VERSO UN NUOVO RIFIUTO DEL LAVORO?
È apparso su L’Essenziale del 13 novembre 2021 un articolo firmato Francesca Coin, sociologa che lavora presso il dipartimento dell’università di Lancaster e che tratta un fenomeno identificato come “Il nuovo rifiuto del lavoro”.
Nell’articolo sono riportati alcuni dati che avvalorano la tesi secondo la quale negli ultimi due anni vi sia stata un’ondata di “grandi dimissioni” abbastanza trasversale a settori lavorativi diversi e che riguarda sia le condizioni di lavoro in sé ma anche il riconoscimento per il proprio ruolo e le situazioni di sofferenza date nei contesti lavorativi. Secondo il Bureau of Labour Statistic degli Stati Uniti 20 milioni di persone hanno dato le dimissioni a partire dalla primavera del 2021, in Italia ci sono state 485 mila dimissioni volontarie nel secondo trimestre del 2021, secondo la nota ministeriale. Questi dati significano un aumento dell’85% rispetto al 2020 e il 10% in più rispetto al 2019, questa tendenza però secondo la sociologa si registra già a partire dal 2016. In Italia la disoccupazione è quasi del 30%, vi sono 2,3 milioni di disoccupati e l’offerta di lavoro è scarsa ma, nonostante questo si è comunque verificata questa tendenza.
Abbiamo chiesto a Francesca quali siano i settori più coinvolti in questo fenomeno, se esso riguardi una fascia sociale piuttosto che un’altra e se si possa parlare di “sciopero generale non dichiarato”. In questo senso ci è sembrato interessante legare questo tipo di comportamento alla risignificazione del concetto di sciopero derivante dalle mobilitazioni transfemministe recenti, di come quindi il lavoro non possa essere inteso semplicemente nelle sue condizioni materiali, nella retribuzione più o meno soddisfacente, nelle ore impiegate in qualità di lavoratori e lavoratrici salariate, ma anche come il lavoro permei completamente tutte le dimensioni dell’esistenza delle persone. A partire dal lavoro di cura non riconosciuto fino ad arrivare all’impossibilità di condurre una vita come la si potrebbe potenzialmente scegliere perchè dipendenti dalla possibilità o meno di lavorare, dal tipo di lavoro che si fa e dalle conseguenze che questo ha nelle proprie vite. Si riattualizza anche il concetto di rifiuto del lavoro.. “Siamo liberi solo di alzarci ogni mattina e di andare a lavorare. Chi non lavora non mangia. È libertà questa? C’è una cosa che impedisce la nostra libertà: il lavoro, e a lavorare in realtà noi siamo obbligati”.
È significativo il fatto che le interviste riportate nell’articolo della Coin si riferiscano a professionisti/e di un certo livello, con una certa consapevolezza del proprio ruolo nella società e delle proprie possibilità. Non è un caso dunque che siano questi profili ad avventurarsi nelle dimissioni volontarie proprio perchè l’alternativa, a partire dalla rete sociale nella quale si è inseriti, esiste e quindi si può scegliere di non lavorare o di cambiare lavoro. Questo dato porta però alla costruzione di un’ipotesi, tutta da verificare, ossia l’avvento di un’inedita repulsione nei confronti del proprio lavoro, seppur sulla carta dignitoso, e quindi in prospettiva, di una trasformazione della scala valoriale dominante nella società che possa andare a scalfire l’idea che la propria identità venga automaticamente rappresentata dal lavoro che si fa e quindi dallo status che si assume.
A fronte delle condizioni lavorative peggiorate a livello globale, evidenziate dall’esplodere della pandemia e dai relativi scombussolamenti nel campo dell’organizzazione del lavoro, a fronte dell’assunzione dell’imperativo della produttività come priorità rispetto alla stessa sopravvivenza, si può intravedere uno scollamento delle persone investite da un progressivo e poi tempestivo declassamento dato dai cicli di crisi sociale degli ultimi dieci anni che potrebbe sfociare in nuovi e interessanti posizionamenti di rifiuto dell’ordine neoliberista?
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