Attacco a Parigi. Contributi [in aggiornamento]
Vedi anche, da Parigi: Stringiamo i denti, serriamo i ranghi, teniamo la linea
Buongiorno, Bambini
di Giuseppe Genna (pagina FB)
Nel baillamme di reazioni gastroenteriche, a cui questa fase del digitale fornisce la più meschina delle microvisibilità e che davvero mette a nudo una cifra notevole di ciò che l’occidente suppostamente sviluppato è in realtà, mi asterrei dallo scrivere qualunque cosa. Se lo faccio, è perché ho potuto studiare, vent’anni orsono, lo sviluppo di una questione che riguarda il continente che abitiamo. Tali studi condussero a riflessioni, le quali costituirono una delle strutture narrative, del tutto antiletteraria, di un mio libro assurdo, l’orrendo thriller che si intitolava “Gotha” e Mondadori reintitolò “Non toccare la pelle del drago”. La questione è lo stato di guerra perenne che l’occidente cosiddetto sviluppato pone come protocollo di colonialismo, soft solo in apparenza, ovunque nel globo, in un passaggio storico che realizza effettivamente il crollo del recente passato bipolare (il 1989 è ieri, secondo i parametri storicamente più assennati). Ciò che le coalizioni occidentali, anzitutto euroamericane, compiono in Medioriente e nelle zone di dissesto a matrice variamente islamica, purtroppo, non è che emerga con continuità in effetti a vantaggio della pubblica opinione. Per esempio, non è che tutti sappiano cosa gli occidentali hanno fatto coi droni ai bambini in Yemen: un massacro devastante, al cui confronto le stragi di Parigi sono un’aggressione irrilevante dal punto di vista militare. Ci si potrebbe informare in proposito, all’istante, dando un senso alla propria commozione per i fatti di Francia, che in queste ore giustifica la deresponsabilizzazione collettiva praticata inconsultamente quando i fatti di Francia non accadono, andando a vedersi quel capolavoro che è “Dirty Wars”: https://en.wikipedia.org/wiki/Dirty_Wars. Il passaggio dal mondo bipolare a una geopolitica così cangiante da non essere nemmeno più geopolitica, come dimostrano i fatti in Libano di qualche anno addietro, così come il prezzo del mantenimento di una colonia di controllo e di un asse geopolitico fondamentale per l’occidente, quale Israele nei fatti è anche, comporta che la guerra sottotraccia non solo si intensifichi a livelli di impercezione, per via dell’estensione, coordinata o meno, del suo raggio – ma impone anche un’intensificazione temporale, ovvero che la guerra sia stabilmente intronata come attività quotidiana della vita stessa di quella massa di masse che l’occidente incarna. In questo protocollo di esistenza politica, il soggetto individuale sperimenta un paradosso assai innovativo e tuttavia perenne nell’interminata storia del potere: uno è attivo politicamente senza accorgersene. Qualunque francese è di fatto da anni in stato di guerra, anche se non richiamato al fronte, poiché la guerra è uscita dalla manifestazione pesante e dura che ebbe nel Novecento e il fronte oggi è nebulizzato. Ogni francese sta combattendo in Mali, ogni francese sta sganciando bombe in territorio siriano, ogni francese continua a opporsi alle più varie falangi in Iraq. La normale esistenza quotidiana del parigino medio non contempla la sensazione e nemmeno la sensibilità rispetto a questo stato di cose, così come non è percepita la sensazione di essere agenti effettivi di un massacro roboante e continuo e sempre “esterno” per via dei consumi che ci si permette di praticare a Parigi come a Roma come a New York. Grondi sangue e non te ne accorgi. La reazione vociante di chi oggi grida all’umanità sotto attacco, e cioè qualunque osservatore che abbia accesso ai mezzi informativi, è non soltanto ipocrita, ma essa stessa è un atto di belligeranza all’interno di un protocollo bellico che ha raggiunto lo stato atmosferico: sono, in pratica, opinioni funzionali allo sviluppo del conflitto perenne. In ciò risulta sommamente ridicolo e proditoriamente tragico il fatto che un intero continente non si doti delle strumentazioni necessarie a sostenere quanto fa: ovvero la guerra. Il fatto che l’Europa attenda da vent’anni di costituire le proprie strutture di intelligence militare unica, per esempio, fa ridere qualunque militare. E’ ciò che pagano i servizi segreti francesi, il cui fallimento sul campo è pari esattamente a quello degli americani nel 2001. Ora, è chiaro che possono esserci fondati sospetti su quanto l’intelligence Usa fece e disfece ai tempi delle Torri Gemelle; però lo stesso non si può dire degli apparati francesi, a nemmeno un anno dai fatti di Charlie Hébdo. Il fallimento delle funzioni difensive interne è del tutto proporzionale all’intensità con cui si attacca l’esterno. Sono i paradossi storici della guerra asimmetrica e non ci vuole molto a comprenderli, mentre ci vuole molto a tollerare umanamente questa situazione per nulla intricata e facilmente leggibile. Anche in questo caso si misura la vaporizzazione del testo e della leggibilità testuale del mondo. Uno pensa che stia andando giù la letteratura, ma sbaglia: sta andando giù la percezione di essere al mondo, con tutte le responsabilità che comporta stare in questo mondo, che mangia vegano e legge on line del razzo con cui un drone avrebbe incenerito Jihady John, senza sapere nulla e perché e percome. In questa fenditura, l’intellettuale politico ritrova la consistenza di parte del suo studio e di metà del suo in interrotto discorso.
Buongiorno, bambini.
La Francia si è importata la guerra in casa. Ora tocca all’Europa?
di Redazione di Senza Soste
“Ci accingiamo a condurre una guerra che sarà spietata”. Dal discorso in diretta tv alla nazione del presidente francese Hollande, tarda serata di ieri.
Parigi, se guardiamo agli ultimi trent’anni, è già stata colpita da diverse tipologie di attacchi. Nel 1986, ad esempio c’è una serie di attentati (bombe che colpiscono negozi di lusso e magazzini popolari) legati alla richiesta di liberazione di un militante di una importante fazione libanese. Poi ci sono gli attentati della metà degli anni ’90, legati alla vicenda dell’appoggio francese al colpo di stato algerino, che provocano diversi morti. Esplosioni di bombe rudimentali non certo con attacchi coordinati come quelli di venerdì 13.
Anche allora, come per Charlie Hebdo, la retorica della restrizione della sorveglianza, dello stanare i terroristi, della mano ferma che deve colpire anche all’estero se necessario ovviamente si è sprecata. Il punto è che, da almeno trent’anni, tutte le grandi criticità del medio oriente, in un modo o in un altro, hanno finito per manifestarsi sul suolo parigino. Da quelle rappresentate dagli sciiti del 1986 ai filo-sunniti della strage Charlie Hebdo. C’è solo da stupirsi del fatto, con la Francia in testa al bombardamento della Libia del 2011, non sia accaduto a Parigi qualcosa di direttamente proveniente dal paese nordafricano. Sugli attentati di venerdì 13, rispetto al passato anche recente, possiamo notare un salto di qualità. Stavolta la Francia rischia non tanto di importare attentati ma proprio una guerra in casa. E di esportarla in Europa.
Senza cercare di analizzare i dati e i fatti che neanche le autorità francesi hanno (provenienza reale degli attentatori, organizzazione del gruppo, logistica, fiancheggiamenti) è evidente, dalle testimonianze di chi era, ad esempio, al Bataclan che il legame tra attentati a Parigi e situazione siriana ed irachena l’hanno fatto gli stessi attentatori. Mentre sparavano agli ostaggi accusando Hollande di essere responsabile di tutto questo.
Ora, che in Siria la situazione sul campo, dopo l’intervento della Russia, sia cambiata è evidente. Come lo è quella dell’Iraq, con un’offensiva anti-Isis che si sta davvero formando. Senza applicare con fretta magliette e sigle agli attentatori, sia perché gli stessi francesi sono cauti sia perché l’attribuzione in questo contesto è sempre complessa, è evidente che i contraccolpi di queste mutazioni sono finiti in Francia. Non sotto la forma di un attentato classico ma sotto quella di un attacco coordinato – kamikaze allo stadio, esecuzioni di chi mangiava al ristorante, presa di ostaggi a teatro- che porta l’intero scenario parigino in zona di guerra. Del resto la guerra asimmetrica, come si sa da un ventennio, prevede attacchi classici nel paese più piccolo e risposte, in termini di attacchi alla popolazione, nelle strade del paese più grande. L’attentato allo stadio dove si giocava (da non dimenticare) Francia-Germania lo si è trascurato forse perché è sostanzialmente fallito. Tre kamikaze, rispetto alle potenzialità di un attentato del genere, hanno prodotto una tragedia a bassa intensità di morti. Ma ad alta intensità simbolica, a parte le scene dell’invasione di campo dei tifosi impauriti (rovescio dell’hooliganismo), con un messaggio preciso alla Germania.
Il punto sta quindi tutto sulla diffusione di questo atto di classica guerra asimmetrica. Se rappresenta il culmine di una strategia, fatta di attacchi coordinati, o l’inizio. Se rimane confinato in Francia, o all’abbattimento dell’aereo russo pieno di turisti, o si estende in Europa. Se risulta efficace sullo scenario siriano e iracheo o solo simbolico. Se rappresenta una risposta spettacolare alla perdita di eroi dello spettacolo bellico sul campo (Jihadi John tra tutti) o una precisa strategia militare di indebolimento della forza dello stato francese.
L’altro punto è che gli europei, presi nelle rispettive dimensioni autoreferenziali, non hanno capito bene di essere in guerra. A Parigi in tre casi – rue Bichat, Bataclan, stadio Saint Denis – i testimoni hanno raccontato di aver creduto, all’inizio, che si trattasse di petardi piuttosto che di sparatorie. E’ uno degli effetti del muro cognitivo che separa gli europei dai fatti che li riguardano: la crisi più importante dal ’29 sterilizzata in rappresentazioni fatte di grafici, e di dichiarazioni rassicuranti, che non capisce nessuno; Il medio oriente rappresentato solo come argomento di conferenze di pace che non finiscono mai. Per questo le ondate di profughi sono viste con particolare angoscia: portano addosso quel rimosso della crisi e della guerra che non si razionalizza altrimenti, tramite i discorsi ufficiali.
La situazione è talmente dura, e maledettamente complicata, che non valgono nemmeno le risposte tradizionali. E’ impossibile la pratica di un pacifismo tradizionale Peace & Love quando dall’altro lato del mediterraneo hai Isis. Infatti, saggiamente i movimenti appoggiano il popolo curdo. Mentre arcobaleno e arancioni di ogni origine balbettano già formule senza senso che tornereanno utili per legittimare le retoriche della guerra umanitaria. Allo stesso tempo, i Terminator dell’occidente civilizzato dopo 15 anni di guerra in Afghanistan perdono campo e sono costretti a restare. Gli altri terreni di intervento diretto (Iraq) e indiretto (Libia) si sono rivelati vasi di pandora per forze che affermano, tra un bagno di sangue e l’altro, la propria autonomia. Una regola della guerra asimmetrica, i bianchi dovrebbero saperlo con le legioni di esperti che l’occidente mette a libro paga, è che lo scontro sul campo è sempre meno decisivo per determinare l’esito di una guerra. Basta leggere la guerra irachena e quella afghana al di fuori della propaganda. E così nel drammatico rompicapo dei questi anni il mondo promesso alla caduta del muro di Berlino, un globo pacificato dai commerci e dai profitti una volta tolta la minaccia di ogni socialismo, si rivela per quello che è. Una superficie abitata da signori della guerra –asimmetrica, convenzionale, finanziaria- destinata a durare fino a quando la logica del profitto non trova pace.
redazione, 14 novembre 2015
Prima che tutto accada
di Sandro Moiso (Carmilla on-line)
Prima che tutto accada occorre ragionare e far pensare.
Prima che la canea mediatica fascista, razzista, nazionalista, militarista, perbenista e di sinistra falsamente antagonista inizi ad ululare occorre dire, scrivere, organizzare. Prima ancora che arrivi il conteggio definitivo delle vittime.
Prima che le colpe si riversino sui più deboli e sugli ultimi occorre prepararne la difesa.
Prima che i potenti cerchino il nostro abbraccio occorre denunciarli.
Prima che gli incoscienti accorrano a manifestare con l’imperialismo, il militarismo e il patriottismo, come ai tempi di Charlie Hebdo, occorre smascherare i moventi e i mandanti.
Da tempo vado scrivendo che la guerra è alle porte e nella notte tra il 13 e il 14 novembre ci è entrata in casa. Solo gli imbecilli, che troppo spesso governano le società, potevano pensare che la guerra rimanesse sempre lontana. Solo un pubblico rintronato dai media e dai social network poteva pensare di continuare a godersi lo spettacolo dalla finestra di uno schermo. Solo una sinistra fumosa e pervertita nei suoi ideali e nei suoi principi poteva negarne l’attualità. Nessuno ha ragionato a sufficienza sul significato di “guerra asimmetrica”.
Certo lo hanno fatto i militari, i servizi più o meno segreti, gli esperti di geopolitica e hanno usato le loro conoscenze per diffondere il panico e la paura. Una paura superficiale, strumentale al fascismo strisciante e al nazionalismo razzista. Una paura irrazionale, ma ancora lontana. Uno sfondo per una rappresentazione politica e governativa ancora tutta rivolta alle strategie di governo e di mantenimento del consenso.
Ma il 14 novembre non è soltanto l’equivalente europeo dello spettacolo americano dell’11 settembre. E’ un altro 28 giugno 1914.
A poco più di un secolo di distanza la guerra è arrivata definitivamente sul fronte occidentale. Ma non l’hanno portata gli immigrati e i profughi, come tanti continuano a blaterare.
L’hanno portata gli alleati dell’Occidente e dell’Europa (Stati del Golfo? Arabia Saudita? Israele? USA? Turchia?). L’ha portata la competizione imperialista tra gli stati occidentali e la loro necessità di balcanizzare il Vicino Oriente senza, tra l’altro, saperne prevedere le conseguenze.
L’ha portata la miseria politica, sociale ed economica delle periferie metropolitane diseredate dove si formano i moderni Gavrilo Princip.
L’ha portata l’incapacità di pensare autonomamente il mondo da parte di chi a questo vorrebbe opporsi. L’ha portata la mancata azione sindacale in difesa di chi lavora. L’ha portata un antifascismo ridotto a pacifismo e a spettacolo estetizzante. L’ha portata l’analisi fumosa degli pseudo-intellettuali che si dilettano di discettare sulla cultura della destra, là dove vi è solo odio, violenza e menzogna. L’ha portata un parlamentarismo ridotto ormai a veder gli schieramenti antagonisti di un tempo rispecchiarsi l’uno nell’altro così come i loro avversari populisti.
L’ha provocata l’indifferenza per il destino della specie e dell’ambiente in cui dovrebbe vivere. L’ha provocata l’egoismo del guadagno e del profitto. L’ha provocata l’egoismo dei singoli e delle nazioni. L’ha provocata la scomparsa del concetto di classe e di lotta di classe. L’ha provocata un modo di produzione distruttivo e assurdo, spacciato per progresso e modernità. L’ha provocata il petrolio e le società che se ne occupano e servono. L’ha provocata il motore a scoppio e le guerre tra coloro che ne detengono il monopolio della produzione. L’ha provocata il consumismo con le sue cattedrali in attesa di essere trasformate soltanto in cimiteri di corpi e di merci.
L’ha determinata l’assenza di lotta di classe o anche solo una sua seria e riconoscibile rappresentanza politica, sia a livello nazionale che internazionale. L’ha determinata la frenesia per la novità politica e per il rifiuto dell’esperienza passata. L’ha determinata la scomparsa delle capacità organizzative e la ricerca della soggettività edonistica che ha trionfato nella società dello spettacolo. L’ha determinata le convinzione che un concerto potesse sostituire la lotta. L’ha determinata una concezione del tempo arcaica in cui si pensa che venti, trenta o cento anni costituiscano una distanza enorme tra gli avvenimenti e che ha contribuito ad annullare ogni memoria dell’azione anti-militarista e antifascista e delle forme più adeguate per condurla.
Prima di tirare calci al vento come gli impiccati di Francois Villon, però, possiamo ancora provare a reagire, lottare, studiare ed organizzare. Abbiamo mani, voci, libri, esperienze, tastiere, penne: usiamole.
Gridiamo, scriviamo, denunciamo, lottiamo. Non domani. Oggi.
Prima che sia troppo tardi.
N.B. La responsabilità per le opinioni qui espresse è da attribuirsi esclusivamente all’autore e non alla redazione di Carmilla nel suo insieme.
Notte sull’Europa – quattro tesi
di Augusto Illuminati (DinamoPress)
1. Dopo Parigi, avremo qualche timore a fare semplici gesti e percorsi. Questo è il meno: a Baghdad o in Turchia ci sono abituati senza che noi battessimo ciglio, ci abitueremo anche noi. Una certa contrazione di feste, apericene, sballi vari, droghe categoria conforto, viaggi aerei, mettiamola in conto; a rave e cortei ci penseranno le ordinanze delle autorità. Cambierà però – almeno per un certo tempo– la tonalità emotiva con cui tutte queste cose le vivremo. Alla patetica allegria da naufraghi dei movimenti subentrerà più paura ed egoismo. La precarietà dilagherà dal reddito alla sicurezza di ciò che si ha o che sembrava di avere. Ma questo è il meno. Racconteremo a figli e nipoti come si viveva bene negli anni 10, figuriamoci, spritz, fumogeni colorati, Erasmus, Ryan Air, funghetti…
2. Più pesanti saranno le conseguenze economiche, politiche e istituzionali sull’Europa e nei suoi stati membri. La chiusura delle frontiere francesi, che si aggiunge a quella dell’Europa dell’est per i migranti, è solo il primo assaggio. Si stanno chiudendo le menti e le logiche inclusive pubbliche. Dove si continuerà a rispettare saltuariamente Schengen, si toglierà però l’assistenza sociale agli ospiti indesiderati (per poi passare a tagliarla ai cittadini indigeni). L’Europa politica si rattrappirà, dividendosi fra sovranismi democratici e reazionari alla Orbán, populismo di centro (il Partito della Nazione renziano, la République, il patriottismo costituzionale tedesco con ammissione rifugiati con il contagocce, l’isola-Inghilterra) e populismo fascio-leghista. In nome della sicurezza la democrazia, già impopolare dall’alto e dal basso, sarà esautorata e commissariata. Preferite un Prefetto-Protettore o un Giubileo di sangue? E meno male che l’Isis l’Expo se l’è proprio pisciato, forse per eccesso di alcolici e affettati.
3. Le prospettive di ripresa economica dell’Europa e il rilancio del Pil, già tarpato dalle difficoltà del mercato cinese e degli incipienti problemi bancari e automobilistici tedeschi, sembrano vieppiù improbabili. Non parliamo dei luminosi incrementi decimali del Rinascimento italiano, trionfalmente avviato verso il pareggio di bilancio l’anno del mai. Immaginiamo il turismo in crescita e lo scarico dei migranti mediterranei al di là delle Alpi – gli unici progetti reali del nostro Governo. Fra parentesi: i venditori di promesse stanno malridotti in tempi di apocalisse, è successo a Berlusconi con la crisi del 2008 e la prima ondata di guerra e terrorismo in Libia, non andrà meglio nel nuovo assetto globale che si delinea oggi per Renzi.
4. Difficilmente si potrà andare avanti sul piano geopolitico con gli errori presenti. Ci sarà spazio per altri errori, sicuro. Occorrerebbe invece rendersi conto che gli appoggi testardamente ricercati finora (il sostegno a Erdoğan, Netanyahu, ai fantomatici ribelli democratici anti-Assad e maresciallo al-Sissi, la complicità di fatto con i sauditi) sono parte del problema del terrorismo e non della sua soluzione, mentre solo un asse fra Europa, i Curdi e il variegato mondo sciita (Iran e Hezbollah libanesi, in primo luogo, alauiti siriani, aleviti turchi) può bloccare Daesh, proteggere le residue minoranze cristiane e yazide, e costituire un’alternativa al fallimentare colonialismo neo-liberale Usa in Medio Oriente e alle amletiche mosse di Obama. Non ci piace, ma in questa logica ci rientra anche l’intervento russo.
Su queste riflessioni a caldo, ci piacerebbe aprire una discussione. Il tempo, purtroppo, non mancherà. Astenersi perdigiorno, buoni propositi e c’è morte a sinistra.
Il lutto diventa legge
di Judith Butler (Effimera)
Sono a Parigi. Ieri sera mi trovavo vicino al luogo dell’attentato, in rue Beaumarchais. Ho cenato in un ristorante che dista dieci minuti da un altro obiettivo degli attentati. Le persone che conosco stanno tutte bene, ma ci sono molte altre persone che non conosco, che sono traumatizzate, o in lutto. È scioccante, e terribile. Oggi le strade erano abbastanza movimentate, durante il giorno, ma vuote di notte. Stamattina era tutto completamente fermo.
Appare chiaro, dai dibattiti televisivi, che lo “stato di emergenza”, anche se temporanea, crea in realtà un precedente per un’intensificazione dello “stato di polizia”. Si parla di militarizzazione (o meglio, del modo in cui “portarne a compimento” il processo), di libertà e di lotta contro “l’Islam”, quest’ultimo inteso come un’entità amorfa. Hollande, nel pronunciare la parola “guerra” ha provato a fare il macho, ma a colpire, in realtà, è l’aspetto imitativo della sua performance – al punto da rendere difficile seguirlo seriamente. Proprio questo buffone, in ogni caso, assumerà ora il ruolo di capo dell’esercito.
Lo stato di emergenza dissolve la distinzione tra Stato ed esercito. La gente vuole vedere la polizia, una polizia militarizzata a proteggerla. Un desiderio pericoloso, per quanto comprensibile. Molti sono attratti dagli aspetti caritatevoli dei poteri speciali concessi al sovrano in uno stato di emergenza, come ad esempio le corse in taxi gratuite, la scorsa notte, per chiunque avesse bisogno di tornare a casa, o l’apertura degli ospedali per tutti i feriti. Non è stato dichiarato il coprifuoco, ma i servizi pubblici sono stati comunque ridotti e le manifestazioni pubbliche vietate – ad esempio i rassemblements (“assembramenti”) per piangere i morti sono stati considerati illegali. Ho partecipato a uno di questi, a Place de la République: la polizia continuava a dire a tutti i presenti di separarsi, ma in pochi obbedivano. È stato, per me, un breve momento di speranza.
Quanti commentano i fatti, cercando di distinguere tra le diverse comunità musulmane, con i loro diversi posizionamenti politici, sono accusati di badare troppo alle “sfumature”: sembra che il nemico debba essere al contempo indefinito e singolarizzato, per essere annientato, e le differenze tra musulmani, jihadisti e Stato islamico, nei discorsi pubblici, si fanno via via più labili. Tutti puntavano il dito, con assoluta certezza, contro lo Stato islamico ancora prima che l’ISIS rivendicasse gli attentati.
Trovo significativo, personalmente, che Hollande abbia dichiarato tre giorni di lutto ufficiale, nello stesso momento in cui intensificava i controlli di sicurezza. Si tratta di un modo concreto per leggere il titolo del libro di Gillian Rose, Mourning Becomes the Law (“Il lutto diventa legge”). Stiamo partecipando a un momento di lutto? O stiamo legittimando la militarizzazione del potere statale, o forse la sospensione della democrazia…? In che modo questa sospensione accade con più facilità, quando viene venduta in nome del lutto? Ci saranno tre giorni di lutto pubblico, ma lo stato di emergenza può essere prorogato fino a dodici giorni, anche senza approvazione dell’Assemblea nazionale.
La voce dello Stato dice che abbiamo bisogno di limitare le libertà, al fine di difendere la libertà – paradosso che non sembra affatto disturbare i commentatori in tv. Gli attacchi, in effetti, erano chiaramente rivolti a luoghi emblematici della libertà quotidiana in Francia: il bar, il locale da concerti, lo stadio. Nel locale, a quanto pare, uno dei responsabili per le 89 morti violente lanciava un’invettiva contro la Francia per non essere intervenuta contro la Siria (contro il regime di Assad), e contro l’Occidente per i suoi interventi in Iraq (contro il regime baathista). Non è, quindi, un posizionamento (se così si può definire) totalmente in contrasto con l’intervento occidentale in sé.
C’è, poi, una politica dei nomi: ISIS, ISIL, Daesh. La Francia non dice “etat islamique”, in quanto ciò significherebbe riconoscerlo come Stato. Al contempo, vogliono tenere “Daesh” come termine, in modo da non doverlo tradurre in francese. Nel frattempo, questa organizzazione ha rivendicato gli attentati, come forma di retribuzione per tutti i bombardamenti aerei che hanno ucciso i musulmani sul suolo del Califfato. La scelta del concerto rock come obiettivo – trasformato in spettacolo per assassini – è stata così argomentata: ospitava “idolatria” e “un festival della perversione”. Mi domando dove abbiano trovato il termine “perversione”. Suona quasi come uno sconfinamento.
Tutti i candidati alla presidenza della Repubblica non hanno lesinato le loro opinioni: Sarkozy propone i campi di detenzione, affermando la necessità di arrestare chiunque sia sospettato di avere legami con jihadisti. Le Pen parla invece di “espulsioni”, dopo aver definito “batteri” i nuovi immigrati. E non è da escludere che la Francia decida di consolidare la sua guerra nazionalista contro gli immigrati dal momento che uno degli assassini è arrivato in Francia passando per la Grecia.
La mia scommessa è che sarà importante monitorare il discorso sulla libertà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, poiché ciò avrà implicazioni per lo stato di polizia e per l’affievolimento delle precedenti versioni della democrazia. Una libertà viene attaccata dal nemico; un’altra viene attaccata dallo Stato, proprio mentre difende il discorso dell'”attacco alla libertà” da parte del nemico come un attacco contro ciò che si ritiene costituisca l’essenza della Francia, ma sospende la libertà di assembrare (la “libertà di espressione”) nel bel mezzo del lutto, e si prepara per una ancora maggiore militarizzazione dei corpi di polizia. La questione politica centrale è questa: quale versione dell’estrema destra vincerà le prossime elezioni? E quale diventa la prossima “destra tollerabile” se Marine Le Pen è considerata di “centro”? È un tempo spaventoso, triste, di oscuri presagi; ma noi siamo ancora in grado di pensare, spero, di parlare, e di agire.
Il lutto sembra essere stato completamente circoscritto all’interno del territorio nazionale. Difficilmente si parla dei quasi 50 morti a Beirut il giorno prima, o dei 111 uccisi in Palestina solo nelle ultime settimane, o degli attacchi ad Ankara. La maggior parte delle persone che conosco dicono di trovarsi in una “situazione di stallo”, nella più totale incapacità di concepire quanto sta accadendo. Un modo per farlo potrebbe forse consistere nell’abbracciare una concezione trasversale del dolore, cercando di comprendere in che modo lavorino le metriche del lutto, cercando ad esempio di comprendere perché il bar mi colpisca al cuore in un modo che gli altri obiettivi sembrano invece non fare. La paura e la rabbia possono gettare con assoluta fierezza tra le braccia dello stato di polizia. Suppongo che sia questo il motivo per cui mi trovo meglio con chi si trova invece nella situazione di stallo. Ciò significa che c’è tempo per pensare. Ed è difficile pensare quando si è paralizzate dallo spavento. Ci vuole tempo per farlo, e qualcuno che sia disposto a farlo insieme a te – qualcosa che ha la possibilità di accadere, forse, in un rassemblement non autorizzato.
Apparso su Revista Cult, 13 novembre 2015
Traduzione di Federico Zappino
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