Nella loro testa – Un tentativo di classificazione utile
Continua il dibattito su Green Pass e pandemia. Riceviamo e pubblichiamo un articolo di uno studente universitario che prova a cantierizzare una delle possibili chiavi di lettura delle pulsioni che hanno generato le piazze dello scorso mese…
Entrare nella testa di chi si proclama “medico di se stesso” o “ebreo del 21esimo secolo” non è un’operazione banale, ma è senza dubbio cruciale. Troppo spesso chi commenta queste vicende esternamente, movimento compreso, finisce facilmente per stigmatizzare queste soggettività, se non, nel caso peggiore, per medicalizzare il loro disagio (“curatevi”/”tutti pazzi”/ecc…), negandosi ogni possibilità di trovare degli spunti utili, autorelegandosi a spettatore passivo degli eventi.
Ma come si fa? Come si può trovare spunti in un “movimento” che non riesce nemmeno a definirsi, che è attraversato da persone in buona fede senza però una minima cultura politica, approfittatori, fasci mimetizzati e “compagni che sbagliano”?
Proviamoci.
Innanzitutto proporrei di dividere le spinte all’interno di queste piazze in due grossi filoni: chi lotta per ristabilire i propri privilegi e chi lotta spinto dalla rabbia, senza capir bene da dove questa arriva. Ovviamente, all’interno di una stessa persona possono coesistere entrambi gli aspetti, alternandosi in intensità, ma credo che questa distinzione, che scarta volutamente chi attraversa le piazze, reali e virtuali, in cerca di opportunità politiche o commerciali (rimedi bio, santoni, fasci & rossobruni vari), sia utile, in quanto basata sull’opportunità, per noi, di poter intercettare delle spinte positive.
Iniziamo dai primi.
Come non sentirsi accapponare la pelle di fronte alla prospettiva Kafkiana di vedersi negato l’accesso ad uno spazio comune a causa di un foglio di carta (o di un reticolato di pixel)?
Chi si è occupato a sufficienza di immigrazione negli ultimi anni – e con occupato non intendo l’aver approfondito il tema da una pratica distanza di sicurezza – può immaginare, per empatia, cosa significhi quella sensazione di precarietà totale, di timore e di onnipotenza dell’autorità, capace di decidere della tua libertà senza possibilità di appello.
Va detto che, spesso, chi si schiera contro la “dittatura sanitaria” del green pass viene da un contesto culturale e sociale sufficientemente privilegiato, un contesto che è stato da sempre “esentato” dal subire la macchina repressiva che chi, per un motivo od un altro, vive ai margini della società, conosce già parecchio bene: questa condizione è fondamentale per cercare di capire cosa si agita nelle piazze enigmatiche di questi giorni. Non vorrei banalizzare le sofferenze delle persone migranti paragonando il divieto d’accesso a un ristorante con la reclusione in un Lager, passato o presente, ma vorrei far passare questo concetto: chi manifesta contro le restrizioni anti-covid non ha il metro di valutazione che abbiamo noi. Per loro, il ruolo dell’emarginato, dell’esclusa, del controllato è assolutamente nuovo. Qualcuno potrebbe obiettare che il lavoro, nel sistema capitalistico, pone queste persone nella stessa condizione, togliendo quindi la “novità” di cui sopra; ha ragione, ma l’oppressione sistemica si mimetizza molto meglio, è legittimata dal potere d’acquisto, è qualcosa che assomiglia più ad un “vorrei ma non posso” che non ad un secco e unilaterale “devi/non puoi”.
La risposta a questa improvvisa esperienza sociale può spingere molte persone a scendere in piazza, non tanto per affermare un’alternativa diversa da quella attuale, quanto più per ristabilire quella “sensazione di libertà” che il privilegio sociale concedeva loro fino a qualche tempo fa. Inutile dirlo: questa spinta è per noi totalmente deleteria. L’idea di “libertà” richiesta è quella di ritornare ai ruoli sociali precedenti alla crisi, è la tanto criticata “libertà borghese”, un bisogno fittizio, senza sbocchi, ma tremendamente necessario a chi, per vivere, ha bisogno di illudersi d’essere libero, in un sistema che di fatto lo proibisce.
Le persone mosse da questa forza hanno spesso un’idea di stato totalmente adulterata, quasi infantile: proiettano sullo stato tantissime caratteristiche proprie del sistema economico (avidità, potere effettivo, ecc..), non riescono ad analizzare i rapporti di forza esistenti data la scarsa educazione politica (e chi di loro ne aveva bisogno fino a sei mesi fa?) e sono facilmente raggirate dai profittatori di turno, cadendo spesso nella trappola del complottismo cieco e totale.
Chi spera in una sorta di catarsi, in un momento in cui queste persone si renderanno conto di odiare delle dinamiche di controllo sociale che loro stesse hanno avvallato contro immigrati, indigenti, ecc… si illude di grosso. Queste persone non sono uscite dal sistema, non sono in grado di riconoscere la propria posizione sociale, si autodefiniscono “cittadini” e, nella miglior tradizione nazionalista, negano l’esistenza e il ruolo del sistema economico nelle loro vite, salvo attaccare le multinazionali più in quanto “globaliste” che in quanto parti integranti di un meccanismo economico. Inoltre, è empiricamente provato che quanto più qualcuno sprofonda nel complottismo, tanto più diventa incapace di uscire da questa dinamica, per cui è piuttosto improbabile sperare in una fantomatica “empatia sociale” dovuta all’estensione dei meccanismi repressivi.
Come interloquire, come movimento, con questa spinta?
La risposta giusta non esiste, ma mi sento di consigliare questo approccio: data la natura piuttosto semplicistica delle congetture politiche di questo settore sociale, eviterei il più possibile il “politichese” o i termini da loro facilmente stigmatizzabili (Komunisti!1!).
Per quanto possa infastidirci, dovremmo, secondo me, renderci mimetici ai loro occhi e proporre una “controteoria del complotto”, capace di portarli a ragionare sulle dinamiche reali, anziché abbandonarli nel far west digitale, dove la realtà tende drammaticamente a personalizzarsi. Questa teoria dovrebbe fare intendere che il “movimento anti-green pass” stesso è funzionale al sistema (il cattivo delle narrazioni complottiste), in quanto distoglie l’attenzione (altro topos molto amato dai complots) dalle politiche economiche e sociali del governo (il PNRR, la gestione della sanità, ecc…). Ovviamente è più facile a dirsi che farsi, ma credo che questa sia l’unica strada percorribile con questa fazione: proporre un complotto basato su una dinamica REALE che sia più accattivante delle mille fantasie caleidoscopiche che si agitano nelle piazze contemporanee. Avremmo dalla nostra il vantaggio di portare la discussione su temi effettivamente determinanti e, seppur non ne alzeremo il livello, eviteremo di abbandonarla a fantasie di uomini telecomandati da Bill “Satana” Gates col 5G.
Passiamo al secondo macro gruppo, rappresentato dalla comunanza di un’emozione: la rabbia.
Credo che parecchi ricorderanno quelle piccole manifestazioni/rivolte dello scorso autunno, partecipate per lo più da giovanissime e dirette ad attaccare i simboli della città borghese: vetrine, sbirri, telecamere. Un piccolo revival di queste si è tenuto poi nel quartiere di San Siro (MI), dove il trapper Baby Gang, nel girare un video musicale, ha respinto, insieme a qualche centinaio di ragazzi, le cariche della polizia venuta a sgomberare “l’assembramento”, per poi inserire queste scene “riot” nel video della traccia “rapina”, fatto che gli è costato un foglio di via dalla città di Milano e un paio di perquisizioni condotte dalla DIGOS.
Questi sono solo piccoli episodi, ma all’interno delle proteste contro il green-pass questo gruppo, seppur sottostimato dai media e meno iconografico del precedente, è piuttosto presente. Parliamo di persone mediamente più giovani, lavoratori e studenti rabbiosi a causa delle restrizioni che, in questo caso, non sono l’improvvisa perdita di un privilegio, o di una condizione emotiva, bensì la proverbiale “goccia che fa traboccare il vaso”.
Risulta evidente come questo gruppo, composto in buona parte da ragazze e ragazzi figli di famiglie migranti, sia difficilmente corteggiabile dall’estrema destra, che ha tentato di infiltrarsi nelle proteste con magri risultati, ma anche, purtroppo, come nemmeno il “movimento” sia riuscito a portare in quei luoghi i suoi contenuti. Forse quest’ultima mancanza è dovuta a una certa estraneità a quel mondo che, specie a causa di un endemico sessismo (visibilissimo nella sua cultura musicale), si discosta parecchio dalle nostre rivendicazioni.
Eppure c’è molto terreno in comune.
La libertà che viene pretesa da queste persone è molto simile a quella che intendiamo noi: è un grido che rivendica la socialità, che lamenta condizioni di vita degradate e sogna un mondo migliore, se non per tutte e tutti, almeno “per il mio quartiere” o “per la mia compagnia”. Non vorrei peccare di ottimismo ignorando che anche questo gruppo sociale spesso rivendica una vita migliore ottenuta attraverso canali capitalisti e imprenditoriali, ma sta a noi, una volta compreso di aver obiettivi comuni, fornire una via alternativa per il loro raggiungimento, spingendo su quell’embrione di visione comunitaria che sta nascendo in seno alle nostre periferie metropolitane e provinciali.
È probabile che questo autunno vedrà l’esprimersi di un disagio dovuto all’inasprimento della crisi economica, allo sblocco di sfratti e licenziamenti e all’alienazione che sta investendo il mondo scolastico. Non è impossibile che il movimento “anti green pass” cerchi di canalizzare questi legittimi bisogni, dirottandoli in senso razzista, complottista e nazionalista. Non deve succedere e, per fortuna, possiamo ancora evitarlo. Saranno soprattutto i collettivi studenteschi a dover trasformarsi e agire in questo senso, intrecciandosi con i gruppi antirazzisti e cercando il più possibile di entrare in contatto con quel settore di popolazione giovanile realmente disagiata che ha animato i “riots” dello scorso autunno. Non mi sento di consigliare molto sulle singole strategie da seguire, in quanto credo siano troppo dipendenti dalle particolari situazioni in cui verranno attuate, ma mi sento di mettere in guardia qualunque gruppo tenti questa strada su una questione fondamentale: anche i fascisti / complottisti / profittatori vari cercheranno di agire nelle scuole e nelle università e non vanno per niente sottovalutati. Credo che, per cercare di depotenziare i collettivi, li delegittimeranno accusandoli di non criticare davvero il governo e le misure anticovid, di essere “pecore”, “false flag” e quant’altro. L’unico modo per contrastare questi attacchi sta nel prevenirli, iniziando da subito a costruire una critica intelligente alla gestione sanitaria del governo (green pass compreso), alle multinazionali farmaceutiche e alla malacomunicazione scientifica, in modo da poter intercettare quel gruppo giustamente sospettoso o rabbioso nei confronti di tutto ciò ma che, senza una cultura politica, cadrebbe immediatamente succube della controparte.
Portare avanti una comunicazione del genere non è certo semplice, ma continuare a cercare di intercettare i giovani con i metodi collaudati finora è, credo, certamente inutile. Mi sentirei di consigliare l’approcio snocciolato nel precedente paragrafo (no politichese, no settarismo, concetti giusti spiegati con semplicità, ecc…) riadattandolo anche al contesto giovanile, con una certa importanza da dare anche alla dimensione virtuale, in quanto la distinzione che ho introdotto si muove sia su un asse sociale (situazione economica/ quantità di privilegi) sia su un asse generazionale.
In conclusione penso che, in un momento in cui i movimenti “no green pass” (o come vogliamo chiamarli) sembrano aver conquistato una certa quantità di spazio pubblico, dovremmo chiederci, senza autoflaggellarci, dove abbiamo sbagliato durante questo “anno e mezzo pandemico” e cercare, in vista dell’autunno, di mettere in atto pratiche che siano, se non vincenti, quantomeno diverse e innovative rispetto a quelle che, per esperienze ripetute, sappiamo ormai non funzionare. Ciò non significa “sacrificare” delle nostre rivendicazioni per renderci più “vendibili”, ma trovare un canale per intercettare le spinte positive che si muovono intorno a noi che, per forza di cose, non deve ispirare sfiducia o porsi come giudice dei comportamenti altrui, ma cercare di educare gradualmente alla nostra visione del mondo, nell’ottica di vivere tutte e tutti meglio di così. L’alternativa è diventare una ristretta elité sicuramente interessante sul piano intellettuale, ma decisamente poco incisiva sulla direzione che prenderà il mondo intorno a noi…
Ragion per cui rimbocchiamoci le maniche.
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Qui i primi contributi pubblicati.
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