Collasso yemenita: presidente e forze USA in fuga, escalation in tutta la regione
Salta una mediazione tutta interna al panorama politico yemenita nata a seguito della locale primavera araba. Quella tra gli Houthi, espressione prevalente dello sciismo zaidita e delle altre componenti tribali del nord, vicini all’Iran e parte integrante delle proteste, ed Hadi stesso: l’ex vice di Saleh (il despota nord-yemenita costretto alle dimissioni dalla sollevazione del 2011) salito al potere dopo una candidatura di unità nazionale; sostenuto da Stati Uniti ed Arabia Saudita e finora capace di cooptare le spinte centrifughe del sud del paese. Un passo irreversibile con la conquista da parte degli Houthi, dopo la capitale, delle popolose città del nordovest, evento che ha travolto l’esecutivo riconosciuto a livello internazionale, di cui sono stati arrestati importanti funzionari di governo come il ministro della difesa. Ed indotto ad una scomposta fuga le forze statunitensi di stanza nella base di Anad: compromettendone la (pretestuosa) strategia di contrasto ad Al-Qaeda per mezzo di droni ed intelligence e lasciando sul campo equipaggiamento militare per milioni di dollari. Viene infatti a palesarsi la miopia, oltre che schizofrenia e pericolosità, del dispositivo di caos creativo di Obama: mentre più a nord si sostiene il governo a maggioranza sciita iracheno contro l’ISIS, nel protettorato yemenita ci si concentra (senza mai volutamente conseguire risultati definitivi, anche per la peculiarità dello strumento militare utilizzato) così tanto sul (più che mediatizzato) nemico sunnita qaedista da sottovalutare gli smottamenti politici in corso nel paese.
Così, mentre le voci della fuga di Hadi si moltiplicavano, sono partiti ieri notte i primi raid dell’enorme dispositivo militare ammassato dall’Arabia Saudita del neo-re Salman – che hanno bombardato Sana’a ed avrebbero provocato una ventina circa di vittime. Col nome di Operazione Tempesta Decisiva, si è ricompattato al completo il fronte delle corone del petrolio, dopo le tensioni al limite della crisi tra sauditi ed Emirati da una parte e Qatar dall’altra (per il sostegno di quest’ultimo all’opzione demo-islamista dei fratelli musulmani: sconfitti in Egitto, ma tuttora motivo di frizioni tra le monarchie del golfo in Libia). In una sorta di coalizione pan-sunnita (e con la benedizione anche degli USA e dei paesi europei), ad esse si sono aggiunti altri sovrani, come quelli di Marocco e Giordania, e grandi potenze regionali come Egitto, Turchia e Pakistan (quest’ultimo finora solo lambito dagli sconquassi della polveriera mediorientale ma storicamente legato ai sauditi, anche tramite una serie di fondi di sviluppo). Quindi, un nuovo intervento saudita nella penisola arabica dopo quello del 2011 in Bahrein – che bloccò con la repressione ed il settarismo i sommovimenti interconfessionali e democratici del paese, tuttora oppresso da una brutale monarchia.
In concomitanza con l’escalation militare sono stati chiusi tutti i principali porti e gli aeroporti del paese: quello di Sana’a è stato bombardato dalla coalizione saudita, mentre quello di Aden appare ancora teatro di scontro tra Houthi e lealisti di Hadi. Cruciale è la lotta per il controllo della Bab el Mandeb, l’impervia estremità yemenita dell’imbocco del Mar Rosso, da cui transita tra il 15% ed il 20% del traffico marittimo mondiale; nelle ultime ore unità navali egiziane giunte nei pressi dello stretto avrebbero sparato colpi dissuasivi verso alcuni natanti iraniani lì presenti.
Un avvertimento alla potenza persiana, la quale si trova nelle condizioni di giocare la partita geopolitica ad altissimi livelli: da una parte mettendo seriamente a repentaglio la strategia saudita di bassi prezzi petroliferi, che oltre a quelle iraniane sta compromettendo le entrate di altri paesi amici (come il Venezuela ed un’interessata Russia, che nelle ultime ore ha intensificato i colloqui diplomatici con Teheran e con cui condivide altri piani d’intervento come quello siriano). E dall’altra con una leva formidabile per condizionare l’esito del negoziato sul nucleare, che già vede Teheran accreditata dell’impegno contro l’ISIS in Iraq.
Una catena di eventi che, nella drammaticità di queste ore concitate, non deve mancare di far riflettere su una questione annosa quanto la globalizzazione: sulle asimmetrie e sulle dinamiche più o meno consapevoli per cui l’azione di un piccolo gruppo organizzato, di un oscuro angolo della penisola arabica (e con tutti i suoi limiti ed interessi particolari), possa porsi come centrale su un piano globale. Ed andare ad incidere in un lasso spaziale e temporale di pochi giorni e chilometri su equilibri di potere secolari e schiaccianti.
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