I cento giorni di Berluscone. Per Mediaset e per il bene del paese
Chissà quali, e quanti, aneddoti ci lasceranno i prossimi cento giorni di Berluscone visto che l’uomo proviene dal mondo dello spettacolo. E chissà se finiranno in una Waterloo oppure in un incofessabile papello all’italiana. E’ sicura una cosa: come i cento giorni di Bonaparte, i prossimi cento di Berluscone hanno robuste spiegazioni materialistiche. Che vanno ben oltre categorie psicologico-romantiche basate sul senso di rivalsa del personaggio e sulle ambizioni personali. L’abbandono dell’isola d’Elba da parte di Napoleone, e il successivo ritorno in Francia, ad esempio andavano ben oltre la logica del calcolo militare. Fu infatti la riforma agraria voluta da Luigi XVIII, che riportava la distribuzione della terra alle condizioni di prima del 1789, a creare quel malcontento diffuso che spinse molti francesi a pressare Napoleone all’Elba per spingerlo all’intervento. Bonaparte si era sempre fatto garante di una riforma agraria, la sua base sociale durante l’Impero, che salvaguardava molte conquiste del 1789. Riforma che con Luigi XVIII era stata messa in discussione. Il messaggio portato a Napoleone in esilio all’Elba fu così chiaro: “o torni in Francia o non avrai più un ruolo” visto che il vero collante sociale del potere napoleonico era la riforma agraria. Fu così che il calcolo militare elaborato durante l’esilio all’Elba, le ambizioni di rivalsa di colui che aveva vinto la battaglia dei tre imperatori, il capolavoro tattico di Austerlitz, dovettero adeguarsi alle pressanti esigenze della redistribuzione della ricchezza in terra di Francia.
Ma si tratta di questioni difficilmente percepite o confessabili dalla stampa soprattutto quella a grande diffusione, alle origini della società dello spettacolo come oggi. Si capisce quindi che anche il comportamento di Berlusconi, per i prossimi 100 giorni preelettorali, segua prima pressanti ragioni materiali poi quelle dettate dallo spirito di rivalsa. E qui bisogna, per l’ennesima volta, ricordare una cosa. Il berlusconismo è sempre stato rappresentato in modo minimale: per scarsa capacità cognitiva, ma anche per quel gioco di interessi reciproci tipico del capitalismo quando preferisce che gli interessi, quelli strategici e veri, non diventino oggetto di conflitto pubblico ma seguano un percorso discrezionale sia di negoziazione o di conflitto.
Accade così che quando si elencano le motivazioni dell’ennesima discesa in campo di Berlusconi, e la conseguente sostanziale liquidazione del governo Monti, la questione fondamentale, la sofferenza di Mediaset nel mercato della comunicazione, resti completamente sullo sfondo. Perchè è dai primi anni ’90, dai tempi della originaria discesa in campo di Berlusconi, che sul tema non si costruiscono vere interpretazioni, aneddoti utili a capire, categorie forti di analisi.
Il rapporto di tra Berlusconi, Mediaset e la politica è di solito sostanzialemente letto come un problema di difesa del tycoon di Arcore dal comportamento della magistratura. Manca la ragione fondamentale, che è costitutiva dei vari partiti Mediaset (da Forza Italia al Pdl). Eppure è una ragione non è solo facile da trovare ma che ha anche determinato un ventennio di vita politica istituzionale italiana. La discesa in campo del ’94 è determinata dalla scomparsa del Psi, dopo Tangentopoli, che era il referente politico dell’allora Fininvest a garanzia della legge Mammì del ’90 (che dava un ruolo forte nel mercato televisivo a Fininvest dopo le guerre commerciali degli anni ’80). La rinuncia di Berlusconi ad usare fino in fondo le armi da fuoco mediatiche del ’94 per le successive elezioni, quelle del ’96, preludeva invece ad un accordo con il centrosinistra di sostanziale non belligeranza sulla questione della capitalizzazione in borsa di Mediaset. Questo dopo il tentativo di governo Maccanico (un Monti ante litteram che andò vicino a formare un esecutivo con l’appoggio di An, dell’allora Pds e di Forza Italia nel febbraio 1996) prima della bicamerale e delle dichiarazioni pubbliche di Veltroni e D’Alema su “Mediaset patrimonio del paese” quando il centrosinistra temeva che le reti di Berlusconi passassero a Murdoch (salvo poi trovare, in casa progressista, un’intesa anche con il tycoon australiano).
Durante gli anni zero il governo a Berlusconi non è certo servito solo per crearsi scudi, più o meno riusciti, ai processi che lo riguardavano in prima persona assieme a Mediaset. E nemmeno solo a creare condizioni fiscali, creditizie, assetti del sistema bancario (negoziati con gli allora ds, si veda la vicenda Unipol-Bnl) favorevoli alla propria azienda (ed anche ad un gigantesco sistema di fatturazione off-shore che si intravede dalle inchieste). Ma soprattutto, come ai tempi della legge Mammì, ad usare lo stato come leva dello sviluppo della holding Mediaset. E la legge Gasparri è stato solo un tassello di questo puzzle. Il controllo, a lungo esercitato, sul garante delle comunicazioni, sulla Sipra (la concessionaria di pubblicità della Rai), il fatto di essere ormai una azienda che conta nei gangli dello stato hanno posto la holding Mediaset, alla vigilia di questo decennio, come l’azienda dominante nel mercato pubblicitario (sia televisivo che editoriale), nella televisione generalista e anche come soggetto emergente nella pay tv (con la nascita di Mediaset Premium e con la politica di diffusione del digitale terrestre che si è cercato di far coincidere con le strategie aziendali). Sul comportamento della concorrenza politica a Berlusconi bastano poche e sbrigative parole. Che non ci dicono solo di una legge mai approvata sul conflitto di interessi ma anche della costituzione materiale della politica istituzionale dell’ultimo ventennio. Costituzione per la quale a Berlusconi toccava lo sviluppo del settore televisivo, quindi fino a poco tempo fa l’egemonia nella comunicazione politica, al centrosinistra un ruolo più politicamente sistemico oltre al via libera per lo sviluppo delle coop nei grandi appalti, di Unipol, di Mps (ora in crisi) e una serie di sinergie comuni sull’edilizia nel nord. Tanto comuni che Penati, ex braccio destro di Bersani in Lombardia e candidato alle regionali disse pubblicamente che Formigoni doveva essere presente alle elezioni (quando l’allora governatore fu temporaneamente estromesso dalla candidatura per una questione di firme). Non che non ci siano stati conflitti tra le parti: è naturale quando un cospicuo patrimonio elettorale del centrosinistra è stato l’antiberlusconismo, quando una funzione sistemica impone di mediare con la magistratura e la corte costituzionale, quando ci sono interessi materiali magari difficili da conciliare. Ma, come ricordò pubblicamente e clamorosamente Luciano Violante in un momento non facile tra le parti, “i patti da parte nostra erano che le televisioni non si toccavano”. Accordo su alcuni temi forti e negoziazione come conflitto su altri: quando si dice che i rapporti tra Berlusconi ed il centrosinistra non rappresentano certo uno dei misteri d’Italia. Per chi questi rapporti li vuol vedere, si intende. E, non a caso, nell’anno di maggioranza di governo comune tra Pd e Pdl, nell’esecutivo Monti, il settore televisivo è stato toccato solo con nomine Rai che penalizzano l’azienda pubblica almeno non mettendo in difficoltà Mediaset in un momento di forte ristrutturazione.
Ma quale è il momento attuale di Mediaset e perchè si può pensare che sia proprio questo fattore a suggerire i cento giorni di Berlusconi? Innanzitutto bisogna ricordare che, a far decidere a Berlusconi di passare il testimone di governo a Monti, fu uno spettacolare -12 sul titolo Mediaset in una sola seduta di borsa oltre al rialzo record dello spread. Con un titolo in queste condizioni, e con un mercato difficile della comunicazione, i vertici di Mediolanum, e della stessa Mediaset, fecero forti e pubbliche pressioni verso la presidenza del consiglio per un cambio di mano alla guida dell’esecutivo che avvenne in breve tempo. Per la prima volta, a causa di una tempesta finanziaria e delle mutate condizioni del mercato della comunicazione come della instabile contingenza politica, la presenza di Berlusconi al governo non era più sinergica con Mediaset ma diventava persino un fattore pericoloso. Ma dopo un anno di governo Monti la situazione è diversa, forse persino rovesciata. Mediaset, che non produce profitti nel settore pay grazie anche alla concorrenza di Murdoch, ha ristrutturato molto. Non solo negli organigrammi aziendali ma anche nei rapporti con i fornitori e le banche. Eppure, a parte la questione delle oscillazioni del titolo, la sentenza del mercato pare essere ancora sfavorevole proprio in prospettiva: “il settore media, in cui Mediaset occupa una posizione di leadership, risente in modo significativo del deterioramento del quadro economico e della conseguente sensibile riduzione degli investimenti in pubblicità. Sul lato dei ricavi pubblicitari permane quindi incertezza sulle prospettive a breve e medio periodo”. Si tratta di parole de La Stampa finanza scritte appena nel novembre 2012.
E non c’è solo la questione della crisi, che si riversa sulla pubblicità (il vero core business di Mediaset), ma anche quella delle rivoluzioni tecnologiche e di comportamento che hanno fatto perdere centralità alla televisione in molti settori dell’entertaiment molto di più dell’epoca del primo homevideo. Ed in una situazione del genere le stesse modalità strutturali di concentrazione del mercato pubblicitario, dove Mediaset è egemone, possono anche essere messe in discussione. E’ evidente quindi che, dopo la soluzione Monti del 2011, a Mediaset adesso si continua di nuovo a sentire la mancanza dello stato come perno dello sviluppo dell’azienda. Lo stesso Ben Ammar, socio storico di Berlusconi, ha detto chiaramente, dopo la presentazione di una pessima trimestrale 2012, che Mediaset non può aspettarsi di ricevere dai soci arabi investimenti in grado di farla uscire da questa doppia dolorosa fase di ristrutturazione e di sofferenza sul mercato. E’ evidente che là dove non può il mercato, per sostenere una azienda di quel livello, a questo punto ci deve pensare lo stato. Ma come?
Il rilancio di Berlusconi e i suoi prossimi cento giorni rappresentano il chiaro tentativo Mediaset, in assenza di altri personaggi in grado di farlo dentro e fuori il Pdl, di ritrovare un ruolo nel business della comunicazione politica e della presenza delle istituzioni. Proprio perchè, specialmente in questi ultimi mesi, le dinamiche di mercato hanno mostrato di non detenere quelle risorse necessarie all’evoluzione dell’azienda. E’ evidente che Berlusconi non potrà puntare immediatamente al governo, per mancanza di numeri (salvo miracoli) e per la contingenza internazionale e dei mercati finanziari a lui al momento sfavorevole. Ma già dal momento incassa due risultati: riportare la dialettica elettorale a una questione Pd-Pdl, in modalità comunque favorevoli al competitor Pd perché riattiva l’antiberlusconismo e mette ai margini Grillo, stabilire comunque una nuova opzione sul terreno del rapporto futuro tra politica e mercato delle comunicazione. Non c’è da stupirsi se, nel breve, il titolo Mediaset ha stabilito la terza migliore performance del Mibtel. Un pò per i risultati positivi della revisione dei conti, nonostante il mercato sfavorevole, un pò per il peso di questa futura possibile opzione politica. Quando si dice mettere a profitto immediato, e contabile, la contingenza politica con qualche dichiarazione.
Come finirà? Per Berlusconi i cento giorni possono risolversi in una nuova Waterloo o in un papello magari inteso come soluzione di un controverso risultato elettorale. Una cosa è certa: nessuno nel centrosinistra desidera, al momento, una Waterloo di Mediaset sul mercato della comunicazione. Non a caso il candidato autodefinitosi più radicale delle primarie, Nichi Vendola, si è ben tenuto lontano dalla questione del conflitto di interessi e da quella della regolazione del mercato della comunicazione. Eppure stiamo parlando di quel mercato, intrecciato a quello pubblicitario, che dagli anni ’80 determina gli assetti politici profondi di questo paese. Un vero cardine della costituzione materiale del potere italiano. Fenomeno che ci insegna una cosa, che non riguarda certo solo l’Italia: se si vuole ristrutturare il potere politico si deve metter mano nelle dinamiche strutturali della comunicazione e della pubblicità. Ma, se l’asse della politica italiana resta convulso come oggi, sarà più facile vedere un altro fenomeno. Quello del mercato della comunicazione che, una volta trovati i propri equilibri, presenterà il conto alla politica. La quale, immancabilmente “per il bene del paese”, finirà per pagarlo perseguendo quanto possibile ogni voce dissonante. A Sant’Elena stavolta rischia di finirci la popolazione italiana.
(red. SenzaSoste) 9 dicembre 2012
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