Le radici indisponibili delle primavere arabe
Gigi Roggero da il Manifesto
Seppur con un lieve ritardo, dalla metà del 2011 gli scaffali delle librerie hanno iniziato a riempirsi di volumi sulle insurrezioni nel Nord Africa, sulla Tunisia e soprattutto sull’Egitto: reportage giornalistici più o meno utili, divulgazioni di stereotipi consolidati, pochi testi capaci di metterli in discussione e proporre interpretazioni differenti (tra questi va annoverata la raccolta di saggi Libeccio d’oltremare, recensita su queste pagine lo scorso 15 novembre). Insomma, la primavera editoriale si è gettata all’inseguimento della cosiddetta primavera araba.
In questo quadro il libro di *Fulvio* *Massarelli* (La collera della Casbah. Voci di rivoluzione da Tunisi, AgenziaX, pp. 116, euro 11) è importante, innanzitutto perché si basa su un’inchiesta militante nel vivo del «processo rivoluzionario». L’autore, da lungo tempo attivo nei movimenti e collaboratore de «il manifesto», nel corso dei mesi ha raccolto interviste con sindacalisti, insegnanti, studenti universitari, mediattivisti, femministe, giornalisti, ultras e rapper. Ha ascoltato e tradotto, interpretato e riflettuto insieme ai suoi interlocutori, dando così voce alla composizione sociale che ha incendiato la prateria nordafricana.
Da Tunisi a Wall Street
I media occidentali, insieme ad altre etichette esotizzanti e dal rancido profumo orientalista, hanno definito quella tunisina la «rivoluzione dei gelsomini». Ma i gelsomini, ironizzano *Massarelli* e gli intervistati, non crescono sull’arida terra di Sidi Bouzid, né in mezzo alle miniere di fosfato di Gafsa. Lì è cresciuta, invece, una lenta e spesso sotterranea resistenza, perché l’insorgenza tunisina non viene dal nulla, come un gelsomino dalla terra. La rivolta era organizzata, afferma Meysem, giovane giornalista oppositrice del regime di Ben Ali, e affonda le sue radici nelle lotte operaie e studentesche a partire dagli anni Ottanta.
Massarelli e gli intervistati ritengono che anche la definizione di «twitter revolution» sia una banalizzazione. Se da un lato coglie la grande importanza che ha avuto il web, dall’altro rischia di separarla dalla materialità dei corpi, della composizione sociale e delle sue pratiche di lotta. La rete, ci dicono le voci da Tunisi, è stata dunque espressione dell’«intelligenza collettiva», dell’affermarsi di nuove forme di organizzazione capaci – sostiene Malek, studente, blogger e poeta – di rompere i confini: «quello spazio che prima era così grande e pieno di frontiere, d’un colpo è diventato piccolo». Percorsa dalle lotte, la rete disegna nuove coordinate spazio-temporali: non è un caso, allora, che l’insorgenza immediatamente si propaghi a piazza Tahrir, per poi attraversare il Mediterraneo con le «acampadas» spagnole e l’Atlantico con Occupy Wall Street.
La rete è anche espressione del ruolo decisivo della giovane forza lavoro cognitiva – fatta di studenti, grafici, montatori video, artisti, lavoratori dei media, in generale produttori di saperi precari o disoccupati – dentro la composizione del movimento tunisino. Spiega il sindacalista Jazz: «Ai giovani non piacevano i limiti e i modi di parlare dei vecchi militanti, gli appelli alla manifestazione non erano mai scritti nel loro linguaggio (…) ci accorgevamo che i giovani proletari avevano risolto molto prima di noi il problema della repressione, erano già più liberi di noi militanti». Così, quando alla Casbah compare il graffito «non posso sognare insieme a mio nonno», rivolto al vecchio premier Essebsi succeduto al destituito Gannouchi, non è un’imprecisata istanza di ribellismo giovanile. Del resto, i fili intergenerazionali della sovversione non si sono mai interrotti, studenti, lavoratori cognitivi e giovani militanti hanno usato gli spazi del sindacato unico Ugtt come luoghi di politicizzazione, rovesciandoli contro i vertici complici del regime. Così come hanno usato altri spazi – dai social network, appunto, alla musica ai quartieri, fino alle curve. Quello slogan indica, invece, la volontà di continuare il processo rivoluzionario, l’affermazione della sua fresca potenza.
Il termidoro islamico
La sinistra e i suoi partiti, anche quelli che più si sono distinti nell’opposizione al regime di Ben Ali, hanno capito poco o solo in parte l’emergere di questa nuova soggettività. Lo spiega in termini chiari Majid Hawachi, tra i fondatori del Partito comunista dei lavoratori tunisini, oggi giornalista indipendente: i partiti della sinistra, dice, non sono riusciti a elaborare un programma di transizione, sacrificando le rivendicazioni della vita delle persone, gli scioperi e le lotte, in vista delle elezioni. «Io rispondo: No! O adesso o mai più!». Un altro errore, argomenta in modo convincente *Massarelli*, è stato cadere nella trappola di trasformare la costituente in un referendum sull’islam. Il risultato è noto: ha vinto Ennahdha, «il cui programma religioso si ispira alle politiche neoliberiste temperate dalla carità religiosa». Una partito che da subito si è proposta di terminare il processo rivoluzionario agitando verbalmente la bandiera della cacciata di Ben Ali e gridando all’ormai conquistata libertà liberale. In barba allo scontro di civiltà preconizzato da Huntington, ecco i migliori alleati termidoriani del potere imperiale.
Da Cartagine alla rivolta
Che l’obiettivo non fosse esclusivamente la caduta di Ben Ali era chiaro a quelle decine di migliaia di giovani che hanno abbandonato le proprie case nelle zone interne della Tunisia o nelle periferie per conquistare il centro della metropoli, la Casbah. «La dittatura è un concentrato di potere e di cazzate», sbotta Malek, altroché invincibile dominio totalitario sulla nuda vita. Il regime fu quello che Ranajit Guha ha definito – sulla scorta di Gramsci – «dominio senza egemonia». Ma il silenzio è stato rotto e quella lunga genealogia di sedimentazione della resistenza ha assunto forma organizzata. Karim, rientrato in Tunisia dopo essere passato per vari centri di detenzione per migranti in Italia, condensa efficacemente: «gli studenti dovevano fare gli studenti, i lavoratori dovevano lavorare, e tutti dovevano stare zitti, ma quando Mohamed si è dato fuoco, la situazione si è capovolta». Ecco perché quei giovani che hanno occupato la Casbah per tre volte non vogliono tornare a casa: «quando siamo riusciti a cacciare Ben Ali era come se fossimo scioccati da quanto ancora andava fatto», chiosa Fatima, femminista e insegnante d’arte. Perché la Casbah (da qui la corretta scelta del titolo) è divenuta uno spazio comune di organizzazione di questa potenza collettiva: «ormai il potere non era più a Cartagine ma era alla Casbah».
Come sostiene *Massarelli*, il movimento tunisino ha quindi fatto irrompere, dentro la crisi economica globale, il tema dell’attualità della rivoluzione. Non quella dei gelsomini, ma contro i rapporti di sfruttamento. Al contempo, seguendo il percorso e le voci di quell’insorgenza, si apre il problema: come è oggi possibile ripensare e praticare la rivoluzione. A questo punto, però, la questione non riguarda solo quello straordinario movimento, ma interroga tutti.
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