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I «due marò», la Corte suprema indiana e le fregnacce di casa(pound) nostra

Dopo l’interessante analisi uscita nelle settimane scorse con il titolo I due marò: quello che i media italiani non vi raccontano’, il blog di Giap ha dato spazio ad un ulteriore approfondimento a cura di Matteo Miavaldi sulla vicenda dei Marò, che ripubblichiamo di seguito:

(da wumingfoundation.com)

«Non è colpa mia, ce l’hanno con me». Il racconto dell’Italia su se stessa è un mix di tracotanza e vittimismo.

L’articolo «I due marò: quello che i media (e i politici) italiani non vi hanno detto», scritto da Matteo Miavaldi e pubblicato su Giap una ventina di giorni fa, ha avuto un impatto senza precedenti nella storia di questo blog. Oltre 2000 retweet, quasi 28.000 condivisioni su Facebook, e l’urto dei visitatori (60.000 IP nella sola prima giornata) ha più volte messo in crisi il server che ci ospita. Addirittura, il “rimbalzo” prodotto dai nostri link ha fatto cedere il server che ospita il sito China Files, del quale Miavaldi è caporedattore per l’India.
Dalla discussione in calce, ripresa con grande risalto anche da testate nazionali come Il Fatto Quotidiano, è partita un’inchiesta collettiva che ora prosegue su due livelli: sul blog e in un gruppo di lavoro nato ad hoc. Il gruppo sta portando avanti ricerche e scrivendo un “libro bianco” sul cortocircuito “diplomediatico”/politico e il ruolo dell’estrema destra nella gestione del caso Girone-Latorre.
Intorno a questo caso si è mosso e tuttora si muove uno strano sottobosco, una “compagnia di giro” già vista esibirsi in altre italiche pochades. Il cast include “fascisti del terzo millennio”,  bizzarre figure di “tecnici” mobilitati da politici e giornalisti amici per confezionare “analisi” a misura dei media, folgorati reporter post-missini perennemente “embedded” in settori delle forze armate etc.
Quest’interzona tra politica estera e giornalismo di guerra è così: qualunque sasso alzi, ecco una biscia che striscia via, via… invariabilmente verso il Corno d’Africa, verso il rimosso del nostro colonialismo e il rimosso ancor più rimosso del nostro neocolonialismo, verso le rotte del petrolio e di altri traffici meno menzionabili.
Questa “narrazione tossica” incrocia tutti, ma proprio tutti i temi che siamo soliti trattare su Giap, perciò continueremo a occuparcene.
Abbiamo chiesto a Miavaldi di scrivere un nuovo pezzo, alla luce delle decisioni prese pochi giorni fa a New Delhi e del modo in cui i media italiani le hanno riferite – cioè, ça va sans dire, a cazzo di cane. Ecco qui. Buona lettura.

di Matteo Miavaldi

«(ANSA) – NEW DELHI, 18 GEN – La Corte suprema indiana ha deciso oggi che il giudizio sui due marò italiani sia trasferito ad un tribunale speciale che sarà costituito a New Delhi. Dopo aver precisato che il Kerala non aveva giurisdizione sul caso, la corte ha stabilito quindi la creazione di tale tribunale in collaborazione col governo centrale.»

Due minuti dopo sempre l’Ansa riporta le dichiarazioni di Harish Salve, avvocato a capo della difesa dei marò in India, che si dice «molto soddisfatto per la sentenza della Corte suprema», che ha tolto la giurisdizione al Kerala e spostato il processo nella capitale.
Già qui, a rigor di logica, qualcosa non quadra. L’obiettivo dichiarato della difesa italiana era infatti riportare i due marò in patria e far celebrare il processo da un tribunale italiano. Di fronte alla notizia perentoria del «giudizio trasferito ad un tribunale speciale che sarà costituito a New Delhi», escludendo l’ipotesi di un procedimento penale in Italia, la soddisfazione del capo del pool di avvocati della difesa risulta abbastanza incomprensibile.
Ma Salve – che è un avvocato di tutto rispetto, legale di fiducia della potentissima famiglia Ambani, che controlla la multinazionale indiana Reliance – ha ragione a dirsi soddisfatto.

Mentre i lanci dei giornali italiani online rimbalzano la notizia parziale (anche Il Post, di solito molto affidabile ed attento a riportare news, lancia un post-it che recita: «I due marinai italiani arrestati in India saranno processati da un tribunale speciale a New Delhi, e non nel Kerala»), le televisioni indiane raccontano una sentenza diversa.
Il sito dell’emittente indiana in lingua inglese Ndtv pubblica infatti un articolo in cui si spiega: «La Corte suprema ha detto che lo Stato del Kerala non ha giurisdizione per procedere contro i due marò italiani – Massimiliano Latorre e Salvatore Girone – ed il Centro [si intende il governo centrale di Delhi, ndt] dovrà consultarsi col Chief Justice of India (il presidente della Corte suprema, ndt) e formare una Corte speciale». Ma soprattutto chiarisce: «La Corte ha inoltre deciso che la questione della giurisdizione, attualmente affidata alla Corte di Kollam, Kerala [la città dove si è istruito il processo fino al 18 gennaio, ndt], dovrà essere considerata dalla Corte speciale, che deciderà se i marò verranno processati in India o in Italia».
Va precisato perché alcuni hanno già provato a specularci sopra: ricorrere ad una Corte speciale, in India, è pratica abbastanza comune quando si affrontano casi particolarmente complessi o di interesse nazionale. Negli ultimi anni, ad esempio, si è ricorso alla formazione di diverse Corti speciali per affrontare casi di terrorismo, corruzione, crimini contro le donne. E’ vista come una garanzia di autorevolezza e terzietà in un Paese dove la fiducia nelle altre istituzioni nazionali (il parlamento in primis) è ai minimi storici. Insomma, coi “Tribunali speciali”, le Corti speciali indiane non c’entrano proprio nulla [a differenza di chi ancora si richiama all’eredità del fascismo].

Quindi, chiaro come il sole fin da subito in India, la Corte suprema ha semplicemente tolto la giurisdizione allo Stato del Kerala e spostato il processo a Nuova Delhi dove, prossimamente, si ripartirà sostanzialmente da zero. La Corte speciale esaminerà i dati e le prove portate da accusa e difesa e deciderà circa la giurisdizione; eventualmente, se la giurisdizione sarà data all’India, procederà nell’istruire il processo.
Ma in Italia la questione rimane in sospeso almeno per tre ore e mezza, dalle 7:30 alle 11 di mattina, quando un nuovo provvidenziale lancio d’agenzia dell’Ansa riporta un’altra dichiarazione di Salve, a correggere il tiro precedente.
Nel limbo di quelle tre ore Francesco Storace, candidato alla Regione Lazio de La Destra, dichiara a TgCom24:

«Sconcertato dalle notizie che negano la possibilità di ritorno in Italia per un processo giusto ai nostri soldati. Continua la sudditanza nei confronti dell’India grazie all’ineffabile opera diplomatica, inesistente, del ministro Terzi».

Dello stesso tenore molte delle reazioni online, come quella di Mario Vattani, capolista al Senato per La Destra in Campania, già console italiano ad Osaka, passato agli onori della cronaca come “console fascio-rock” grazie ad un’esibizione durante un concerto organizzato da Casapound nel maggio 2010.
Vattani si lamenta su Julienews dell’occasione sprecata dal governo italiano:

«A dicembre i nostri militari andavano fermati in Italia appena scesi dall’aereo e sottoposti dalla nostra magistratura a un procedimento sotto la nostra giurisdizione, come previsto dal diritto internazionale. Concedendo ai marò una insolita licenza natalizia in Italia, gli indiani ci avevano offerto su un piatto d’argento una possibilità di uscire – noi e loro – da questa impasse. Purtroppo chi ha deciso di rimandare in India i nostri marò si è presa una pesante responsabilità. Paradossale poi come sia voluta travestire questa mancanza di iniziativa da ‘senso dell’onore’, andando a scomodare addirittura gli antichi romani. L’onore qui non c’entra, qui si tratta di esercizio della sovranità nazionale […]»

Il tizio a destra è Mario Vattani, già console italiano a Osaka. Il tizio paffuto e rubizzo a sinistra è Iannone, er capo de Casapau.

Ma Vattani – assieme a Storace ed ai lettori de Il Giornale, costretti ancora una volta a sorbirsi l’ennesimo resoconto complottista dark sci-fi della redazione di Sallusti – è mal informato e, quando cita il “diritto internazionale”, inconsapevolmente centra proprio il nodo di tutta la vicenda. Peccato, a sproposito.

COSA DICE LA SENTENZA?

Gaiani in Somalia, 1993

Pur essendo a disposizione delle maggiori redazioni italiane – la citano nei loro articoli online RepubblicaCorriere della SeraSole 24 Ore ed Il Giornale – la complessa sentenza della Corte suprema indiana è stata o riassunta all’osso, o riportata in parte o, nel caso del Sole 24 Ore, sostanzialmente travisata.
L’articolo a cui facciamo riferimento
è firmato da Gianandrea Gaiani, collaboratore del Sole 24 Ore e di Libero, fondatore e direttore di Analisi Difesa, «Magazine di Difesa, Industria e tematiche militari».
En passant, è interessante affiancare all’articolo del Sole la versione dello stesso pezzo disponibile su Analisi Difesa, dove Gaiani, libero dalle limature del quotidiano di Confindustria, si lascia andare a valutazioni personali su governo Monti ed orgoglio italiano infangato.
Se le posizioni ideologiche di Gaiani non ci interessano – ma dovrebbero interessare, forse, il direttore del Sole 24 Ore – ci interessa invece analizzare cosa racconta ai propri lettori. Primo capoverso:

«La sentenza resa nota venerdì mattina, dopo che il dibattimento in aula sulla giurisdizione del caso era terminato il 4 settembre, ha stabilito che a processare per l’omicidio di due pescatori i due fucilieri di marina italiani, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre, non potrà essere il tribunale del Kerala perché i fatti sono avvenuti in acque internazionali.»

In tutta la sentenza, che abbiamo letto nella sua versione integrale – come presumiamo abbia fatto anche Gaiani – non si dice mai che i fatti sono avvenuti in «acque internazionali», bensì si indica che sono avvenuti «non in acque territoriali». Che sembra la stessa cosa, ma non lo è.
L’imprecisione ricorre in gran parte degli articoli disponibili online e che, incidentalmente, travisa tutto il senso della sentenza e dell’intera vicenda, glissando clamorosamente sulla questione della “zona contigua”, alla quale avevamo accennato per la prima volta su China Files il 7 novembre 2012, sottolineandone la centralità nel caso dei due marò.
Fatto ancora più grave, non è solo la stampa a raccontare la versione modificata delle acque internazionali, ma anche il governo italiano, in una nota ufficiale di palazzo Chigi scrive:

«L’Alta Corte ha riconosciuto che i fatti avvennero in acque internazionali e che la giurisdizione non era della magistratura locale del Kerala.»

Una frase che mette in bocca alla Corte suprema indiana parole che non ha mai detto. Che la scelta sia stata fatta peccando di eccessiva semplificazione o per insistere nel mantenere in piedi, davanti all’opinione pubblica italiana, il castello di carta delle “acque internazionali”, si rivela comunque uno stratagemma da furbetti per tirare l’acqua al proprio mulino.

Tornando al Sole 24 Ore, Gaiani non ritiene opportuno spiegare ai propri lettori come stiano realmente le cose, e infatti a metà articolo afferma:

«Stabilendo ”l’incompetenza” dello Stato del Kerala che ”non aveva giurisdizione” per intervenire dato che ”il fatto non era avvenuto nelle acque territoriali indiane”, i giudici Altamas Kabir e J. Chelameswar hanno puntualizzato che a loro avviso invece ”lo Stato centrale indiano ha giurisdizione”. Definizione paradossale considerato che non esistono acque territoriali del Kerala ma solo dell’india, e fuori da queste il diritto internazionale non prevede alcuna giurisdizione degli Stati rivieraschi.»

E a questo punto i casi sono due: o Gaiani non ha letto la sentenza, e avrebbe fatto bene a non dare la sua personalissima lettura del diritto internazionale, oppure l’ha letta e ha deciso di ometterne più della metà, dato che i giudici, nella trascrizione, fanno continuamente riferimento a leggi e convenzioni internazionali che riguardano la “zona contigua”.
Al punto 17 della sentenza troviamo la definizione di “zona contigua indiana” che, secondo il Maritime Zones Act del 1976, è «l’area oltre o adiacente alle acque territoriali il cui limite […] è fissato a 24 miglia nautiche [dalla costa]». La stessa definizione viene data nell’articolo 33 della United Nations Convention on the Law of the Sea (UNCLOS), convenzione internazionale che sia Italia che India hanno firmato e ratificato.
In quel tratto di mare, parte integrante della Zona Economica Esclusiva (che si estende per 200 miglia nautiche dalla costa), lo Stato del Kerala, uno degli Stati federali che compongono l’Unione Indiana, secondo le leggi indiane non ha alcuna giurisdizione e quindi non poteva indagare e processare Latorre e Girone.
Ma una notifica del 1981 ha modificato l’articolo 188A del Codice penale indiano, che da quella data recita:

«Reato commesso nella zona economica esclusiva: Quando un reato viene commesso da qualsiasi persona nella […] zona economica esclusiva […], quella persona dovrà essere giudicata per il suo reato come se fosse stato commesso in qualsiasi altro luogo sotto [l’autorità] del Governo centrale [indiano]».

L’autorità della legge indiana è quindi estesa sulla Zona contigua e su tutta la Zona economica esclusiva; il compito di indagare e processare i due fucilieri del battaglione San Marco spettava dunque all’Unione Indiana (per chiarire la dualità, la differenza tra Kerala e India è la stessa che corre tra Illinois e Stati Uniti d’America). Il processo non si doveva istruire a Kollam presso la Corte del Kerala, bensì davanti ad una Corte federale come la Corte suprema di Nuova Delhi, sede del governo centrale dell’Unione Indiana.

Ci può venire in soccorso, per capire meglio la faccenda, un paragone credo noto a tutti. Avete presente quando nei telefilm americani la polizia di uno Stato arresta dei criminali, quelli sono in manette con la testa quasi dentro la macchina della polizia e ad un certo punto spunta l’Fbi e dice: “Grazie, ora li prendiamo in custodia noi. Questo è un crimine federale”? Ecco, più o meno la situazione è la stessa. La polizia del Kerala, dopo aver arrestato i marò, avrebbe dovuto consegnarli al Central Bureau of Investigation (Cbi), l’Fbi indiana, dove si sarebbe poi istruito un processo davanti ad una Corte federale, nel caso indiano la Corte suprema.

Come mai non sono stati consegnati al Cbi immediatamente? E’ lecito pensare che il governo del Kerala a metà febbraio 2012, con le elezioni locali previste entro la fine del mese seguente, avesse avuto tutto l’interesse a strumentalizzare il caso dei marò italiani a fini politici, presentandosi agli occhi dell’elettorato come un’amministrazione forte ed autoritaria che ha a cuore le sorti dei deboli e degli ultimi. D’altronde siamo in India, ma tutto il mondo è paese. (Le elezioni locali, poi, le ha vinte il partito di governo).

Ora, eliminato lo Stato del Kerala dalla questione legale, la Corte speciale che verrà nominata dal Chief Justice of India (il presidente della Corte suprema) in accordo col governo centrale, dovrà pronunciarsi innanzitutto sulla giurisdizione.
Infatti, si legge nella sentenza, la questione della giurisdizione tra Italia e India è ancora tutta aperta.
Secondo l’articolo 97 della UNCLOS, che interessa i casi di incidente o collisione tra due imbarcazioni, si presta a molteplici interpretazioni.
Da un lato dice che «nessun arresto o misura investigativa può essere presa da un’autorità che non sia appartenente allo Stato di bandiera dell’imbarcazione interessata», nel nostro caso l’Enrica Lexie, battente bandiera italiana. Sparare ed uccidere due pescatori rientra nella casistica di “incidente o collisione”? Se la Corte speciale opterà per un sì, la giurisdizione verrà data all’Italia.

La Corte cita però anche l’ultimo precedente simile nella storia degli incidenti navali internazionali, il caso Lotus.
Nel 1926 il battello a vapore Lotus, battente bandiera francese, si scontrò col battello a vapore Boz-Court, battente bandiera turca. La collisione causò l’affondamento di quest’ultimo e la morte di otto turchi che si trovavano a bordo. Entrambe le imbarcazioni si trovavano in alto mare, in acque internazionali, e quando il Lotus attraccò al porto di Costantinopoli, le autorità turche arrestarono il comandante della vedetta francese e lo condannarono ad una pena detentiva.
La Francia fece ricorso, sostenendo che essendo l’incidente avvenuto in acque internazionali, la Turchia non aveva giurisdizione su un atto compiuto da un cittadino straniero su un’imbarcazione battente bandiera straniera.
All’epoca dei fatti la Corte Permanente di Giustizia Internazionale, che nel 1946 diventò la Corte Internazionale di Giustizia, giudicò lecita l’azione legale della Turchia in virtù del fatto che l’atto commesso a bordo del Lotus aveva avuto compimento ed effetto a bordo del Boz-Court turco.
Secondo questo precedente, gli spari partiti dall’Enrica Lexie italiana avrebbero avuto effetto e compimento a bordo della St. Antony, uccidendo due cittadini indiani.
Se la Corte speciale giudicherà la giurisdizione basandosi su questo precedente internazionale, Latorre e Girone potrebbero venire processati in India. In verità la sentenza riconosce anche il distinguo del caso, ovvero che la St. Antony non batteva bandiera indiana, il che potrebbe complicare la lettura del precedente legale. Ma la questione verrà affrontata, appunto, in altra sede.

Infine il giudice:
– Si dilunga in una disamina sulla concorrenza di giurisdizione alla luce della UNCLOS, del Maritime Zones Act e del Codice penale indiano.
– cita l’articolo 100 della UNCLOS, che esorta le parti in causa alla “massima collaborazione”; il 94, che prevede ciascuna delle parti apra un fascicolo e collabori durante le indagini.
– cita di nuovo l’articolo 188A del Codice penale indiano, che estende l’autorità della legge indiana su tutto il tratto di mare della Zona Economica Esclusiva (zona contigua compresa), assieme al principio generale secondo il quale «nell’area dove uno Stato esercita la sua sovranità, le sue leggi prevarranno nel caso entrino in conflitto con altre leggi».
– cita una lunga serie di codici, sotto-codici, provisions e regolamenti, concludendo però che la questione dovrà essere decisa dalla Corte speciale. In poche parole, tutto rimandato.

MILITARI O “CONTRACTORS”? UN CASO DI… IMMUNODEFICIENZA

Secondo alcune interpretazioni del diritto, i marò dovrebbero godere dell’immunità funzionale in quanto militari. Se l’immunità fosse stata riconosciuta, la giurisdizione sarebbe passata all’Italia. La questione però è controversa, perché i due marò (pur non essendo in missione per iniziativa personale) non stavano certamente lavorando per conto dello stato italiano, bensì di una compagnia privata.

«Tutta la simbologia politica e culturale di Casapound verte sul fenomeno della pirateria. Dal Cutty Sark alle bandiere nere, dal Jolly Roger alle tibie incrociate, dagli slogan sugli assalti e gli arrembaggi, i velieri stilizzati, alla figura mitizzata di Capitan Harlock, dai loro numerosi covi chiamati “Tortuga” ai nick name che si scelgono su internet, insomma sono anni che i neofascisti giocano a fare i pirati. Bastano però due militari implicati in uno scontro con qualche pescatore indiano scambiato per pirata, che subito cade tutto il cornicione di puttanate costruito in questi anni (qui possiamo farci allegre risate su un’iniziativa “contro i pirati” fatta in un posto chiamato “l’isola di Tortuga”…) . Infatti, prima ancora che la vicenda fosse chiara, i neofascisti sono corsi a difendere il militare a difesa della multinazionale del petrolio contro quelli che loro chiamano pirati. Senza neanche pensarci due volte (almeno salvando qualche parvenza di coerenza), accusano i pescatori indiani di essere pirati e i due militari di aver svolto il proprio lavoro. Che sarebbe quello di difendere la proprietà privata delle navi multinazionali dagli assalti dei fantomatici pirati. Alla faccia dell’esaltazione della pirateria. Quando il padrone chiama, insomma, il servo obbedisce.» (da «Il cazzaro nero e i pirati maledetti», Militant Blog, 11/01/2013)

La Corte suprema di fatto non si è espressa a riguardo, rimettendo nelle mani della Corte speciale anche la decisione sull’eventuale immunità. Ma l’avvocato dell’accusa Banerji, che durante il dibattimento ha rappresentato l’Unione Indiana, ha spiegato che secondo il governo indiano:

«nessuna forza armata o guardia privata straniera in servizio su navi mercantili può godere di licenza diplomatica. Né il governo indiano è parte di alcun Status of Forces Agreement (SOFA) per il quale forze armate straniere possano godere di immunità dai procedimenti penali».

I due marò, davanti alla legge indiana, potrebbero semplicemente essere considerati due cittadini stranieri che hanno sparato a due cittadini indiani, azione commessa non “acta jure imperii”, a difesa del territorio (italiano), ma “acta jure gestionis”, a difesa della proprietà privata, delle cose.

OLYMPIC FLAIR: A VOLTE RITORNANO

Pochi giorni prima della sentenza della Corte suprema, il signor Luigi Di Stefano ha aggiornato parte della sua ormai celebre Analisi Tecnica, rimettendo stoicamente mano alla sezione Olympic Flair.

Di Stefano, che è solito fregiarsi motu proprio del titolo di Ingegnere, è l’autore di una sorta di perizia fatta in casa che, nei mesi scorsi, è stata più volte ripresa dalla stampa, citata in editoriali e addirittura presentata in parlamento.
Secondo il lavoro di Di Stefano, presentato all’opinione pubblica come “consulente tecnico”, Salvatore Girone e Massimiliano Latorre sono vittime di un tranello, accusati ingiustamente di aver sparato ed ucciso i due pescatori Binki e Jelastine.
La tesi suggestiva, pubblicata online a poche settimane dall’incidente, scagionava completamente i due fucilieri del battaglione San Marco, presentando a supporto una serie di dati, grafici e reperti video.

Sergio Romano

Il lavoro è sembrato talmente autorevole da indurre Umberto Gori – professore dell’Università di Firenze esperto di relazioni internazionali, terrorismo ed intelligence – a citarlo in una lettera ospitata ad aprile nella rubrica del Corriere “Risponde Sergio Romano”. Nella sua risposta, il celebre editorialista esaltava il contributo di Gori, che «delinea un percorso che sarebbe stato logico adottare e cita un rapporto sui tracciati radar che potrà essere utile all’indagine».

Dopo la parziale decostruzione dell’analisi tecnica di Di Stefano, che potete leggere nella prima puntata di questa controinchiesta (non solo nell’articolo ma anche nella discussione in calce), la comunità dei giapster ha fatto emergere una serie di dettagli interessanti su Di Stefano stesso. Costui risulta organico a Casapound (suo figlio Simone è candidato premier per il suddetto partito neofascista, nonché candidato presidente della regione Lazio), è tra i promotori di un comitato “pro-marò” e si trova al centro di una rete di rapporti tra la destra italiana ed ambienti della stampa nazionale.
Una minima parte di quanto venuto a galla grazie alle ricerche spontanee dei giapster è stata raccolta da Luca Pisapia in un articolo pubblicato sul Fatto Quotidiano qualche tempo fa. Prossimamente, sempre su Giap, verrà ospitata l’intera controinchiesta, in forma di ebook liberamente scaricabile (*).

(L’uom. ch. tutt. credev. ing.) Luigi Di Stefano è anche autore di una «Proposta per la realizzazione di Case Popolari nell’ambito del Piano Casa della Regione Lazio». Un progetto di villaggio «ecologico» che replica in pianta la tartaruga del logo di Casapound. Per dirla con Mazzetta: «Una buffonata come non se ne vedevano da quando un sindaco leghista marchiò con il sole delle Alpi una scuola.» Questo è il dott. che due settimane fa, su un forum fascista, minacciava querele per diffamazione all’indirizzo nostro, di Miavaldi, di Luca Pisapia e del Fatto Quotidiano, per aver riportato cose sul suo conto che aveva scritto lui stesso.

Lo stesso Di Stefano (sotto lo pseudonimo “Grifo”), sul forum termometropolitico.it, annunciava “in anteprima nazionale” l’aggiornamento della sua “Analisi tecnica” e introduceva così il suo ultimo scoop:

«Si dimostra, sulla base dei documenti delle autorità internazionali che coordinano la lotta alla pirateria ICC e IMO, e una attenta disamina della vicenda della petroliera greca Olympic Flair basata sui database del sistema di sicurezza e controllo del traffico navale AIS, che fin dal giorno dei fatti le autorità indiane hanno tenuto una condotta omissiva nelle indagini, e quindi tutto l’impianto accusatorio è nullo, tale sarebbe in qualsiasi tribunale italiano.»

Innanzitutto, ci scusiamo con i lettori per aver derubricato la questione Olympic Flair con troppa fretta, fidandoci delle dichiarazioni perentorie della Marina greca che escludeva ogni tipo di attacco pirata. Un rapporto dell’International Maritime Organization (IMO), consultabile da tutti online previa registrazione gratuita al sito dell’Imo, indica chiaramente che la petroliera Olympic Flair, battente bandiera greca, è stata vittima di un attacco pirata proprio il 15 febbraio 2012, alle 22:20 orario indiano.
Secondo la mappa disegnata da Di Stefano incrociando i vari dati circa tempo e posizione delle due petroliere, alle 22:20 l’Enrica Lexie, «scortata dai due pattugliatori Shamar e Lakshimi Bahi e dall’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228» si trovava a sole 3 miglia nautiche dall’Olymipc Flair, ancorata al largo del porto di Kochi.
Di Stefano conclude quindi che:

«Le autorità indiane avevano il dovere di lanciare l’allarme, allertare i mezzi militari navali e aerei, e per mezzo dei rilevamenti radar avviarli verso la Olympic Flair, tanto più che erano già sul punto preciso dove era avvenuto l’agguato e dove la Olympic Flair sosteneva di stare.
Avrebbero dovuto fare esattamente quello che avevano fatto poche ore prima nei confronti della Enrica Lexie. Ma non l’hanno fatto.
Qualunque ne sia il motivo (colpa o dolo) l’impianto accusatorio costruito nei confronti dei due militari italiani manca dell’indagine su almeno uno dei possibili colpevoli: è omissivo.
E quindi l’intero impianto accusatorio sarebbe dichiarato nullo in qualsiasi tribunale.»

Ma le cose, ancora una volta, non stanno così.

Di Stefano, per fissare il punto d’inizio del tragitto dell’Enrica Lexie, prende per buone le coordinate contenute nel rapporto “trasmesso” dai marò. Il dato, come indica la nota del punto 2 della mappa, arriva da Il Giornale, unica fonte italiana delle cinque inserite nelle note e, curiosamente, l’unica senza link.
Presumiamo Di Stefano si riferisca a questo articolo di Fausto Biloslavo, pubblicato su Il Giornale il 21 febbraio 2012.
Nel rapporto – «41 righe inviate a Roma e scritte apparentemente in tempi non sospetti» – si legge che, secondo Latorre, l’Enrica Lexie si trovava “a 20 miglia nautiche dalla costa al largo di Allepey (India)”.

Attenzione, perché questa è la pietra angolare sulla quale Di Stefano costruisce gran parte della sua “Analisi Tecnica”.
Collocare la petroliera italiana in quella precisa posizione gli permette, tramite grafici ed incroci di dati di posizionamento della St. Antony, di sostenere che gli indiani si sono inventati tutto, che l’Enrica Lexie e la St. Antony non si sono mai incrociate e quindi, evidentemente, a sparare non sono stati i due marò. E’ stato qualcun’altro.
E’ da notare però che solo il giorno prima, sul Corriere della Sera, un articolo di Fiorenza Sarzanini, citando il «report trasmesso a Roma» scritto sempre da Latorre, colloca l’Enrica Lexie a »33 miglia dalla costa sudovest dell’India».

Ma quindi la nave era a 20 o a 33 miglia dalla costa? Ed era o non era al largo di Allepey? Come mai Di Stefano prende per buona un’informazione contraddetta il giorno precedente dal Corriere della Sera? Quanti rapporti ha mandato Latorre a Roma?

Ancora una volta dobbiamo rilevare la totale inaffidabilità delle fonti utilizzate da Di Stefano.
Il cosiddetto “ingegnere” costruisce impressionanti grattacieli di pseudo-analisi tecniche su fondamenta quantomeno traballanti. Qui ci potremmo già fermare, contestando che nell’impossibilità di Di Stefano – e nostra – di determinare con certezza la posizione iniziale dell’Enrica Lexie, occorre fidarsi della perizia ufficiale indiana, senza provare a mettere la petroliera italiana di ritorno a Kochi e l’Olympic Flair attaccata dai pirati contemporaneamente nello stesso luogo.
Il caso della Olympic Flair e quello dell’Enrica Lexie sono due eventi assolutamente distinti, sia nel tempo (la petroliera greca sventa un attacco pirata alle 22:20, i marò sparano ai pescatori della St. Antony intorno alle 16:30) che nello spazio (l’Enrica Lexie si trovava a 20,5 miglia nautiche dalla costa del Kerala, l’Olympic Flair a 12,5 miglia nautiche dal porto di Kochi).
E’ quello che il povero impiegato della compagnia armatrice greca ha provato a spiegare a Gian Micalessin, giornalista de Il Giornale, nella telefonata pubblicata da Di Stefano in coda alla sezione dell’Analisi Tecnica dedicata alla Olympic Flair. Ma non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

IL RAPPORTO CHE… NON C’È

Nel corso di questa ennesima decostruzione del presunto lavoro scientifico di Di Stefano, giudicata in un primo momento operazione noiosa ed irritante alla luce del fatto che nemmeno la difesa dei due marò contesta più la dinamica dei fatti, ci siamo imbattuti in un dettaglio cruciale che, precedentemente, ci era sfuggito.
Immedesimiamoci nel Di Stefano: proprio non volendosi fidare della valanga di dati e prove fornite dall’accusa indiana, si sarebbe potuta prendere per buona la posizione dell’Enrica Lexie contenuta nel rapporto trasmesso dal capitano dell’Enrica Lexie, Umberto Vitielli, subito dopo aver respinto il presunto attacco pirata (che, sappiamo ora, attacco pirata non era).
Nell’argomento di difesa consegnato alla Corte del Kerala da Latorre e Girone, citato tra gli altri anche dal Times of India, si indica che:
«Il Capitano ha anche attivato lo Ship Alert Security System (SASS), mandano segnali all’Italian Marine Rescue and Coordination Centre (MRCC). Il Capitano fece anche rapporto dell’incidente alla mercury chart che mette in contatto e trasmette informazioni alla comunità [navale], comprese i dipartimenti di Marina del mondo impegnati nella lotta anti-pirateria, compreso il quartier generale della Marina indiana. E’ stato stilato anche un “Rapporto militare”. Un altro rapporto è stato mandato al Maritime Security Center Horn of Africa. Siccome l’attacco era stato respinto, l’imbarcazione ha continuato verso la rotta prestabilita».

Abbiamo controllato nel registro dell’IMO, database pubblico che contiene i rapporti di attacchi pirati trasmessi dalle imbarcazioni di tutto il mondo alle autorità competenti (dove Di Stefano ha trovato il rapporto “incriminante” dell’Olympic Flair), ma del rapporto dell’Enrica Lexie non vi è alcuna traccia.
Non siamo stati gli unici a farlo. Il giudice dell’Alta Corte del Kerala P.S. Gopinathan, respingendo gli argomenti della difesa dei marò, ha spiegato:

«E’ pertinente notare che non è stata prodotta nessuna prova a testimonianza del fatto che i marò, prima di sparare ai pescatori, abbiano comunicato al Capitano dell’imbarcazione il pericolo di un attacco pirata, o che il Capitano ne abbia fatta menzione nel registro. Inoltre non esiste nessun documento a supporto dell’argomentazione di difesa che sostiene il Capitano abbia attivato lo Ship Alert Security System o che alcun segnale sia stato trasmesso al Marine Rescue and Coordination Centre, alla Mercury chart o a qualsiasi Marina in tutto il mondo».

Ci sono abbastanza elementi per dubitare che il rapporto sia mai stato trasmesso, dettaglio che apre uno scenario inedito della dinamica dell’incidente e del cosiddetto “tranello indiano”.

IL “TRANELLO” CHE NON C’È STATO

La vulgata italiana costruita nell’ultimo anno ha riconsegnato all’opinione pubblica un resoconto dell’incidente dove i marò hanno ricoperto il ruolo dei “buoni”, servitori dello Stato vittime di un madornale errore di valutazione, “hanno sparato, credevano fossero pirati, si sono sbagliati ma erano in buona fede” – Binki e Jelastine, le due vere vittime, non rientrano più nel quadro – e del “tranello” teso dalla Guardia costiera indiana.

Il ministro degli Esteri Terzi, in una lettera aperta pubblicata sull’Eco di Bergamo lo scorso ottobre, scriveva: «L’ingresso della nave Enrica Lexie in acque indiane è stato il risultato di un sotterfugio della polizia locale, che ha richiesto al comandante della nave di dirigersi nel porto di Kochi per contribuire al riconoscimento di alcuni sospetti pirati.»
Come già hanno notato su Wikipedia
, la dichiarazione stride non solo con la versione indiana dell’accaduto, ma anche con la ricostruzione corrente del ritorno al porto di Kochi dell’Enrica Lexie.
Secondo larga parte della stampa il ritorno della petroliera al porto di Kochi è stato un “segno di buona fede”, un gesto volontario per facilitare le indagini alle autorità indiane. In un’ interessante intervista rilasciata al canale televisivo indiano IBN Live , il sottosegretario agli Esteri Staffan De Mistura lo dice quasi con le stesse parole:

 

Ma la dinamica dei fatti ricostruita dalla stampa indiana, basandosi sui dati presentati al processo dall’accusa e sulle dichiarazioni degli ufficiali della Guardia costiera indiana, racconta una storia diversa.

1) Alle 16:30 del 15 febbraio qualcuno spara al peschereccio St. Antony

2) La St. Antony lancia l’allarme alla Guardia costiera indiana, descrivendo grosso modo l’imbarcazione dalla quale provenivano gli spari.

3) La Guardia costiera inizia le indagini, cercando di capire quali navi in quel momento si potevano trovare nei pressi della St. Antony.

4) Intorno alle 19:00 la Guardia costiera restringe il cerchio delle possibili navi coinvolte nella sparatoria a quattro imbarcazioni: l’Enrica Lexie, la Kamome Victoria, la Giovanni e la Ocean Breeze. Le raggiunge tutte via radio, chiedendo se erano state coinvolte in un presunto attacco pirata.

5) L’unica nave a rispondere affermativamente è l’Enrica Lexie (che, come abbiamo visto sopra, aveva già infranto la procedura standard che prevede di fare immediato rapporto alle autorità nel caso di attacco pirata). Sono le 19:30 e la petroliera italiana, senza aver detto niente a nessuno, aveva proseguito nella propria rotta verso l’Egitto per quasi tre ore,allontanandosi dalla “scena del delitto” di ben 39 miglia marittime, più o meno 70 km.

6) La Guardia costiera indiana intima all’Enrica Lexie di tornare indietro e probabilmente, vista la mancata denuncia dello scontro a fuoco da parte della petroliera italiana, ordina ai due pattugliatori Shamar e Lakshmi Bhai e all’aereo di sorveglianza marittima Dornier 228 di inseguire la nave italiana, intercettarla e riportarla in porto. (parentesi per Di Stefano: ecco perché la Guardia costiera non manda le navi e l’aereo anche all’Olympic Flair: la nave greca non si era lasciata due cadaveri alle spalle, avevano respinto un attacco pirata senza esplodere un colpo di fucile, stavano tutti bene ed avevano diligentemente fatto rapporto immediato alle autorità marittime).

7) L’Enrica Lexie comunica all’armatore italiano l’incidente e, contro gli ordini della Marina italiana, inverte la rotta e torna verso il porto di Kochi.

Alla luce di questi eventi, giudicati come “fatti” dalla giustizia indiana, descrivere il ritorno dell’Enrica Lexie a Kochi come un gesto volontario di buona fede appare una conclusione abbastanza fantasiosa.
Possiamo addirittura spingerci a considerare la scelta del Capitano Vitielli come un provvidenziale rinsavimento, un ritorno opportuno al senso di responsabilità. Se l’Enrica Lexie avesse dato retta alla Marina italiana, il 16 febbraio i giornali indiani – e internazionali – avrebbero titolato “Petroliera italiana spara contro pescatori indiani e fugge verso l’Africa, è caccia aperta”. Eventualità che avrebbe complicato non poco gli equilibrismi della diplomazia italiana davanti alla comunità internazionale.

CARCERE… CARCERE FORSE… CARCERE NO

Per chiarire, speriamo una volta per tutte, la questione del regime di detenzione dei marò – molti credono ancora siano stati rinchiusi in carcere, nonostante diverse fonti, sia italiane che indiane, dicano il contrario – siamo andati a ripescare un articolo uscito incredibilmente su Il Giornale lo scorso 21 aprile.

Fausto Biloslavo, inviato del quotidiano della famiglia Berlusconi, si reca in Kerala per visitare in carcere i due marò e racconta quello che ha visto nel pezzo «Il Giornale nella cella dei nostri marò in India»). A metà pezzo si legge:

«Fra le pal­me che circondano il forte­prigio­ne fanno lavoretti utili. Solo quan­do alle spalle dei marò si chiude il portone in legno massiccio del car­ce­re capisci che non è una passeg­giata. Da una feritoia due paia di occhietti dei secondini all’interno si agitano incuriositi e una tabella ottocentesca indica il numero dei prigionieri maschi, 933. Oltre il portone, stile Alì Babà, non ci può andare nessuno a par­te i carcerati. I marò raccontano di stare in un piccolo compound, da soli, con le sbarre alle finestre ed una rete metallica tutt’attorno sor­montata dal reticolato. Dormono su dei tavolacci, che saranno anco­ra quelli inglesi, con l’unica como­dità di un materassino. I problemi più grossi sono il caldo e le zanza­re. La ventilazione è garantita dal­le vecchie pale, ma i fucilieri di ma­rina vengono addestrati a ben al­tro.
“Da casa è arrivata una caffettie­ra e gli abbiamo fatto avere anche degli attrezzi per la ginnastica. Niente computer e tv, però. Solo li­bri e le migliaia di lettere e messag­gi di solidarietà che arrivano dall’ Italia”, racconta il capitano di fre­gata Donato Castrignano. Vetera­no del San Marco si è offerto volon­tario per occuparsi delle necessi­tà quotidiane. A cominciare dal menù italiano preparato dal risto­rante Casa Bianca: spesso fettucci­ne con la crema di funghi, lasagne alla domenica, pollo e macedonia alla sera. I marò hanno pure un “amico” dentro il carcere, che de­ve scontare ancora un anno dei 15 che si è beccato. Mr. Mani possie­de una radio e informa gli italiani degli sviluppi giudiziari del caso. I fucilieri offrono il caffè e gli india­ni ricambiano con le ciapati, una specie di piadina farcita di cocco tritato. “Hanno preparato il caffè italiano anche al sovrintendente del carcere”, sottolinea Castrigna­no.»

Chi scrive vive in India da quasi un anno e mezzo, nella località di Santiniketan, a tre ore e mezza da Calcutta, Bengala occidentale. Ecco qui sotto alcune foto dell’abitazione dove attualmente risiedo assieme alla mia compagna.
Le sbarre alle finestre, tipiche in tutto il subcontinente, sono una misura di sicurezza sia contro i ladri che, soprattutto, contro le scimmie.

 

I letti a reti metalliche o con assi di legno sono una rarità, ad uso e consumo della classe abbiente. Il resto della popolazione, carceraria e non, quando se lo può permettere, dorme su un materasso appoggiato sopra un “tavolaccio inglese” e, per le zanzare, si utilizza una sorta di zanzariera a baldacchino. Chi non si può permettere il “tavolaccio inglese”, dorme direttamente per terra, magari su una stuoia di bambù.

 

Se i ventilatori nelle aree urbane sono parte dell’arredamento standard, nelle zone rurali sono indice di benessere. Molti, durante il giorno, ne fanno a meno. E di notte, semplicemente, spostano il “tavolaccio inglese” fuori dalla porta di casa (anche se, ammettiamo, nella stagione calda la differenza di temperatura tra interni ed esterni è davvero risibile).

 

Per ovvi motivi, intorno alla nostra casa non c’è il filo spinato.

Anche davanti alla testimonianza diretta di Biloslavo, il suo stesso quotidiano ha insistito per quasi un anno a descrivere i due marò “sbattuti in cella”, “dietro le sbarre”, assieme al resto della stampa nazionale impegnata non a raccontare la verità, ma a polarizzare l’opinione dei lettori ed insistere nella narrazione propagandistica della vicenda dei due fucilieri.

Il virile e – a dispetto del cognome che racconta di avi allogeni – italianissssimo Fausto Biloslavo from Trieste, immortalato da qualche parte ove si pugna pei valori occidentali. Interessante il ritratto di costui leggibile nell’articolo di Claudia Cernigoi «Forza Nuova e dintorni» (sul web si trova anche col titolo «Nuova destra, radici vecchie»). Per leggerlo, cliccare sulla foto.

Il fatto che succeda in un Paese democratico dovrebbe essere motivo di preoccupazione per l’opinione pubblica e, volendo, anche per l’Ordine dei Giornalisti, corporazione della quale molti – compreso chi scrive – già stentano a riconoscere l’utilità in condizioni di normalità e che, davanti alla sistematica campagna di disinformazione che abbiamo esposto, continuano a chiedersi quale ruolo l’Ordine, effettivamente, sia chiamato a ricoprire.
Sulle condizioni di detenzione dei due fucilieri si è espresso in modo inequivocabile anche il sottosegretario agli Esteri De Mistura. Nel video proposto sopra, intorno al minuto tre, dice che i marò non sono stati detenuti “in una prigione”, ma “in un ambiente militare”.

ERRATA CORRIGE & CREDITS

Nell’articolo precedente, come ci ha fatto notare Alessandro Marzo Magno, occasionalmente si è usato a sproposito il termine Esercito per riferirsi alla Marina. Ci scusiamo per l’imprecisione.

Questa seconda puntata della controinchiesta sul caso Enrica Lexie non sarebbe stata possibile senza la collaborazione della comunità di lettori di Giap. Negli ultimi venti giorni, togliendo tempo agli studi o al lavoro, diversi giapster hanno contribuito alla ricerca ed analisi di fonti, documenti ufficiali, sentenze, codici penali, articoli di giornale. Non riesco a pensare ad una migliore applicazione del concetto di intelligenza collettiva. Grazie a tutti/e, il lavoro continua.

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