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La rivoluzione egiziana è morta?

 

Risposta   breve: “No.” Segue una risposta più articolata. Ciò che avvenne in   Egitto tra il 30 giugno ed il 3 luglio non fu un colpo di stato contro   un governo eletto. Fu un ulteriore tentativo dei generali di cooptare la   Rivoluzione Egiziana del 25 Gennaio. La complessità della situazione e   la sua natura globalmente ed ideologicamente densa rende difficile non   perdersi nei dettagli, ed ecco il mio parere sul perché la rivoluzione   sia lontana dalla sua conclusione.

Nello   spazio di pochi giorni, Mohamed Morsi passò dall’essere un capo di   stato che implementava leggi ed isolava l’opposizione per monopolizzare   il potere, ad un governante senza potere, perché la gente scese in   piazza. Dire che i Fratelli Musulmani avessero commesso degli errori   nell’anno precedente è un eufemismo. Non solo riprodussero il regime di   Hosni Mubarak che cacciammo dal potere. Si spinsero ancora oltre.   Permisero alla polizia di mantenere il proprio uso della violenza contro   rivoluzionari e semplici cittadini, incarcerandoci, mutilandoci,   torturandoci ed uccidendoci. In risposta alle proteste contro la   monopolizzazione del potere da parte della Fratellanza, sia i membri di   quest’ultima che le forze di sicurezza da essa dirette contrattaccarono   con incredibile brutalità. Tutto ciò avvenne senza alcuna sanzione   legale per la polizia o i membri dell’esercito. Il procuratore generale   della Fratellanza si rifiutò di riaprire procedimenti contro i   poliziotti che avevano ucciso o si erano resi complici dell’uccisione di   manifestanti durante la rivoluzione, nonostante avesse promesso di   farlo in nome della rivoluzione. La brutalità poliziesca non si attenuò   nemmeno un attimo sotto il governo della Fratellanza. Al contrario, la   polizia conservò la propria impunità per gettare nel caos una società   ancora pervasa da uno slancio rivoluzionario.

Sul   fronte economico, la Fratellanza guadagnò popolarità durante l’epoca di   Mubarak fornendo istruzione gratuita ed aiuti caritatevoli nei quartieri   poveri. Questo genere di attività aiutò a solidificare la loro base di   supporto in un’epoca di prezzi crescenti ed opportunità di decenti   standard di vita in declino. Eppure, una volta al potere, il loro   impegno caritatevole non si tramutò in politiche che avrebbero   beneficiato i poveri nel lungo periodo. Piuttosto, i Fratelli   approfondirono la neo-liberalizzazione dell’epoca di Mubarak. Per   soddisfare le condizioni degli infiniti negoziati con il Fondo Monetario   Internazionale (FMI) avevano già iniziato a rimuovere i sussidi da beni   di prima necessità come il carburante. Avevano inoltre annunciato   aumenti di tassazione sui beni di prima necessità, successivamente   ritirati a causa dell’opposizione di piazza.

Durante   il proprio periodo al potere, la Fratellanza richiese un’infinità di   prestiti sia dai governi che dalle banche della regione. Lo fecero in   assenza di un Parlamento. Lo fecero senza rendere pubbliche le   condizioni a cui gli egiziani avrebbero dovuto sottostare per anni a   venire. Una di tali condizioni fu quella di un prestito in sospeso del   FMI che richiedeva la svalutazione strutturata della sterlina egiziana,   provocando un aumento insostenibile dei prezzi del cibo in Egitto – per   buona parte importato ed acquistato in valuta straniera. Il governo   della Fratellanza mantenne inoltre lo stesso contrasto, dell’epoca Mubarak, alla   sindacalizzazione indipendente dei lavoratori, consentendo all’elite   del business di licenziare senza conseguenze gli aderenti ai sindacati.   Non provò nemmeno ad identificare o recuperare le proprietà defraudate   da Mubarak e dai suoi accoliti. Avviò invece processi di riconciliazione   con i membri del passato regime, citando la necessità di stimolare   l’economia egiziana.

L’appello     principale della rivoluzione fu “pane, libertà e giustizia sociale.”     Sulla giustizia riparatrice, la violenza poliziesca e la     redistribuzione finanziaria, la Fratellanza Musulmana non ha     semplicemente fallito. Ha condotto l’Egitto sull’orlo del precipizio, in cui le     condizioni erano persino peggiori di quanto fossero state sotto il     regime di Mubarak. E tutto questo lo ha fatto con arroganza,     alienandosi l’intero panorama dei movimenti politici e dei partiti nel processo.

Questa realtà ha ricondotto la gente nelle strade.

Questa realtà scredita quella cosa chiamata democrazia.

Nel contesto del regime autoritario della Fratellanza, che i partner commerciali occidentali hanno sostenuto con in mente i propri interessi politici ed economici, i bisogni quotidiani del popolo non erano una priorità nel processo politico decisionale. Ciò significa che chi è arrivato al potere in Egitto attraverso il processo elettorale aveva ricevuto l’approvazione delle elite locali, come i generali dell’esercito ed i loro sostenitori esteri. E ciò ha permesso la loro progressiva riaffermazione al potere. E’ così semplice. In Egitto non abbiamo mai avuto elezioni “giuste” e mai ne avremo finché rimane questa costellazione di potere.

Questa realtà neocoloniale rende ridondante la stessa idea di democrazia.

La gente è scesa nelle strade per esprimere il proprio rigetto di tutto ciò. Ma c’è un lato più spiacevole di questa mobilitazione di massa. La rabbia crescente nelle strade contro i Fratelli Musulmani ha fatto sì che i loro partner locali – i generali – si ritirassero dalla loro relazione di condivisione del potere e spingessero per l’estromissione della Fratellanza. Arriva l’esercito egiziano. Nei giorni precedenti il 30 Giugno le emittenti televisive liberali diffusero ingenti quantitativi di propaganda anti-Fratellanza. Sebbene molte delle informazioni fossero vere, il timing e la comunicazione diretta rivelarono il suo essere parte di una campagna più ampia contro il governo della Fratellanza. Assieme a questo vi fu una penuria di carburante che venne accentuata dalla polizia segreta e dall’esercito. Così facendo permisero alla campagna di Tamarod di guadagnare sostegno che non avrebbe altrimenti ottenuto, se queste stesse forze statali fossero intervenute per fermarla come di consueto una volta davanti ad una minaccia al potere statale. In un comunicato precedente al 30 Giugno i capi di Tamarod convinsero i manifestanti ad unificare la propria ribellione contro un bersaglio: i Fratelli Musulmani. Tutte le altre battaglie sarebbero state lasciate ad uno stadio successivo. Questa logica de “i nemici del mio nemico sono i miei amici” significò che, nonostante il suo ruolo nel sopprimere la rivoluzione, l’esercito – ed in maniera ancora più allarmante la polizia – furono celebrati sul palcoscenico pubblico nella passata settimana come eroi assoluti di questo momento rivoluzionario.

A questo punto, dobbiamo valutare il ruolo dell’esercito.

L’esercito, che ora sfila nelle nostre strade da eroe, è governato dagli stessi generali che hanno ordinato che le nostre proteste fossero schiacciate come durante il corteo di protesta davanti al palazzo di Maspero. Sono gli stessi generali che hanno supervisionato l’assassinio di settantadue tifosi per la loro partecipazione alla rivoluzione. Sono gli stessi generali che hanno effettuato i processi militari contro più di dodicimila civili egiziani per reinstallare la paura. Sono gli stessi generali che si sono impossessati di una vasta parte della nostra economia per i loro interessi. Sono gli stessi generali che hanno ordinato gli attacchi alle nostre proteste che hanno ucciso Mina Danial, Emad Effat, Alaa Abd El Hady e centinaia di altri, mentre ferivano, torturavano ed incarceravano decine di migliaia di persone. Sono gli stessi generali che hanno alimentato il settarismo e condotto test di verginità per dividere la società e schiacciare ogni forma di protesta pubblica.

In questa atmosfera politica polarizzata gli egiziani hanno dimenticato il passato troppo presto. Soffriamo di un’amnesia collettiva per sopprimere le nostre paure e riporre la nostra fede nel miraggio delle promesse di cambiamento. Il discorso della democrazia e l’illusione di una vita migliore, più libera e ricca sono le illusioni che tentano molti egiziani di riporre fiducia cieca in quelli che sostengono che le produrranno.

Guardiamo   il ruolo dei generali nei momenti chiave durante la rivoluzione del 25 gennaio.

28 Gennaio 2011: sebbene le proteste siano aumentate, venerdì 28 gennaio, il Giorno della Collera, ha preso tutti di sorpresa. Eppure, la costellazione neocoloniale dei generali dell’esercito e dei loro sostenitori stranieri, che furono duraturi partner di Mubarak se la giocò con intelligenza. Essi rimossero Mubarak dal potere due settimane dopo, sostenendo di ottemperare alle richieste della rivoluzione. La maggioranza del popolo egiziano li celebrò come eroi; videro i guasti dell’epoca di Mubarak come concentrati in un uomo, piuttosto che nel sistema che simboleggiava. A seguito di un periodo di governo diretto, la giunta militare consegnò una maggioranza di potere ad un “governo civile, democraticamente eletto” dopo essersi accordati su condizioni di sovranità condivisa. Si sottrassero decisamente alle responsabilità dirette per qualsiasi inadempienza del governo, mantenendo allo stesso tempo la loro fetta della torta politica ed economica. Il loro vasto impero economico non poteva essere minacciato.

3 Luglio 2013: L’esercito ripete una tattica simile a quella da esso intrapresa dopo la cacciata di Mubarak. Stavolta è più preparato. Sostiene di implementare il volere del popolo. Si prende il pieno merito di una gloriosa “Rivoluzione del 30 Giugno.” Questi erano i passi per contenere la collera della rivoluzione: il vero colpo di stato non è la deposizione di Morsi o di altri ufficiali eletti. E’ il tentativo di rovesciare una mobilitazione rivoluzionaria di massa. La nostra rivoluzione ha abbattuto Morsi, ma il colpo di stato dell’esercito vuole prendersi il merito della sua cacciata, quindi assorbendo il potere del popolo che l’ha fatta accadere.

Stavolta è stato diverso, stavolta i generali vedevano la barca affondare e volevano chiamarsene fuori. Il governo della Fratellanza non aveva solo fallito miseramente, aveva anche iniziato a credere di poter imporre la propria autorità nel Ministero dell’Interno e persino nei ranghi militari. Questi passi minacciavano di intaccare il pezzo di torta del potere dei generali. Il 3 luglio i comandanti militari riuscirono a sbarazzarsi di una partnership andata a male, ricevendo allo stesso tempo elogi inauditi dalla popolazione in generale. Per i loro sostenitori internazionali i giochi non erano stati così facili. Le nazioni del primo mondo, in particolare gli statunitensi che si considerano i guardiani della democrazia legittima, avevano fatto del loro meglio per affiancare la legittimità di mantenimento del potere della Fratellanza Musulmana. Ciò che è in gioco è quanto considerano essere un discorso senza tempo: la democrazia. Questo discorso facilita i ruoli di queste nazioni in un’egemonia globale attraverso cui possono alternativamente condannare, sopprimere e finanziare i leader del terzo mondo.

La democrazia è la chiave dorata per interpretare il ruolo di giudice globale tra il bene ed il male.

 

Per riassumere, facciamo un passo indietro.

Non esiste una cosa come la democrazia entro un contesto neocoloniale. Tale è la situazione in Egitto.

Inoltre, la logica di un colpo di stato contro un governo crolla completamente senza la possibilità di un ordine democratico.

Il potere di milioni di egiziani scesi nelle strade il 30 giugno frantuma l’illusione della necessità di una rappresentanza eletta ed ha la potenzialità di mettere a nudo questa realtà neocoloniale.

La paura è che le forze che mantengono l’egemonia sulla nostra società stiano utilizzando ogni mezzo possibile per prevenire l’ulteriore sviluppo della nostra rivoluzione. Ciò include uno sporco gioco di sfruttamento di questi eventi recenti, approfondendo deliberatamente le divisioni nella società egiziana per rendere il loro dominio inevitabile, ancora più violento e meno responsabile verso la popolazione in generale. Dal 30 di giugno ciò ha comportato un flusso infinito di spargimento di sangue tra i sostenitori della Fratellanza ed i civili in protesta contro di loro o presi nel fuoco incrociato o dentro gli scontri settari. Siamo prigionieri di una situazione in cui una popolazione viene tenuta in ostaggio ed il suo massacro incitato e sfruttato da quasi tutti i ceti politici che competono per il potere: i generali dell’esercito, la Fratellanza ed i liberali.

Oggi siamo ancora nel mezzo della Rivoluzione del 25 Gennaio. Affrontiamo il serio pericolo della sua cooptazione, ma finora il potere ancora risiede nel popolo. Per continuare a combattere dobbiamo sia ricordare il passato che vedere la nostra situazione immediata nella luce della costellazione di potere globale.

Non siamo soli.

Nonostante i diversi contesti tra Brasile, Turchia e Cile, come in Grecia, Spagna, Portogallo e negli Stati Uniti, il popolo esce per strada per ergersi davanti al dominio delle elite locali attraverso la logica della longevità del loro potere e per l’incremento della ricchezza di una minoranza. Vedere tutti questi momenti rivoluzionari entro un frame significa che, con o senza democrazia, con o senza elezioni, il governo popolare si sta spostando nella strada e fuori dagli uffici delle istituzioni e dei governi. Come ha scritto Max Weber, la rappresentanza è una “struttura di dominio”, e quindi dobbiamo preservare il grido della rivoluzione, “il popolo vuole la caduta del sistema.”

Siamo ad un punto di svolta globale.

Dobbiamo continuare a combattere.

 

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