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Informazioni di parte – Intervento di Federico Montanari

È possibile ripensare l’egemonia come una stratificazione di tante piccole egemonie? Che ruolo giocano in questa prospettiva concetti come narratività ed estetica? Quali sono le modularità con cui l’egemonia viene espressa e proiettata nei diversi medium? Ed infine quali sono i nuovi soggetti emergenti all’interno delle rivolte arabe che hanno punteggiato il mediterraneo di conflitti nel 2011?

 

InfoFreeFlow (@infofreeflow) per Infoaut

 

Arrivando per ultimo non posso far altro che ripercorrere buona parte delle cose che avete detto, aggiungendo però allo stesso tempo alcune piccole proposte di discussione che derivano dal mio principale campo di interesse, ovvero quello dei linguaggi, della semiotica e delle forme di conflitto e della guerra.

Dopo aver trascorso gli ultimi mesi a monitorare quanto passava per i diversi media (come ad esempio Al Jazeera che, come effettivamente diceva Formenti, ha avuto un ruolo centrale nelle insorgenze arabe) mi viene da pensare che nei nostri discorsi dovrebbero esserci qualche corto circuito in più. Ripartiamo dalla proposta di ri-attualizzare l’idea di egemonia. Sappiamo benissimo come tutto l’ambito dei cultural studies, pur nel suo straordinario interesse, intende l’idea di egemonia come se Gramsci avesse letto Foucault. Li dentro manca ed andrebbe sviluppata una teoria, non solo di come e perché si fa egemonia, ma di come si costruiscono le forme discorsive del potere. E questo per la nostra discussione mi sembra un punto assolutamente rilevante. Senza voler stare qui a recitare Foucault, già 20-30 anni fa il nostro amato intellettuale francese ci ha detto qualcosa di fondamentale: il potere non è solo il potere di fare o non fare qualcosa, ma è allo stesso tempo tremendamente relazionale e strategico, composto da elementi simmetrici ed asimmetrici che tendono a rimescolarsi rapidamente per cui di colpo non capiamo più chi è il soggetto e chi l’oggetto del potere. Questo non è un discorso metaforico o astratto.

Apro una parentesi: in questi giorni ho tenuto un dibattito al museo dell’arte contemporanea di Bologna a cui ha partecipato anche un bravissimo mediattivista che ha filmato tutta la rivolta zapatista dei primi anni ’90. Nel montaggio del filmato aggiungeva il commento attraverso il quale ne descriveva le fasi salienti. Oltre a questo erano presenti variazioni di tipo estetico come per esempio una colonna sonora di stampo elettronico che accompagnava il montato. Qual’era il problema in questo caso? Era il racconto della lotta al potere, da un potere minore ad un potere maggiore. Sappiamo tutti la caratura ed il peso assunto negli anni dal movimento zapatista: un’organizzazione armata, un processo di collettivizzazione del logo creata dal subcomandante Marcos, una capacità di affrontare e respingere un esercito regolare (come avvenuto nel caso della Prima Municipalità) e l’elaborazione di una strategia di “contro-contro-insurgenza” di tipo estetico narrativo. Tutto questo si ricollega molto con gli argomenti di cui stiamo parlando. In che senso? Perché in questa idea gramsciana mancava una lettura molto più dinamica e molecolare del potere. Ma si collega anche con quanto citato prima da Silvano e Carlo, ovvero con l’idea della narratività intesa sia come modulo di mettere in forma le cose del mondo sia come capacità di catturare gli immaginari.

Quello che però propongo a questo punto è quello di provare a fare insieme un piccolo esperimento. Io ho l’impressione che queste cose non siano lineari: non esiste un modulo narrativo della televisione ma ne esistono una molteplicità (per fare solo tre esempi: televisione generalista, Sky ed Al Jazeera). Ma non solo! Dentro alla stessa tecnologia televisiva possono essere catturati tanti moduli narrativi diversi. E questo è un problema grosso perché significa che non può esistere un’idea di egemonia correlata direttamente al medium. Detta in maniera ancora più brutale: non esiste a mio avviso un potere egemonico della TV ma un potere molto più complesso e mescolato. Umberto Eco diversi anni fa disse una cosa molto interessante ovvero che «non dobbiamo pensare che sia la televisione a fare male ai bambini, ma sono i bambini a fare male alla televisione». Una battuta per dire che i moduli semplificati della tv berlusconiana sono in realtà solo un esito possibile di quello che sarebbe potuto essere la televisione. Al Jazeera è per esempio un altro esito ancora, un esperimento che nasce come un grande sito, poco interattivo ma con una grande molteplicità di fonti di informazione.

Perché dico questo? Perché credo sia importante dare una maggior importanza alle interferenze ed ai corto circuiti che si creano dal punto di vista comunicativo. A cui vorrei aggiungere un inciso rispetto a ciò che diceva Carlo sulla non capacità di previsione delle scienze sociali. Ha perfettamente ragione però in generale tutti quelli che si occupano di comunicazione e politologia producono degli effetti che non sono di previsione ma di “feel-fall-feeling prophecies” o detto in modo brutale sono profezie che si auto-avverano. Il think-tank democratico vicino alla Clinton (a cui è vero interessa poco della democrazia nel mondo) produce talmente tanto sapere che io non mi sento di escludere che esso possa produrre dei contro circuiti clamorosi e non solo per motivi di dominio dell’immaginario.

Prima Carlo si è soffermato su un punto di capitale importanza, facendo un’affermazione che io condivido in pieno. Qual’è la classe, più che egemone io direi emergente, di queste rivolte arabe? Si tratta di gente che ha studiato all’estero, mezzi blogger e mezzi imprenditori, soggetti che si battono per la libertà in rete contro la censura ma che allo stesso tempo collaborano con la classe creativa che ruota intorno a Google.

Tutto questo non fa che nutrire un’impressione che coltivo da un po’, ovvero che siamo di fronte a qualcosa di molto più complesso ed intrecciato di quanto possiamo pensare, anche dal punto di vista dei conflitti bellici. Ultimamente sono andato a vedermi una rivista scientifica il cui nome è “Small Wars”. Small Wars è un espressione tecnica nata negli anni ‘ 40 ed è il corrispettivo tecnico di “Counter Insurgency”. Noi eravamo abituati a pensare alla contro-insurrezione riferendoci ad immagini come quelle della “Baia dei porci” piuttosto che ad altre situazioni sud americane. Oggi però il concetto viene ri-attualizzato: per esempio nei termini proposti da McChrystal (il capo delle truppe NATO in Afghanistan) quando elanora un approccio al problema delle contro-insorgenza che si basa più su un tentativo di dialogo con i capi tribali locali che sull’utilizzo di “bombe intelligenti”. Il tentativo messo in atto è cioè quello di operare un lavoro di territorio che rimane comunque volto al mantenimento del potere il quale però allo stesso tempo da l’impressione di essere più fragile e frammentato di quanto appaia, date anche le pluralità di istanze dei democratici radicali presenti nei think thank di Washington che davvero credono nella possibilità di una rivoluzione democratica.

Il problema dell’egemonia non ha quindi a mio avviso solo dimensioni e caratteristiche di portata globale ma è anche una questione di stratificazione di tante piccole egemonie locali e di lotte fra gruppi e situazioni.

Questo, fra le altre cose, ci dice come esista un problema non di poco conto su uno dei temi che si è provato a far emergere in questi mesi, e che non a caso non è emerso, ovvero quello della pace e della guerra. Quello che intendo dire è che ormai non abbiamo più molto chiare le idee in merito a chi siano i “buoni” ed i “cattivi”. Poniamo la questione in modo provocatorio: come interpretiamo il comportamento della NATO quando interviene a favore dei ribelli di Misurata salvandoli dal massacro? Forse rispondere a questa domanda potrebbe metterci in difficoltà. Sto dicendo che sono a favore dei raid NATO? Ovviamente no. Sto dicendo però che i raid NATO potrebbero produrre degli effetti di un certo tipo sul quel terreno. Porto un altro esempio di carattere personale. Sto lavorando da diversi anni, sempre in questo ambito, sul tema delle guerre nella ex-Jugoslavia. Recentemente c’è stato un convegno a Sarajevo dove ho incontrato un militante pacifista croato messo in galera ai tempi di Tuđman. Discutevamo della sua lotta ai tempi della operazione “Tempesta” la quale di fatto consistette in una vera e propria e pulizia etnica delle Krajine, autorizzata e pagata dalla CIA per fare in modo che la Croazia occupasse il suo pezzo di terra ed il raggiungimento degli accordi di Dayton fosse facilitato. Perché vi riporto questa cosa? Perché lui mi disse una cosa che al tempo mi aveva molto colpito ovvero che allora (esattamente come oggi con le rivolte arabe) nessuno aveva più la percezione di chi era il buono e chi il cattivo. Allo stesso modo di fronte ai massacri di Srebrenica non erano in pochi coloro che speravano nell’arrivo dei caschi blu olandesi dell’ONU per fermare i macellai serbi. Cosa voglio dire con questo? Semplicemente che da un certo momento storico in avanti le cose si siano fatto estremamente più complesse da vari punti di vista. Perché ho citato questi esempi? Perché la guerra è lo specchio della messa in forma del potere all’interno del nostro mondo. Lo specchio se volete estremo, più rappresentativo anche nel senso di iper-mediatizzato (e questo dalla guerra del Vietnam in avanti) cioè il luogo in cui il potere rappresenta se stesso. So che alcuni pacifisti potrebbero storcere il naso di fronte ad affermazioni simili, ma questi sono problemi che in una qualche misura vanno affrontati mentre invece vengono sistematicamente ignorati dalla discussione sul circuito mainstream. Alcuni democratici radicali inglesi ed americani riferendosi alla guerra in Libia l’hanno equiparata ad una possibile nuova guerra di Spagna. Ma se è così allora, chi potrebbe andare a combattere al fianco dei ribelli libici? Non ho una risposta a questa domanda ma la mia intenzione è altra. Ciò che a me interessa è andare a fare una mappatura delle nuove forme di egemonie (le chiamo appositamente al plurale) e dall’altro delle nuove strategie che noi possiamo produrre. Rubando un termine, ahimé proprio ad Hillary Clinton, si potrebbero elaborare nuove diplomazie militanti del ventunesimo secolo. Quindi qualcosa che, naturalmente, vada oltre il ciclo delle vecchie lotte e dei contro-vertici, ma anche e sopratutto delle nuove capacità di monitoraggio molto più attive, una sorta di intelligence democratica (come in parte affermato proprio da Vendola), che significa sopratutto capacità di osservazione ed agganciamento ai nuovi movimenti dei quali, credo, nessuno di noi abbia colto, men che meno la sinistra, le potenzialità. In questo senso la cosa più avanzata che sono riuscito a leggere è la lettera di Toni Negri ad un suo ex-allievo, all’interno della quale si afferma però che le insorgenze arabe stanno già vivendo una fase di contro-rivoluzione del momento in cui si palesa in modo così marcato la presenza degli americani e degli inglesi. Io molto sinceramente dico che ho dei problemi ad usare categorie di questo tipo come “rivoluzione” o “contro-rivoluzione”. E se invece ci inventassimo nuovi modelli per definire queste insorgenze che hanno metodi di esplosione e di durata tutti loro? E questa durata è legata a fattori di carattere culturale e sociale come quelli che citava Carlo: non è solo la singola classe emergente che sa usare Facebook, ma è un pezzo di tessuto sociale più ampio (spesso formato da disoccupati, magari con un altissimo livello di istruzione ) che a sua volta si collega ad un tessuto sociale con altre età anagrafiche. Marco Trotta in un altro intervento ci spiegava ad esempio come in Libia Facebook sia stato usato per andare a comprare il pane. Oppure gli studenti bahreniti hanno utilizzato nelle loro piazze gli stessi segni degli studenti londinesi o di Roma (segni che magari hanno visto su Al Jazeera) esprimendone così una circolarità mediterranea.

Lo scenario che ci troviamo ad affrontare è certamente assai complesso ed è formato da un enorme numero di coefficienti in grado di determinarlo. In termini analitico-teorici allora, credo sia necessario riuscire a pensare l’egemonia in termini più soft e fini, la dove entra in gioco l’idea di narratività, dove entra in gioco una molteplicità del concetto di egemonia stesso, dove entra in gioco un’estetica. Io quando vedo il sito “February 17” mi trovo di fronte un portale della rivolta che si dichiara tale. Vengono mostrati i video delle battaglie, l’operato dei medici ribelli, le foto delle proteste dei mesi precedenti: viene mostrata in sintesi una confluenza di segni che in qualche modo mi ha ricordato la nostra mitica Indymedia, che a noi colpì molto quando nacque proprio in virtù della sua capacità compositivo-estetica.

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