Palermo: vite sacrificate sull’altare dell’emergenza.
Palermo è una città che da sempre vive con e nell’emergenza. I problemi e le necessità paiono moltiplicarsi piuttosto che diminuire e tra queste, sicuramente, un posto di rilievo ha sempre avuto la questione abitativa.
Per due ragioni: la prima, manifesta, deriva dal dato quantitativo dell’emergenza casa nel capoluogo siciliano che conta circa diecimila famiglie tra le liste di attesa per l’assegnazione di un alloggio popolare.
La seconda ragione è legata alla storia di movimento, proteste e lotta che ha in questi anni animato le vie cittadine e fatto pressione sulle istituzioni affinché ci fosse un cambio di rotta radicale per la risoluzione del problema: storie di comitati, centri sociali, occupazioni. L’ultima di queste, quelle di casa Guzzetta ha visto la sua fine circa quattro anni fa; da allora cinque famiglie sono state dal comune costrette a vivere in albergo con enormi disagi: da quasi due anni, inoltre, il comune non paga più l’affitto di queste camere il che costringe le famiglie a vivere da occupanti abusivi sotto la continua minaccia di sgombero della direzione dell’albergo.
Da ieri una di queste vive un’altra devastante tragedia. Un uomo non ce l’ha più fatta e si è tolto la vita impiccandosi proprio nella sua stanza d’albergo. Aveva due figli e nessuna prospettiva per casa e lavoro. Una storia che dovrebbe far riflettere la politica tutta.
Dalla nostra prospettiva crediamo sia assurdo che a fronte di problemi così impellenti, non esista nelle stanze dei bottoni delle varie amministrazioni alcun piano di risoluzione dell’emergenza. In migliaia aspettano ormai da anni, decenni, risposte che latitano. Gli unici interventi sono stati regolarmente solo tamponi ad uso e consumo della pubblicità momentanea: tamponi come quelli che hanno portato, dopo uno sgombero, quelle cinque famiglie a vivere in albergo! Ma se tamponi e basta la ferita non si ricuce mai. È arrivato il momento di mettere la parola fine alla gestione emergenziale della questione abitativa e di affrontarla piuttosto con un intervento strutturale.
Tra l’altro le soluzioni paventate (dal basso e non dal Palazzo) sono molteplici: a partire dall’assegnazione dei beni confiscati e mai riconsegnati alle collettività; per non parlare dei vari progetti di auto-recupero di beni abbandonati regolarmente cestinati dalle istituzioni. Ma del resto si sa: i palazzi vanno venduti; sugli edifici si fa speculazione mica progettualità a fini sociali e, guarda caso, questi rientrano nei discorsi retorici di amministrazione e politicanti solo per giustificare gli sgomberi di edifici occupati da chi si auto-organizza per rivendicare i propri diritti.
E intanto le persone muoiono e lasciano, in chi le ha conosciute in tutta la loro generosità, una persistente sensazione di angoscia. Ciao Massimo!
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