fare a meno perchè sono i vettori della governance a tutti i livelli. A quello nazionale, dove lo Stato si è trasformato definitivamente in una funzione della sovranità dei mercati finanziari e delle banche centrali sovranazionali; ai livelli territoriali medio-grandi dove, in salsa leghista o berlusconiana, mastelliana o pidiessina, l’intreccio tra enti locali, imprese finanziarizzate, business dei derivati e “grandi opere” è oramai strutturale e va ben oltre i singoli casi di “corruzione” (v. Pisapia e l’expo milanese, il Pd torinese e l’alta velocità: non c’è bisogno di un Penati…). Non è un caso che la critica alle misure del governo da parte dei Comuni medi e metropolitani di ogni colore, per non parlare delle ragioni guidate da Formigoni, si appunta -dietro la generica denuncia dei “tagli”- sul venir meno proprio delle possibilità di “investimento” e di privatizzazione dei servizi pubblici secondo le esigenze della partnership pubblico-privato di questa neoborghesia territoriale (vedere a riprova cosa è diventata in pochissimo tempo la Lega: il Pci ci aveva messo qualche anno in più).
La disarticolazione del sistema politico-partitico, che è l’altra faccia della crisi della rappresentanza democratica, è un fatto. Il problema, in basso a sinistra, è come agirla dentro la crisi. Ci piacerebbero tante piazze Tahrir a scala continentale, ma nella mora è importante rimettere al centro una discussione sul come si prepara, o non si prepara, un percorso in direzione di una trasformazione radicale. Non lo si prepara liquidando tutto ciò che non si muove nei binari della vecchia politica e del politically correct di sinistra come “antipolitica”, “populismo”, ecc.: sia perchè si dimostra così di non capire le ragioni profonde delle nuove forme di mobilitazione, anche nei contenuti ambigui e contraddittori, sia perchè si finisce col rimanere al di qua del sentire sempre più diffuso “sono tutti uguali” invece di contribuire a posizionarsi al di là di esso e con la sua carica di rabbia. Non lo si prepara se non si tiene conto che la trasformazione dei partiti (tutti) è irreversibile, non solo per il loro farsi “impresa liquida”, ma perchè non possono più rispondere in nessun caso alla valorizzazione del protagonismo degli individui e delle relazioni umane che, seppur in maniera ambivalente, è radicata strutturalmente nella nuova composizione sociale. Non lo si prepara senza fare i conti fino in fondo col fatto che se ciò che è “politico” deve riacquisire significato per la vita deve essere interno al sociale, il suo farsi “di parte” antagonistico in cerca di soluzioni comuni: non a caso è (anche, a volte) quel che resta di un movimento sindacale non degenerato a raccogliere o “rappresentare” in certi momenti le istanze di cambiamento più generali in quanto più vicino ai nessi della riproduzione sociale e del lavoro, dove si crea e organizza la ricchezza sociale.
Se è così, una dinamica di mobilitazione radicale non può non tendere a scardinare i partiti istituzionali, a mostrare il vuoto in cui sono finiti, tutti, quel vuoto dal quale emerge la cupola dei veri decisori internazionali. Tempi e modi, come ovvio, non si decidono a tavolino. Per ora abbiamo due esempi concreti: il movimento NoTav e gli indignados spagnoli che, in contesti assai diversi, con flessibilità e intelligenza, si sono posizionati in piena autonomia da entrambi i poli partitici, pur senza farne un calderone indistinto, e hanno approssimato il livello anche europeo delle rispettive battaglie. Se questo ha una valenza più generale, ci dice che in Italia è indispensabile passare per una messa crisi decisiva del “principale partito di opposizione”, già di suo risucchiato dal grande centro in formazione e dal partito di Repubblica. Può essere che questo processo si incroci con qualche tentativo di “recupero” dal basso di questo partito a istanze un tantino meno forcaiole, ma nel caso ciò sarà possibile (comunque solo molto parzialmente) come sottoprodotto di dinamiche ampie di lotta, controllo dal basso e formazione di contropoteri, e non per qualche narrazione che il Pd punta semplicemente a salvarlo con qualche ritocco.
La primavera italiana, appena abbozzata, è già passata nell’estate calda valsusina. Se la brezza diventasse tempesta, la nostra non quella dei mercati…
5 settembre ‘11
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