Stato Islamico: quale verità? Voci di profughi in Iraq
I racconti dei sopravvissuti all’arrivo dell’Is, ormai profughi in altre città dell’Iraq, delineano un quadro ambiguo, dove il califfato appare anche un “mostro provvidenziale” per le potenze regionali e internazionali. Fallito il brutale tentativo americano di addomesticamento degli iracheni, il paese è finito nelle mani di un partito, Al-Dawa (sciita), vicino all’Iran. La secessione sostanziale del Kurdistan del presidente Barzani, che dal 2014 ha cacciato (anche a costo di scontri armati) l’esercito di Baghdad dai suoi territori, ha rappresentato un contrappeso favorevole agli interessi opposti all’Iran: Turchia e Arabia Saudita a livello regionale, Stati Uniti ed Europa a livello globale; e che le province arabe di Anbar e Niniveh diventassero sostanziale terra di nessuno, e guadagnassero autonomia di fatto dal governo centrale, non è stato stato visto come un fatto di per sé negativo. Di questa sorta di non belligeranza politica tra Is e Occidente, secondo una strana logica di “drole de guerre”, quasi tutti i profughi fuggiti dal califfato sembrano convinti.
“Avevamo le armi per combattere e i Peshmerga curdi erano presenti in forze nel nostro villaggio; ma si sono ritirati, e ci hanno detto di fare altrettanto” racconta Hussein, un medico ezida nel campo profughi di Dawodya, provincia di Duhok (Kurdistan iracheno settentrionale). Con i suoi 4.205 profughi, tutti provenienti dall’Iraq, i suoi 99 prefabbricati e le sue 621 famiglie ezide, arabe, curde e torcomanne, il campo è, di fatto, un Iraq in miniatura. Diviso in “quartieri” secondo affinità linguistiche o religiose, che travalicano ampiamente nel sociale e nel personale, è comunque – dicono i suoi amministratori, che esibiscono dietro ogni scrivania il ritratto del presidente Barzani – “una piccola isola di pacifica convivenza e rispetto reciproco”. “Ho cercato di fuggire a nord, ma i Peshmerga mi hanno fermato a un posto di blocco” continua Hussein. “Eravamo migliaia. Solo dopo alcune ore, mentre i miliziani di Daesh sparavano sulla folla e ci inseguivano per tutta la zona, i Peshmerga sono fuggiti e siamo potuti fuggire anche noi”.
Le scene raccontate dai fuggiaschi a Dawodya o a Erbil sono le stesse che riferiscono quelli di Batman, nel Kurdistan turco, o i cristiani fuggiti da Karakosh e Mosul, oggi riparati ad Ainkawa: né l’esercito iracheno, né i Peshmerga del Pdk hanno affrontato Daesh. Un profugo di Makhmur scoppia a ridere quando gli rivolgiamo questa domanda: “Daesh non combatte mai quando entra nelle città: entra in centri ormai disertati dalle forze rivali, e combatte solo quando viene attaccato”. Popolazioni stremate, strati proletari pronti a sottomettersi a qualunque gang pur di sopravvivere, gente oppressa da decenni, che non aspetta altro che l’amministrazione della vita torni ai consigli della sharia che da secoli gestiscono le controversie nelle loro città: è lo sfondo sociale su cui si è inserito in questi due anni lo stato islamico con i suoi convogli di pick up incolonnati sulle autostrade, contro cui molti arabi sunniti, al di là delle opinioni politiche, hanno ritenuto di non aver voglia, motivo o possibilità di combattere.
Majid è arabo sunnita, ma viene da Singal, città a maggioranza ezida. Non ha ritenuto di dover restare e appoggiare i nuovi invasori. “Avevamo visto in TV quel che avevano fatto nelle altre città: uccidevano i soldati e i poliziotti, e mio fratello è poliziotto. Inoltre avevamo parenti a Qamishlo [in Siria, Ndr] che ci avevano detto per telefono: arriveranno e diranno di non voler fare del male a nessuno, poi inzieranno a uccidere poliziotti e soldati”. Sahid è torcomanno, di Mosul. Quando gli chiediamo la sua confessione religiosa, si spaventa: siamo tutti uguali, dice preso da una specie di panico: sunniti o sciiti, non fa alcuna differenza. Come quasi tutti i turcomanni di Mosul, è sciita: una fede che verrebbe rispettata da Baghdad in giù, ma che nel nord dell’Iraq può creare solo problemi. “Quando i quartieri ovest di Mosul sono stati occupati da Daesh abbiamo deciso di andarcene. Ci avrebbero ucciso tutti per la nostra religione” confessa.
Giura che il governo di Mosul, prima dell’arrivo di Daesh, era ottimo, che non c’era alcun problema. Nei quartieri ovest in cui viveva, spiega un altro uomo – padre di famiglia arabo ma cristiano – stava anche la gente più facoltosa, tra cui molti cristiani e curdi. Il lato est, oltre il Tigri, è la parte della città dove vivono le masse diseredate arabe musulmane, ci dice: lì, nei primi giorni, l’Isis ha imposto il suo potere, per poi giungere sull’altro lato, dove la gente è fuggita all’impazzata. Nonostante la rapidità della conquista della città, sarebbe sbagliato pensare che il potere salafita sia giunto dal nulla: “Io non andavo più a Mosul dal 2004, nonostante a volte ne avessi bisogno per ottenere dei documenti” racconta Hussein; “Ben prima di Daesh i salafiti erano pronti ad aggredirci o ucciderci se solo ci vedevano per strada. Perchè avrei dovuto andare in un posto così?”; e i cristiani di Ainkawa, per la maggior parte assiri, raccontano delle tasse che i salafiti pretendavano dalle famiglie non musulmane ben prima dell’invasione dell’Isis.
“Non c’era Daesh, ma c’era Al-Qaeda [che già aveva preso il nome “Stato islamico in Iraq”, Ndr]. Hanno sempre assassinato cristiani a Mosul, ma non credere che con gli sciiti vada meglio: alcuni di loro hanno ucciso un cristiano a Baghdad, l’altro giorno, perché vendeva delle birre”. Jabal è ezida, ha una buona istruzione e insegna nel campo dal mattino alla sera tutti i giorni, per 140 dollari al mese; implora una raccomandazione per lavorare come traduttore presso i giornalisti occidentali. Tutti gli danno ragione quando dice che le minoranze, in Iraq, avrebbero bisogno di protezione internazionale: “Basterebbero dieci soldati dall’Europa per proteggere Singal” dice un uomo turcomanno dall’altro lato del prefabbricato in cui siamo seduti, evidenziando il carattere mitico che qui, nel bene o nel male, assume l’immagine della forza militare straniera.
La richiesta di forze straniere va di pari passo con la protesta ingenua per il loro comportamento: “Ho visto con i miei occhi un aereo Usa sorvolare un convoglio di Daesh e aspettare che tutti i miliziani fossero in salvo prima di colpire il furgone vuoto” afferma il Mukhtar ezida del campo. Hussein gli fa eco: “Per sette giorni Daesh ha massacrato, stuprato e terrorizzato a Singal e dintorni. Soltanto dopo gli americani hanno iniziato a bombardare”. Racconta la fuga sulle montagne, la morte di un suo anziano conoscente per fame: era rimasto nascosto nella sua casa, in un villaggio abbandonato, e nessuno l’aveva visto, ma tutto attorno c’erano soltanto miliziani. “L’occidente è potente, può controllare il mondo: perché non può sconfiggere Daesh?” chiede furente un signore torcomanno, concludendo con la tipica frase: “Fanno tutto per il petrolio”. Un ragazzo sui vent’anni interviene: “Non dovete chiederci queste cose, i rapporti tra Daesh e l’America. Siamo gente senza educazione, non possiamo comprendere la politica. Io ho dovuto lasciare Mosul, è due anni che non vado a scuola”.
Chi ricostruirà la verità, le responsabilità personali e politiche, gli eventi e il contesto? I testimoni appaiono traumatizzati e impauriti, regolarmente preoccupati che le loro risposte possano innescare processi o conseguenze che non riescono a controllare. Da un lato, hanno timore a raccontare le loro storie; dall’altro, vorrebbero che esse provocassero come per magia benefici evidenti e immediati, e per questo non di rado sembrano soltanto in parte sinceri, come fossero impegnati ad aggiungere o sottrarre particolari che ritengono rilevanti, al fine di produrre a loro volta una narrazione senza chiaroscuri, dove tutto dev’essere semplice e coerente su dove sta il bene e dove sta il male. Testimonianze già raccolte dalle Ong occidentali, dal governo curdo, dalle Nazioni Unite e che ciononostante, in questa forma schietta, non hanno mai raggiunto le pagine dei nostri quotidiani: le popolazioni dell’Occidente devono a loro volta restare all’oscuro, percepire l’Iraq come un mondo incomprensibile da cui emerge soltanto una barbarie incontrollata, che può giustificare imperscrutabili tempistiche di guerra.
Le testimonianze di questi profughi raccolte dai poteri locali e internazionali, con mezzi ben più potenti e capillari di qualsiasi organo d’informazione indipendente, saranno filtrate da molteplici interessi e dalle coscienze sporche di centinaia di istituzioni, prima di finire sul tavolo di qualche ricercatore isolato e lontano, magari a sua volta preoccupato – come spesso accade – di non urtare questa fazione o quel governo. Con il tempo, l’inquinamento dei fatti e la loro organizzazione storico-concettuale, funzionale a questa o a quella narrazione della storia, prevarrà. La verità sulle conquiste dello stato islamico rimarrà per lo più sepolta nei giorni caotici dell’estate 2014, in cui tanto i politici di Baghdad quanto quelli di Erbil decisero di lasciare migliaia di città e villaggi al loro destino – con gli Stati Uniti a sorvolare dall’alto, senza intervenire. Fu geopolitica, calcolo cinico e assestamento di interessi regionali, o autentica insurrezione islamista, secessione di un pezzo di terra secondo la legge del corano e di Dio?
Appare chiaro – né sussiste contraddizione – che fu entrambe le cose; e a farne le spese furono queste persone, obbligate a vivere in tende o baracche con cinquanta o con meno dieci gradi, vittime dei razionamenti alimentari, delle paludi di fango e del vuoto di giornate vissute negli spazi aperti di cieli e montagne che paiono loro, tuttavia, prigioni. Sono tutti, senza quasi eccezione, impazienti di prendere una qualsiasi barca per l’Europa, una qualsiasi via lontano da qui; e non ritengono rilevante che forse moriranno nell’Egeo, saranno picchiati sotto il filo spinato macedone o stipati in gabbie dai poliziotti francesi a Calais. Questa storia se la vogliono lasciare alle spalle a tutti i costi, e a loro poco cambierà che cosa, un giorno, scriveranno gli storici. “Soltanto il Pkk ci ha aiutati, quando scappammo da Singal” dice Hussein. Jamal parla sottovoce, mentre passiamo in una via stretta tra due caravan: “Vorrei che a Singal governassero le Ypg”. Lo dice con aria circospetta, temendo che qualcuno del personale del campo lo possa sentire: “Sono gli unici che aiutano le persone per il solo fatto che sono persone”.
Dagli inviati di Radio Onda d’Urto e Infoaut a Duhok, Iraq
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