Ostinati a tagliare le reti, ostinati a decidere della propria terra
benint dae lontanu, a si partire
sos fruttos, da chi si bruiant sa terra.
Isperamus chi prestu hat a finire
cust’istadu de cosas dolorosu:
meda semus istancos de suffrire
I vandali, con liti e contese, / vengono da lontano, a ripartirsi / i frutti, perché bruciano la terra. //
Speriamo che presto venga a cessare / questo stato di cose doloroso: / siamo davvero stanchi di soffrire
Peppino Mereu, A Nanni Sulis II, 1895 circa
Un anno e quasi due mesi dopo la manifestazione che aveva violato un altro poligono, quello di Capo Frasca (Or), altre reti sono state squarciate. Non crediamo di trovarci davanti a un movimento antimilitarista o che una qualche prospettiva indipendentista si rinsaldi dalla giornata di ieri. Sebbene le componenti politiche più affini a questi poli con generosità abbiano contribuito alla costruzione della giornata di lotta nessuno dispone degli ingredienti per cucinare la sua propria ricetta. Tutto è sul piatto, anzi. La politica, come forma separata di costruzione dei fenomeni sociali e di interazione con essi, si può leggere certo in controluce, con rispetto e ammirazione, nelle travagliate vicende dalle fortune alterne, dell’attività di decine e decine di militanti che grazie al loro sforzo e sacrificio hanno costruito una continuità reale di percorso nel corso di quest’anno: dalla passeggiata di aprile lungo il perimetro della base di Teulada, agli scontri alle recinzioni della base di Decimo contro la Starex in giugno, fino ad arrivare al corteo di Cagliari di qualche settimana fa. Questa parabola ha lasciato aperta la possibilità che si confermasse una disponibilità diffusa e stratificata a marciare e a battersi contro l’osceno abuso di una terra, ostentato con provocazione, come gli stock di bombe da esportare su un aereo cargo in Arabia Saudita – il principale cliente dell’industria bellica italiana. Merce qualsiasi esposta sulla pista dell’aeroporto civile di Cagliari-Elmas, tra i low-cost in rullaggio, carichi in questo periodo dell’anno più che di turisti di emigranti sardi, costretti a subire l’ennesima offesa da dietro il finestrino. La manifestazione visibile di un’impotenza imposta desta scandalo, ancora, e voglia di reagire, organizzarsi, scontrarsi; come successe per l’incendio causato dai missili esplosi sulle colline di Capo Frasca nel settembre 2014 a poche centinaia di metri dai bagnanti. Questo il primo dato rilevante. Confuso, ambiguo, umorale ma prepotente, sociale e capace di imporsi come discorso pubblico e senso comune in una larga fetta di popolazione.
La Sardegna, depredata, prima industrializzata, poi avvelenata e deindustrializzata, recintata per essere bombardata, bruciata, polverizzata subisce una pervasiva presenza militare come integrale apparato di predazione del territorio e delle vite. Perché se non vedi da casa le recinzioni della più vicina zona militare quella zona militare ti entra in casa, in famiglia, in quel parente che ognuno ha; il fratello, sorella, cugino o cugina che a 18-20 anni prova il VFP1 perché attorno hanno fatto il deserto e quella è la forma più prossima di reddito garantito per sopravvivere in una società che è riuscita a integrare in una forma mercificata dell’umano anche gli antri di Isola più refrattari. Non abbiamo proprio nessuna poesia da spenderci. Magari quel parente era lo stesso militare che stava ieri a fare la guardia alle reti di Teulada, al servizio di chi si esercitava, e che, anche se non gliene fotteva poi tanto della divisa e gli servivano solo un po’ di soldi, comunque stenti a riconoscerlo per come ragiona ora, come un tuo simile in armi contro di te, perché è da un po’ che l’esercito si è fatto troppo polizia e la polizia troppo militarizzata. Ti hanno portato via anche lui. Si impone una violenza innanzitutto nel determinare che non hai un futuro nella tua terra, buona, a seconda delle esigenze, per essere bersagliata con i missili oppure venduta in blocco ai cinesi per investire in ettari e ettari di serre fotovoltaiche che sfregiano irrimediabilmente ogni orizzonte disegnato nella memoria. Quello militare è un apparato di predazione complessivo che mette a valore un territorio nella sua distruzione. Non è lo Stato qui a dirigere dei processi complessivi, proprio perché all’altezza del militare ne dirige ben pochi, specie quando il militare si fa ciclo produttivo della merce guerra come confermato dalla Trident Juncture degli eserciti NATO. Gli basta forse – allo Stato – solo una presenza per il contenimento di comportamenti sociali collettivi nella sua forma di polizia dei territori, per garantire che i territori stessi non interferiscano con il modo del loro ab-uso capitalistico.
La giornata di lotta straordinaria di ieri ha saputo, ci sembra, mettere in crisi questo duplice livello: la linearità di un modello di valorizzazione/distruzione e la normalizzazione della sua accettazione. Questo il secondo dato notevole. Per sospendere l’esercitazione, per mandare in crisi un grosso investimento di capitale nella Trident Juncture e dunque rappresentare un problema non accantonabile per un livello sovraordinato rispetto al territorio ma che di fatto lo governa, occorreva violare il perimetro del poligono. Per violare il perimetro del poligono occorreva violare i divieti di polizia che hanno provato in questi mesi e specie nelle ultime settimane e giorni a contenere goffamente una volontà politica non reintegrabile, capace di stabilire uno scambio con l’insopportabilità dell’usurpazione di un territorio e di altre possibilità umane in questo. L’ostinazione nell’infrangere i fogli di via e di manifestare comunque nei comuni di Sant’Anna Arresi e Teulada, muoversi in corteo contro il divieto a manifestare della questura, l’andare a liberare i manifestanti sotto sequestro per ore sui pullman, forzare i posti di blocco, aggirare gli schieramenti di polizia, costringerli a rincorrere i manifestanti e a caricare nello sterrato e nel fango e soprattutto il non aver mai rinunciato ad avvicinarsi alle reti per tagliarle e introdursi nel poligono per far male alla controparte, sono la cifra antagonista di una giornata vera di lotta popolare. Rigidità praticate fino in fondo e che hanno permesso di produrre uno strappo importante; una rottura che pone nuove condizioni, scioglie dei nodi e apre a nuovi problemi e prospettive.
L’importanza e il valore politico della rottura è certamente il terzo tratto caratterizzante che la giornata di lotta di ieri lascia in eredità. Lo scenario è mutato. Nuove storie si inaugurano. Chi immaginava di sfruttare l’onda lunga di Capo Frasca per impantanarne la spinta in un’ipotesi di referendum contro le servitù militari al fine di autorappresentarsi a spese delle aspettative e dei destini collettivi, resta ora evidentemente sullo sfondo. Emerge una nuova soggettività, rafforzata dalla gioia di vincere il nemico, di averne violato gli spazi grazie all’essersi interrogata sul problema di incidere per davvero sulla realtà coltivando la rottura. Questi protagonisti di una battaglia popolare pretendono futuri passaggi all’altezza della sfida posta ieri, che non per forza saranno della stessa intensità e che probabilmente dovranno affrontare anche la complessità dei tanti territori di Sardegna, dal Sulcis martoriato, al capoluogo cagliaritano. Quali i nuovi strappi da costruire sulle lotte, per guadagnare maggior decisionalità sulla propria terra e sulla propria vita, dopo la Trident, fuori dalle basi? Non ci sono formule pronte, solo sfide da organizzare, continuando a osare con la stessa ostinazione di quando si è puntato dritto alle reti.
compagni/e autonomi/e di un angolo al centro del Mediterraneo
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