Ad un anno dall’assalto di Capitol Hill pt 2. Le origini della crisi, le origini del conservatorismo sociale
Questa è la seconda puntata di “Un’oggetto misterioso? Ad un anno dell’assalto a Capitol Hill”
Le dinamiche che hanno portato alla crisi del 2007/2008 e quelle che hanno generato la nascita del neopopulismo di destra negli Stati Uniti sono intimamente intrecciate ed entrambe trovano la propria origine negli inizi degli anni ’70, in concomitanza con gli “assemblaggi”1 della nuova globalizzazione e le origini della “rivoluzione dall’alto” neoliberale.
Lisa McGirr in “Suburban Warriors” individua i primi embrioni di mobilitazione di quella che definisce una “New Right” a partire dalla metà degli anni sessanta ad Orange Country, California2. Thomas Frank data la nascita del Great Backlash, un nuovo stile retorico del conservatorismo sorto in reazione al ‘68, all’inizio degli anni settanta3. Nel già citato “Family Values” Melinda Cooper propone come frame interpretativo lo sviluppo del nuovo “Social Conservatorism” in reazione ala crisi della “fordist family” e alla stagflazione dei primi settanta4.
Allo stesso tempo diversi autori rintracciano alcune delle premesse della crisi finanziaria nelle politiche economiche messe in campo dall’amministrazione Nixon proprio alla luce della stagflazione. In “The Making of Global Capitalism” Leo Panitch e Sam Gindin scrivono: “La natura di queste crisi [quella “asiatica del 1997 e quella del 2007] non può essere compresa se non si capisce prima come non solo il lavoro, ma anche il capitale – e non ultima la finanza – furono rafforzati durante l’era keynesiana del dopoguerra, come ciò ha determinato sia le cause che i risultati della crisi degli anni ’70 e come la particolare risoluzione di quella crisi a sua volta ha creato le condizioni per la crisi americana e globale di tre decenni dopo.” 5 Adam Tooze, seppure su posizioni diverse da Panitch e Gindin rispetto alla definizione della crisi del 2007 come una crisi interamente “americana” e con uno sguardo esplicitamente neokeynesiano, inidividua quattro fattori immediatamente collegati con la destabilizzazione della finanza immobiliare che hanno fatto da innesco alla crisi: “la cartolarizzazione dei mutui, il loro inserimento nelle strategie di crescita bancaria espansive ed ad alto rischio, la mobilitazione di nuove fonti di finanziamento e l’internazionalizzazione. Tutti e quattro questi cambiamenti possono essere fatti risalire alla trasformazione, negli affari economici mondiali, verificatasi tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta sulla scia dell’abbandono degli accordi di Bretton Woods.”6
La crisi dei primi anni Settanta fu un vero e proprio spartiacque per gli USA tanto sul piano interno quanto su quello internazionale. Saranno gli anni della transizione dalla società fordista a quella postindustriale in gran parte dell’Occidente, gli anni in cui prenderà forma la globalizzazione anche grazie al reaprochement con la Cina e l’internazionalizzazione dei mercati delle merci prima e finanziari poi.
Al centro dei dibattiti degli economisti e dei giornalisti del tempo ci saranno due concetti: la stagflazione e l’iterdipendenza. La stagflazione è una condizione in cui l’inflazione cresce in un contesto lontano dalla piena occupazione, cioe’ inflazione con stagnazione, senza crescita. Questo fenomeno è generalmente collegato alle spese militari della guerra in Vietnam e all’ambizioso progetto di welfare state di Lyndon Jhonson, ma anche ai movimenti di liberazione anticoloniali che in quegli anni stavano generando un nuovo rapporto di forza in grado di produrre ripercussioni sui prezzi delle materie prime. Un esempio su tutti è quello della crisi energetica del 1973, quando i paesi dell’OPEC in occasione della Guerra del Kippur, aumentarono i prezzi del petrolio e indissero un embargo contro i paesi filo-israeliani. Qui la seconda questione, quella dell’interdipendenza, cioè del fatto che non fosse più possibile adottare una visione dell’economia basata sul singolo paese, ma fosse necesario considerare complessivamente la distribuzione delle risorse a livello globale. Questi due nodi mettevano in crisi l’approccio keynesiano che fino a quel momento aveva guidato, dalla Grande Depressione in poi, le politiche economiche statunitensi. Ma ancor di più a costituire il nocciolo del problema era la crisi di realizzazione del capitale spinta dal costo delle commodities e dalle lotte per gli incrementi salariali. Come fa notare Niall Ferguson “per una grande percentuale di middle class anglofona, abituata a ricavare una quota significativa del loro reddito da investimenti, gli anni settanta furono il peggior decennio del XX secolo a parte dal 1910 al 1919[…]. Quell’esperienza aveva anche innescato un attacco di pessimismo culturale.”7 La crisi però non colpiva tutti allo stesso modo (come la retorica dominante del tempo suggeriva): l’inflazione in alcuni casi “Agiva come una tassa progressiva, portando a una maggiore uguaglianza nella distribuzione della ricchezza.”8 La forza dei sindacati poi determinava una crescita dei salari conseguente a quella dell’indice dei prezzi.
In fondo la crisi era intimamente collegata proprio al potere che la working class aveva assunto negli anni sessanta e al suo ruolo nella crisi di profittabilità che riscontravano le corporation: “Una nuova generazione dei lavoratori, condividendo l’anti-autoritarismo della controcultura in ascesa, respingeva sia la monotonia del loro lavoro che il ritmo di lavoro, e quindi costituiva un ostacolo all’efficienza del capitale. Ciò si è manifestato negli Stati Uniti soprattutto con la ribellione dei lavoratori del settore automobilistico contro le loro “gold-plated sweatshops”.9
E’ necessario però rifuggire da una lettura univoca della composizione di classe di quegli anni. Se gli anni sessanta avevano significato in termini generali un rafforzamento delle Unions e la catalizzazione dei movimenti di protesta della New Left che mettevano in dubbio lo stile di vita americano, la segregazione razziale, si battevano contro la guerra in Vietnam ed il modello di sviluppo capitalista, allo stesso tempo esistevano alcune significative enclave dove il boom economico e la società del benessere aveva prodotto esiti opposti. Un esempio su tutti è quello che ci offre Lisa McGirr rispetto al caso studio dell’Orange Country di metà anni Sessanta. In un territorio investito da una profonda ristrutturazione economica, dettata dagli investimenti del complesso industrial-militare in piena Guerra Fredda e dalle corporation dell’high tech (intimamente collegate a quest’ultimo), con una conseguente immigrazione di massa ed un boom immobiliare, si muovevano i primi embrioni di mobilitazioni “dal basso” della New Right. “La combinazione di tradizioni politiche conservatrici profondamente radicate nella contea di Orange, il particolare tipo di boom economico che la contea ha vissuto negli anni del secondo dopoguerra e l’eredità di molti nuovi arrivati, insieme alle loro esperienze nella California meridionale, hanno fornito un contesto ospitale per un’ondata di politica di destra durante gli anni ’60. […] La dipendenza dell’economia dalla difesa e dall’esercito penetrò profondamente nella coscienza delle élite locali, rafforzando il senso di connessione tra capitalismo, prosperità e anticomunismo.”
Non si possono comprendere le evoluzioni storiche degli anni Settanta senza prendere in considerazione queste enclavi. Luoghi che hanno vissuto un improvviso sviluppo, lontani dalle grandi metropoli o al limite in contesti suburbani, dove grandi masse proletarie o meno hanno visto un’improvvisa ascesa delle loro condizioni di vita dettate dagli investimenti strategici della Guerra Fredda. In breve una faccia del Sogno Americano. E’ a queste composizioni, oltre che alla classe operaia sindacalizzata dei vecchi centri industriali, che Nixon si riferisce quando parla di “Middle American”, di “Silent Majority”10 in contrapposizione alla presunta minoranza rumorosa del ’68.
E’ in questi contesti in cui si struttura una nuova middle class in contrapposizione con quella, altrettanto nuova ma liberale, delle città della costa Est che avviene la saldatura tra alcune istanze conservatrici “rinnovate” ed il libertarianismo di destra. E’ qui che le discipline economiche neoliberiste della scuola di Chicago trovano una base sociale di riferimento al di là dell’ovvio entusiasmo della grande borghesia.
E’ il periodo anche di un deciso revival religioso, con l’esplosione delle comunità evangeliche. Andrew Preston nella sua tematizzazione del fenomeno della Christian Right degli anni ‘70 propone a sua volta l’ipotesi di un altro “doppio movimento” questa volta focalizzato sul tema della globalizzazione: “Le comunità religiose negli Stati Uniti hanno risposto alle crisi della territorialità e dell’egemonia con un mix di ribellione ed accomodamento che i sociologi religiosi che studiano la globalizzazione chiamano “delocalizzazione e rilocalizzazione”. Avvenendo quasi simultaneamente, i cambiamenti fondamentali dell’era hanno innescato le caratteristiche dolorose della delocalizzazione: dislocazione, crisi d’identità, confusione e così via. Per perseverare, le comunità religiose si sono adattate ai nuovi sviluppi come meglio potevano. Ma si sono anche sforzate di mantenere la loro autonomia e riconquistare la loro autorità attraverso la rilocalizzazione, riaffermando i loro valori fondamentali e la loro identità. […] Eppure i cristiani liberali e conservatori hanno anche abbracciato la coscienza globale emergente sostenendo la causa dei diritti umani universali che trascendevano i confini nazionali e sostituivano la sovranità nazionale. La risposta dei cristiani americani allo shock del globale, quindi, è stata caratterizzata da un “nazionalismo universale” che ha posto gli Stati Uniti a capo della famiglia delle nazioni e li ha visti come arbitri del mondo.”
Questa ipotesi spiegherebbe in parte le fortune della Christian Right negli anni Settanta e nei decenni a venire, la capacità in sostanza di porsi come istituzione territoriale (in assenza di altro) che risponde ad un bisogno di protezione di fronte allo sfilacciamento del tessuto sociale generato dai complessi fenomeni socio-economici dettati dalla globalizzazione e dalla ristrutturazione capitalista. Una richiesta di autonomia “locale” che viene distillata dai predicatori conservatori in chiave reazionaria contro il Big Gouvernament, l’intromissione dello stato federale negli affari religiosi e politici delle comunità, la perdita di moralità causata dalle controculture e dal welfare state, ma allo stesso tempo il messaggio universale di un modello di civilizzazione, quello americano, da proteggere ed esportare in tutto il globo. Non è un caso che una domanda del genere si faccia avanti proprio nel momento in cui gli economisti discutono ampiamente della questione dell’interdipendenza.
Questa tensione tra territorialità e globalizzazione, tra locale e transnazionale, tra particolare ed universale tornerà ciclicamente a presentarsi negli anni a seguire, e come si vedrà sarà anche uno dei grandi temi del dibattito sulla crescita dei movimenti neopopulisti di destra e di sinistra a livello globale e negli USA.
Non si può leggere dunque il Social Conservatorism degli anni Settanta senza metterlo in relazione con la rivoluzione neoliberale, tanto nelle sue premesse quanto nei suoi esiti. Entrambi i fenomeni sono da considerarsi come una reazione alla stagione di conflitti sociali, di classe, sul tema del genere, della razza dei tardi anni Sessanta, ed entrambi da prospettive diverse si sono posti il problema del destino dell’egemonia USA, del capitalismo americano e più in generale della sua “civilizzazione”, individuando nel Welfare State, nel Big Governament e nella più generale “decadenza morale” degli obbiettivi polemici comuni.
Ma sarebbe errato ricondurre interamente i due fenomeni ad una matrice comune tanto che come vedremo la divaricazione tra questo doppio movimento si farà sempre più evidente fino a manifestarsi come contraddizione compiuta con l’elezione a Presidente di Donald Trump.
Infine è necessaria una considerazione estemporanea: se la nascita dei movimenti della New Right si può datare tra la fine degli anni ‘60 e l’inizio degli anni ‘70, ciò non significa che la loro diffusione fosse omogenea a livello nazionale. Ad esempio Thomas Frank nella sua etnografia del Great Backlash in Kansas data le prime insorgenze di massa di questo fenomeno in termini di movimento a fine anni ‘80, inizio anni ‘90 con le proteste pro-life. Un ciclo completamente diverso, dove si iniziano ad intravedere gli effetti nefasti della società post-industriale e della globalizzazione (con le delocalizzazioni) su scala locale. Come spiegare questa differenza temporale nei processi di radicamento del Social Conservatorism? Si può avanzare l’ipotesi che si tratti di due fasi diverse del fenomeno, con elementi di continuità, ma anche con nuove domande sociali e nuove composizioni che si uniscono al movimento. In ultimo la crisi del 2008, come maturazione a livello geografico e sociale del Social Conservatorism, ma allo stesso tempo come sua crisi e premessa di un nuovo ciclo, in continuità, ma non necessariamente conseguente.
Qui la terza puntata
1 RAFFAELE SCIORTINO, “I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi”, Trieste 2019, pag. 25
2 LISA MCGIRR, “Suburban Warriors. The origins of the New American Right”, pag. 35
3 THOMAS FRANK, “What’s the Matter with Kansas? How Conservatives Won The Heart of America”, New York 2004, pag. 5
4 MELINDA COOPER, “Family Values, Between Neoliberism and the New Social Conservatorism”, pag 8
5 LEO PANITCH E SAM GINDIN, “The Making of Global Capitalism. The political economy of American Empire”, pag. 19
6 ADAM TOOZE, “Lo Schianto. Come un decennio di crisi economica ha cambiato il mondo”, pag. 51
7 NIALL FERGUSON ET AL., “The Shock of the Global. The 1970s in Perspective”
8 MELINDA COOPER, “Family Values, Between Neoliberism and the New Social Conservatorism”
9 Nel già citato “The Making of Global Capitalism”
10 Da notare come il tema della Silent Majority sarà ricorrente (non solo negli USA) nella narrativa di destra e reazionaria in generale, si pensi alla marcia dei 40mila a Torino ad esempio. Una delle manifestazioni convocate per il 5 e 6 gennaio 2021 a Washington DC dall’attivista conservatore e immobiliarista del South Carolina, James Epley (sconfitto alle elezioni come candidato repubblicano al Congresso) prenderà proprio il nome di Silent Majority Rally, Trump stesso utilizzerà svariate volte questa espressione.
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