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Finanziaria e bollette, cosa ci attende?

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Da quando è arrivato Draghi l’economia italiana va a gonfie vele. Questo è il riassunto delle notizie che stampa e giornali ci propinano quotidianamente.

In questi giorni poi, la notizia di una crescita del PIL al 6%, e non del 4.5 come inizialmente previsto, ha dato il via al definitivo processo di santificazione dell’ex Presidente BCE.

Pochi si soffermano nel ricordare che la crescita di quest’anno è un normale rimbalzo al crollo dello scorso anno: – 8.9%.

Tuttavia, bisogna sottolineare che una maggiore crescita determina più ampi margini di indebitamento sul PIL, nonché una riduzione, seppur irrisoria del debito pubblico, dal 155.6% al 153.5%.

In sostanza la finanziaria di quest’anno dovrebbe contare su 20-22 miliardi di euro, circa 6-7 in più del 2019 quando il Covid non c’era.

Il primo dato da sottolineare è che nonostante manchino poche settimane, il governo non si è ancora espresso chiaramente su nessuna riforma.

Un discorso simile può essere fatto sul Recovery Fund, la cui struttura l’abbiamo descritta (qui), e del quale a distanza di tre mesi non se ne sa ancora molto. Sappiamo solo che i singoli ministeri sono in netto ritardo sulla consegna dei progetti (chi l’avrebbe mai detto).

Tornando alla finanziaria, elenchiamo quelli che sono i temi del dibattito.

Sulla riforma del catasto, Draghi ha annunciato che “nessuno pagherà di più e nessuno pagherà di meno”. Quindi non si capisce quale dovrebbe essere la novità rispetto all’iniquità odierna del sistema catastale/fiscale italiano. infatti bisogna ricordare che l’ultimo aggiornamento sulle imposte catastali è datato 1990.

Una vera e propria revisione dell’impianto immobiliare nazionale provocherebbe un altissimo apprezzamento delle tasse per i detentori di rendite immobiliari, che ad oggi pagano una miseria di tasse rispetto al valore di mercato.

Ovviamente un tale inasprimento non riguarderebbe la maggioranza delle persone proprietarie di casa in piccoli centri o abitazioni di nuova costruzione nelle metropoli, ma andrebbe a danneggiare i possessori di ville, castelli e appartamenti nei centri cittadini.

Anche per quanto riguarda la sbandieratissima riforma fiscale si attende che finisca la campagna elettorale delle comunali.

Il ministro dell’economia Daniele Franco ha annunciato che la pressione fiscale rimarrà intorno al 42% del PIL e nessuno si è espresso su tagli dell’IRPEF per le fasciazioni reddituali sotto i 55 mila euro, così come nessuno ha annunciato svolte fiscali progressive sui profitti, siano essi da impresa o finanziari, o sulla cedolare secca per gli immobili (oggi al 21% ben al di sotto di quanto siano tassati i redditi da lavoro).

Discorso analogo si può fare su Quota 100, che non verrà rinnovata ma non è chiaro quale accordo pensionistico verrà varato in successione.

Su questi temi ci riproponiamo di reintervenire una volta che il governo farà la grazia di fornire informazioni.

Ciò che invece è chiaro, è l’aumento del 40% del costo dell’energia: la stangata bollette.

Un tema centrale sia per il costante riduzione di potere d’acquisto, e quindi impoverimento, delle fasce meno abbienti della popolazione sia per il macro-tema della transizione energetica, vero e proprio fulcro del rilancio dell’accumulazione del XXI secolo.

Partiamo dall’inizio, il 13 settembre il Ministro per la Transizione Ecologica, Roberto Cingolani ha annunciato che le bollette del quarto trimestre 2021 (ottobre-dicembre) aumenteranno del 40%, dopo che il terzo trimestre aveva già registrato un aumento del 20% (costo complessivo circa 4.5 miliardi).

Il costo per le famiglie è quantificato in circa 500-600 euro annui, per un totale di 9 miliardi in tutto il paese.

Nel mese di agosto, senza clamore mediatico, il governo ha varato un intervento da 1.3 miliardi per sterilizzare l’aumento del terzo trimestre, riducendo di circa un terzo l’aumento. Quindi nelle bollette che stiamo per pagare (luglio-agosto-settembre) l’aumento dovrebbe essere di circa il 13%.

Una manovra quantitativamente simile è stata varata in questi giorni, infatti il governo si impegna a calmierare l’aumento del quarto trimestre investendo 3 miliardi di euro, un terzo del costo totale che abbiamo menzionato sopra, 9 miliardi).

A tal proposito è utile ricordare che gran parte del costo energetico è formato da onerose tasse che nel caso dell’energia elettrica rappresentano il 40% mentre per la benzina giungono fino al 75%. Queste sono le parti del prezzo sul cui il governo può intervenire.

Tuttavia questo “aiuto” di stato non sarà uguale per tutti ma l’erogazione di fondi sarà fortemente iniqua e a favore delle imprese.

Guardiamo alla composizione di questi tre miliardi.

Da un lato c’à la carità verso coloro che vivono in condizioni di povertà estrema o nei pressi di essa. Infatti, i percettori di reddito di cittadinanza con ISEE inferiori a 8000 euro, poco meno di 3 milioni, non subiranno i rincari. Questa iniziativa rappresenta circa 5-600 milioni di euro dei 3 miliardi totali.

Mentre 2 miliardi andranno a calmierare i prezzi dell’energia per 6 milioni di piccole e piccolissime imprese con un regime di consumo energetico inferiore ai 16 KW/h.

Le restanti 30 milioni di famiglie di questo paese potrebbero non ricevere nessun sussidio e pagare l’intero rincaro.

Le stesse società produttrici non vengono toccate e potranno continuare a macinare profitti sulle spalle di tutta la popolazione.

Ma Quali sono i motivi di una tale impennata?

Ve ne sono sia congiunturali sia strutturali, partiamo dai primi.

La ripresa della domanda globale post-Covid, testimoniata dalla crescita del PIL di tutti i paesi G20 è l’asse principale di questo aumento.

Dalla Cina agli Stati Uniti, passando per l’industria europea, tutti gli apparati produttivi hanno fame di energia e materie prime, il cui processo di estrazione è fortemente energivoro.

L’offerta di energia nel 2021, ossia la sua produzione globale, non è stata in grado di crescere allo stesso ritmo della domanda.

Bisogna sottolineare che questi aumenti non sono legati ad uno specifico ambito della composizione di produzione energetica.

Un esempio calzante a questo proposito è quello francese. Com’è noto la Francia è il maggior produttore europeo di energia derivante dal nucleare, e quindi meno legata alle importazioni di gas e petrolio, ma allo stesso tempo è il paese che rischia l’aumento dei costi maggiore stimato tra il 40-50%.

Un’inflazione dei costi simile a quella italiana e tedesca.

L’unica fonte di energia che ha riscontrato una contrazione è la produzione di gas da parte della Russia, mentre l’industria petrolifera è tornata ai livelli pre-Covid, ed anzi ha registrato una maggiore produzione legata al previsto rimbalzo della domanda globale.

Tuttavia, alcuni prevedono che il costo del carburante possa nei prossimi 6 mesi tornare a superare i 2 euro al litro.

Uno dei fattori che influenza maggiormente il prezzo dell’energia sono i costi di compensazione per le emissioni di Co2. I produttori di energia termo-elettrica (gas, petrolio, carbone) hanno la possibilità di commerciare la loro emissione di Co2 attraverso i carbon credits.

Questi possono essere commercializzati tra aziende inquinanti e non, e possono essere abbattuti attraverso programmi di riforestazione, un contro-processo che dovrebbe assorbire parte dell’azione inquinante.

Tuttavia, l’ondata di incendi, che anno dopo anno diventano sempre più incisivi e diffusi, ha posto un freno alla riforestazione globale, imponendo un aumento del costo dei carbon credits.

Costo crescente che le aziende produttrici di energia stanno scaricando direttamente sui consumatori.

Un’altra causa dell’aumento può essere rintracciata nella finanziarizzazione del mercato energetico. Infatti le aspettative critiche sull’asimmetria tra domanda e offerta di energia hanno causato un apprezzamento del mercato dei futures energetici, ossia i derivati finanziari che stimano crescita o perdita del valore di un prodotto nel futuro.

La scommessa “collettiva” finanziaria su un futuro aumento del costo dell’energia crea quel processo di profezia auto-avverante che conduce ad un aumento del valore finanziario dell’energia, pronosticata come bene sempre più scarso in un contesto di domanda crescente.

Infine, bisogna spendere qualcosa parola sul perché l’aumento del costo dell’energia possa rappresentare una tendenza strutturale nel medio-periodo.

L’ondata di politiche di green, come l’aumento dei costi per l’emissione di Co2 o la de-carbonizzazione dovrebbero andare ad incidere in maniera crescente sulla produzione (offerta) globale di energia.

Con il ritmo di investimento e finanziamento odierno, le energie rinnovabili difficilmente riusciranno a tenere il passo di quanto si vorrebbe perdere in termini di creazione energetica da processi termo-elettrici (Petrolio, gas e carbone).

A questo proposito è calzante l’esempio dell’automotive. Il cambio di paradigma da consumo di benzina ad alimentazione elettrica sta comportando la movimentazione di terra e scavi estrattivi in mezzo pianeta alla ricerca di nuove materiali, litio e terra rare su tutti.

L’utilizzo sempre più diffuso di trasporto elettrico non andrà ad incidere positivamente sui costi dell’energia, anche in un contento in cui il petrolio perda la sua centralità, cosa tutta da verificare nel breve periodo.

Inoltre, la crescita demografica planetaria complessiva, accompagnata alla “fame energetica” di chi fino ad oggi è stato nella periferia dell’economia mondo capitalistica, soprattutto il sud-est asiatico, imporrà una crescente domanda strutturale di energia.

Sin qui abbiamo appena scalfito la superficie del vasto tema della transizione energetica, e ci ripromettiamo di tornarvi sopra in maniera organica, ciò che è limpido è la socializzazione dei costi della transizione critica in corso.

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