Dalla parte dei bambini (che crescono in fretta)
Un buon punto di partenza per aggiungere qualche considerazione allo scenario attuale, sono forse le parole di Christine Lagarde, algida dirigente-capo del Fondo Monetario Internazionale che ha liquidato qualche giorno fa le istanze del governo greco in questi termini: “Ora l’emergenza è ristabilire il dialogo con gli adulti nella stanza“. Nonostante uno dei principali nodi della discordia ruoti intorno agli ulteriori tagli da fare sulle pensioni greche, lo scontro che oppone questa Grecia alla Trojka è già anche, e pienamente, un conflitto generazionale, tra un nuovo governo chiamato a rispondere degli sbagli dei propri genitori (il debito-colpa contratto da conservatori e social-democratici nella spensierata età dell’oro della finanziarizzazione facile) a nuovi e più tirannici patrigni. (Forse, ma vi accenniamo solo tra parentesi, è anche embrionalmente lo scontro tra due differenti composizioni di classe – generazionalmente segnate – all’interno del proletariato greco). Nella misura in cui la scelta dell’infanzia e dell’asolescenza è la scelta dell’ignoto, che comporta il rischio (contro il declino naturale e tranquillo della vecchiaia), quella scelta è preferibile perché più coraggiosa e aperta alla trasformazione. Essa va dunque sostenuta e difesa.
Nel momento in cui i media nostrani tratteggiano uno scenario apocalittico per la Grecia che sarà, non soltanto ci sentiamo tutti e tutte greche, ma proviamo un sincero sentimento di invidia per una popolazione che oggi si prende la libertà di scegliere il proprio futuro (Non perché domenica si decide il domani ma perché in qualche modo si comincia a decidere del domani).
Quelle che seguono sono alcune brevi note, che non aggiungono niente ma che ci sembrava importante pubblicare.
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Il ruolo del Fondo Monetario Internazionale è più determinante è meno neutro di quanto spesso, anche a sinistra, si voglia riconoscere. È capitato di leggere, anche in alcuni articoli pubblicati su Il Manifesto, che in fondo quelle del Fondo Monetario erano richieste legittime perché si trattava di “soldi prestati”, mentre gli strali venivano dirottati sui soliti tedeschi o sull’incorporeo Parlamento di Bruxelles (solo qualche mese fa capitava di leggere analoghe gentilezze nei confronti di Draghi e dellla BCE). Troppo spesso si leggono i movimenti di questi agenti (politico-)finanziari solo sul piano di superficie su cui questi si presentano, dimenticando ch’essi agiscono su livelli interconnessi di una complessa architettura politico-finanziaria, dove possono oggettivamente scontrarsi sulla superficie del loro agire, tutti però operando in direzione di una mercificazione della vita e del pianeta e nell’approfondimento del Dominio capitalistico.
Quando parliamo dell’FMI dobbiamo semmpre ricordarci dei Piani di Aggiustamento Strutturale imposti ai paesi dell’Africa negli anni ’80, in quella che fu una ricolonizzazione di fatto; la rapina della Russia nella transizione del 1991-93; la crisi delle “Tigri Asiatiche” a fine anni ’90; la crisi Argentina del 2001… infinite altre situazioni ai quattro angoli del globo in qui il Fondo appariva come prestatore di finanziamenti in cambio di riforme strutturali: privatizzazioni massicce, deregulation, svendita delle materie prime e dell’energia, tagli alla spesa pubblica. Le rivelazioni quasi quotidiane su dossier e note dell’FMI sull’insolvibilità greca non devono stupire. Stiamo parlando di un soggetto dedito da almeno tre decenni alla pratica del regime change, i cui successi non vanno giudicati dal punto di vista dei miglioramenti economici dei loro “pazienti” ma da quello del loro fallimento, che mentre distrugge territori e impoverisce intere popolazioni intensifica il processo di riproduzione capitalistica nel suo stadio neoliberale. Non si tratta tanto di complotti, ma di una fede cieca e ideologica nelle virtù del libero mercato mischiata sapientemente alle pratiche di sempre con cui i poteri si mantengono, dall’alba dei tempi condotte e negoziate dietro le quinte. (Rileggere oggi, alla luce della crisi greca, il libro della Klein sulla Shock Economy è un esercizio di salute politica e intellettuale).
Analoghe osservazioni devono essere fatte sul situarsi della presente crisi dentro un rinnovato scontro tra potenze nel governo degli ampi spazi. La partita geopolitica ha anch’essa il suo peso e spiega l’apparente disaccordo di superficie tra l’ostinazione rigorista del Fondo Monetario Internazionale e la più flessibile disponibilità del governo statunitense. In molta parte dei media si racconta questa discrepanza rappresentando un Obama interessato alla risoluzione delle crisi e individuato come campione della ripresa economica in patria (quale uscita dalla crisi e chi avvantaggi questa ripresa – a discapito di chi – sono domande che il media mainstream europeo non si pone).
La divaricazione Usa/FMI è invece solo temporanea e di superficie e ha a che fare con la paura americana di uno slittamento politico-diplomatico della Grecia verso Est, un’eventuale messa in discussione della presenza Nato e la rottura della continuità territoriale di questa con la Turchia. Si tratta soprattutto di non regalare una vittoria politica a Putin dopo la crisi in Ucraina.
Sul Piano del rapporto con l’Europa (e l’Euro) gli Usa sono interessati a difendere il Dollaro, evitando un abbassamento del valore dell’Euro perché questo peserebbe come minaccia negli scambi commerciali transatlantici (in un momento in cui il TTIP è bloccato – tra le condizioni auspicate dagli amerikani c’è infatti il salvataggio della Grecia contra l’accettazione del Trattato). Agli Usa interessa insomma difendere l’unità monetaria per poter meglio continuare a scaricare su di essa i contraccolpi della crisi globale!
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Più interessante è per noi cogliere l’acutizzarsi di polarizzazioni politico-sociali nella Grecia chiamata al voto. Dopo mesi di cattura e sussunzione delle dinamiche di piazza e lotta nell’operato governativo, la scelta spiazzante del referendum libera la società greca e i soggetti in esso confliggenti dal silenzio e dalla delega. E il dinamismo politico, mai sopito del tutto, riemerge in superficie. Man mano che questa crisi avanza si arriva al nodo duro e centrale dei rapporti sociali capitalistici e del loro intrinseco carattere antagonista. Giorno per giorno, vediamo affiorare le tensioni latenti tra chi ha ancora qualcosa da perdere e chi ha già perso tutto, mentre chi ha guadagnato sta in silenzio sul fondo e agita i propri burattini e semina spauracchi. Si consuma, sulla piccola scala greca, quanto già avvenuto a levello continentale negli ultimi 15 anni in quei paesi del Latino-America che hanno deciso di uscire dal Washington Consensus: media (pubblici o privati), padronato e blocchi del potere politico ed economico interessati al mantenimento dello status quo (o una radicale accelerazione delle misure neoliberiste), attivissimi nel fomentare un terrorismo psicologico di massa per condizionare quella parte di popolazione ancora indecisa. Giocheranno sporco e pesante fino all’ultimo, usando tutte le armi a loro disposizione. Compagn* grec* raccontano di pressioni e facilitazioni messe in atto da molti padroni nella giornata di martedì per la prima uscita pubblica del Sì: uscite anticipate, minacce velate, consigli inisistenti a riempire la piazza del “Nai” (molte di queste imprese da mesi non pagano i propri dipendenti).
Nel caleidoscopio dei rivolgimenti e dei soggetti che calcano oggi la scena politica greca, non possiamo esimerci dall’evidenziare chi si distingue per cecità e settarismo. Il premio della stupidità politica è vinto questa settimana dal partito dei trinariciuti terzinternazionalisti del KKE (Partito Comunista Greco) che con la loro ultima indicazione politica per una impossibile terza via boicottante il referendum, sono riusciti a fare la scelta sbagliata nel momento più inopportuno. Quella parte di società greca che ha scelto di rifiutare ricatti e umiliazioni li ha già tacciati di “tradimento” e c’è proprio da augurarsi che vengano trattati come tali. A inizio settimana, forse ancora attraversati da un residuo di istinto di classe (che non corrisponde all’osservanza dei precetti ossificati dei maestri ma nell’individuare che è concretamente il nemico), sembravano optare per un appoggio critico del referendum, come hanno fatto, coerentemente, altri gruppi della galassia della sinistra radicale parlamentare e non. Deve poi aver prevalso il settarismo invidioso incapace di giudicare i fatti e i processi nella loro politicità, al di là dei soggetti che se ne fanno portatori. Nei caldi mesi del 2012, del 2010 e del 2008 questo residuo del peggior stalino-togliattismo aveva in più occasioni schierato il suo servizio d’ordine contro i manifestanti che assalivano il Parlamento (talvolta contro i loro stessi militanti di base). C’è da augurarsi che questa loro ultima e nociva scelta aumenti il drenaggio di militanti e il confinamento all’irrilevanza politica per gli anni a venire.
Se la scelta che ci auguriamo faranno le donne e gli uomini della Grecia è chiara, essa non ci esime – ci viene detto e ci diciamo – dall’individuare i limiti dell’esecutivo Tsipras nei suoi 5 mesi di governo. Molt* compagn* grec*, estranei alle logiche parlamentari e allla politica istituzionale, hanno sostenuto giustamente che la battaglia di Syriza si è giocata quasi esclusivamente sul piano esterno, consolidando un blocco e un opposizione nazionale contro la Trojka e lasciando invece inalterati gli equilibri interni e le dinamiche di classe che regolano la società greca. Nessuna effettiva misura contro le classi abbienti, nessun compiuto tentativo di controllare o sequestrare i grossi capitali. Nessuna nazionalizzazione delle risorse e delle banche. Mancanza di un effettivo piano B e incapacità di prefigurare un’alternativa effettiva al capitalsimo incarnato nelle “Istituzioni” europee.
Facciamo nostre e assumiamo tutte queste critiche, ma… senza in alcun modo volerci sostituire al giudizio di chi in Grecia ci vive (e ancor meno voler fare gli avvocati d’ufficio di Tsipras & co.) resta il piccolo dettaglio che misure, riforme e decisioni di questa portata non sono politicamente sostenibili a partire dal solo piano elettorale ma implicano un rapporto di forza nella società che presuppone, come diceva Carl Schmitt, la guerra civile come fondo del polemos. Comunque vada, qualunque sia il risultato del voto di domenica, sarà un passaggio di verifica che condizionerà non poco gli anni a venire, in Grecia e nel resto dell’Europa. L’aver optato per quella scelta in extremis, segna comunque un’anomalia positiva dentro un continente vecchio e addormentato. Una scelta che rimette al centro la responsabilità delle popolazioni contro le supposta naturalità delle istituzioni del capitalismo globale.
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