Dalla crisi dei Brics all’esplosione dell’euro: problemi e prospettive
Partiamo da quelle che possiamo definire le lotte nei Brics. Il primo elemento con cui ci dobbiamo confrontare è la situazione per certi versi rovesciata rispetto ad Europa e Nord America: in questo caso parliamo infatti di società non in recessione ma in crescita, dove più che di politiche di austerity è necessario parlare di promesse di progresso ed espansione, più che di assenza di futuro ci sono aspettative che aumentano esponenzialmente e vengono bloccate. E tuttavia, situazioni così differenziate producono movimenti con composizioni e pratiche simili. Forse, è proprio attraverso questo “ciclo” di lotte nella crisi che possiamo vedere i tratti comuni e l’eterogeneità della crisi globale. A partire da qui, come è possibile sviluppare il compito di quella che tu hai definito una nostra geopolitica?
Bisogna partire da una constatazione: all’interno di alcuni paesi emergenti si sono date in questi ultimi anni le situazioni di resistenza e di movimento più interessanti. Viene così invertito un vecchio principio del primo operaismo, secondo cui le lotte dovevano colpire l’anello più forte della divisione internazionale del lavoro e del capitalismo mondiale, in particolare nei suoi rapporti con il sottosviluppo, cioè dovevano colpire in Europa e negli Stati Uniti. Questo è il primo segnale importante, da cogliere: c’è effettivamente una dimensione dispiegata dell’impero. Qui dentro è difficile, a partire dalle molte polarità della configurazione globale, una sorta di gerarchia. I rapporti tra centro e periferia quasi si sono invertiti: non solo dal punto di vista della crescita e della forza di questi paesi rispetto a quelli del centro, ma anche dal punto di vista delle lotte e delle istanze poste.
Per quanto abbia seguito questi movimenti dall’esterno, mi sembra tuttavia che queste siano lotte inscritte dentro un’istanza di welfare. Sicuramente il movimento in Brasile è stato molto chiaro ed esplicito a questo proposito. Sono lotte che vedono una composizione sociale molto trasversale e avanzata: i ceti medi si mobilitano con le favelas. D’altra parte, la cosa che mi sembra da sottolineare è che si tratta di movimenti in paesi in cui, almeno finora, c’è stata crescita economica. In questo senso, è molto più probabile che si scatenino lotte nella crescita economica e nello sviluppo, piuttosto che nella crisi. La crisi purtroppo rende molto più difficile l’organizzazione e la diffusione delle lotte. Comunque, il dato di cui tener conto è che gli stessi Brics sono in una fase di crisi rispetto a una crescita ormai decennale, stanno perdendo colpi. Mi sembra che sia significativa, per esempio, la crisi della rupia indiana come indicatore di qualcosa che ha a che fare con la perdita di velocità. Ciò vale per il Brasile, per la Russia, per la Cina, per l’India appunto. É quindi probabile che le istanze di socializzazione e migliore distribuzione della ricchezza, di equità, di difesa dei servizi pubblici, ecc. siano destinante a continuare, proprio perché hanno la spinta del periodo di sviluppo, però vanno a cozzare con un indubbio rallentamento della crescita.
Cosa significa dal punto di vista geopolitico? Vuol dire che qualcosa sta mutando. Per esempio, se vogliamo riprendere a ragionare tenendo presenti queste importanti mobilitazioni nei paesi emergenti, dobbiamo però considerare nell’analisi geopolitica un dato recente, rappresentato dall’accordo commerciale tra Stati Uniti ed Europa. L’accordo mostra una posizione totalmente subalterna dell’Europa: è un’Europa che già al suo internon non riesce a consolidare una posizione omogenea, e a maggior ragione non sa esprimersi nei confronti degli Stati Uniti, che la faranno da padroni. Tuttavia gli stessi Stati Uniti, pur in una posizione di forza nell’accordo con l’Europa, hanno problemi dal punto di vista dell’egemonia economico-finanziario sul piano mondiale. Si tratta quindi di due poli in via di indebolimento, che cercano di trovare un comune terreno perlomeno sotto il profilo degli scambi commerciali. Questo naturalmente la dice lunga sulla strategia statunitense soprattutto nei confronti della Cina, cioè di quello che chiamano il “pivot pacifico”. É chiaro che la Cina è vista dagli Stati Uniti come il vero polo da contrastare o con cui negoziare da una posizione non di forza. É inquietante come gli Stati Uniti stiano spostando le loro forze militari verso il Pacifico, quindi c’è anche una dimensione potenzialmente aggressiva in questa volontà di costruire strategia nei confronti della Cina. Nello stesso tempo, sotto il profilo geopolitico la Cina si sta rafforzando con la Russia, che è costretta – volente o nolente – a costruire un asse con la Repubblica Popolare. Il caso Snowden non è che una spia dell’incapacità degli Stati Uniti di gestire un’aggressività che, sotto il profilo della società della sicurezza, non è contrastata dall’Europa. É incredibile la non reazione degli europei di fronte a quanto svelato, si fanno spiare dai vertici americani senza che ciò abbia suscitato alcun tipo di risposta! Nello stesso tempo, però, gli Stati Uniti sono alla ricerca di una strategia verso il polo cinese e russo, e per il momento lo fanno anche dispiegando delle forze militari. Tutto ciò concorre a creare un clima da nuova guerra fredda: mi sembra che faccia da sfondo a tutti gli spostamenti e le modificazioni del quadro geopolitico complessivo.
Probabilmente i complessi e certamente inquietanti sviluppi della situazione egiziana rappresentano, tra altre cose, anche il fallimento degli Stati Uniti di pacificazione dell’area, cioè di una transizione guidata dai Fratelli Musulmani, oppure da Ennahda in Tunisia. Ed è una situazione di cui la Russia sembra potersi avvantaggiare…
Dentro questo assetto geopolitico in via di definizione, quest’area è la variabile impazzita. É vero quello che dite: gli Stati Uniti avevano accettato e anche negoziato con i Fratelli Musulmani un tipo di governance capace di gestire la transizione. Ho l’impressione che la situazione gli sia sfuggita di mano. É vero che i Fratelli Musulmani avevano rispettato il mandato occidentale; è altrettanto vero che non hanno fatto assolutamente nulla dal punto di vista economico e sociale all’interno, e ciò ha acuito la rivolta, ha contribuito a creare un clima dentro il quale si è poi infilato l’esercito – che non va dimenticato essere abbondantemente finanziato dagli americani. Tutto questo apre una serie di questioni di difficile comprensione. Ha ragione un analista di politica internazionale israeliano, Cohen, sostenendo che quanto è successo in Egitto è il risultato di errori della strategia americana. A parte la dimensione tragica di quello che sta accadendo, un vero macello, mi sembra che la situazione sfugga a qualsivoglia disegno e interpretazione che abbia una sua logica. E questa situazione è destinata tra l’altro a rafforzare la Russia, che si trova nella posizione di poter giocare un ruolo non indifferente. Dentro questo quadro complicatissimo, anche sotto il profilo delle varie componenti, soggettività e movimenti, bisogna capire che spazio può avere la rivolta al di là della polarizzazione tra Fratelli Musulmani e forze militari, cioè se i giovani e coloro che avevamo visto nelle piazze durante la primavera araba potranno portarne avanti le rivendicazioni. Credo che sia cominciato qualcosa destinato a destabilizzare il contesto globale ancora per parecchio tempo.
Facciamo il punto sulla crisi in Europa, da te già anticipato rispetto all’accordo commerciale con gli Stati Uniti. La spaccatura dell’euro che avevi ipotizzato è ancora incipiente, oppure è stata in qualche modo assorbita in un piano di normale funzionamento? Per dirla altrimenti: la crisi e le sue faglie interne sono diventate orizzonte permanente e insuperabile della costruzione europea?
Tanto per cominciare non dimentichiamo mai che l’Europa come è oggi, estremamente indebolita e almeno nell’asse occidentale subalterna, è ben diversa da quella che originariamente si voleva costruire. L’Europa che si voleva costruire ai tempi di Delors o prima era un polo indipendente, con la sua forza economica. Oggi questo polo non c’è. Sotto il profilo monetario, la costruzione dell’Europa è stata fragile, ha funzionato fino al 2007-2008 nel modo che sappiamo, cioè con una sorta di complementarietà tra pesi del nord e del sud. C’è stata una convergenza sui tassi di interesse che ha permesso una crescita gonfiata e drogata dei paesi che oggi definiamo periferici, e di conseguenza una crescita dei paesi a forte vocazione esportatrice come la Germania che hanno così potuto espandersi. Quello che la crisi ha fino ad oggi svelato è che l’euro è un progetto incompiuto, ha ancora bisogno dell’unione bancaria e finanziaria, della mutualizzazione dei debiti. A essersi verificata non è la spaccatura tra “euro uno” ed “euro due” che alcuni, tra cui io, avevamo presentito, ma è qualcosa di paradossalmente più grave. Non credo che la spaccatura, per quanto sempre possibile, sia all’ordine del giorno: il fatto è però che l’euro non è più una moneta unica. É una moneta che si è frazionata in tanti diversi euro: un euro a Cipro non è uguale a un euro in Italia oppure in Germania o in Francia. La zona euro si è frazionata per tassi di interesse, per costo del denaro, per tassi di inflazione; chi ha degli euro a Cipro, per esempio, non può neanche portarli fuori. Quella che era la moneta unica è esplosa. Noi abbiamo una sorta di nazionalizzazione dell’area monetaria nascosta sotto il cappello della moneta unica. Questo è il dato da registrare: c’è una rinazionalizzazione latente coperta da questo sistema monetario europeo che chiamiamo moneta unica, con effetti quasi peggiori rispetto allo scenario di spaccatura dell’euro tra nord e sud. C’è infatti una rinazionalizzazione dell’euro, ma senza per esempio la possibilità di svalutazione a livello dei paesi periferici. Resta quindi la camicia di forza delle politiche della troika, della commissione, dell’UE, senza però avere le condizioni per armonizzare gli effetti di queste politiche tra i paesi membri della zona euro.
Insomma, non è per fare una fuga in avanti rispetto allo scenario della spaccatura, ma certamente parlare di moneta unica oggi è un’impresa quasi impossibile. Ciò porta alcuni a parlare di moneta comune come modo di superare l’empasse. Faccio riferimento in questo caso a Frédéric Lordon su Le Monde Diplomatique, prima di lui Jacques Sapir diceva esattamente le stesse cose. Questi economisti sostengono che l’Europa già per tradizione culturale, politica e istituzionale è un’area eterogenea e differenziata, e lo è diventata ancora di più e in modo drammatico a causa di questa moneta unica che chiamiamo euro; ritengono allora che per salvaguardare l’idea di Europa federale o federata, però nel rispetto di queste molteplici differenze, bisogna ritornare a degli euro nazionali, con determinati tassi di cambio tra di loro fissi ma aggiustabili, con un euro sovranazionale che permetta ai paesi membri di avere degli scambi con paesi non europei. Sarebbe una sorta di camera di compensazione. É una prospettiva che rimanda sempre al ritorno di una sovranità monetaria nazionale, come conditio sine qua non del ripristino di uno spazio di democrazia. Questo è il punto più delicato e controverso. Per quanto io sia sempre stato un critico dell’euro e delle sue pretese di costruzione di un’Europa unita, sono altrettanto scettico e critico rispetto all’ipotesi di un ritorno alla sovranità monetaria nazionale. Per quanto mi sembra che le proposte di Lordon abbiano una logica, penso però che anche da un punto di vista tecnico il ritorno allo SME sia estremamente difficile. Innanzitutto perché lo SME è saltato, in quanto i mercati finanziari già allora, nel 1992-1993, avevano dimostrato di avere la forza di poter mettere in crisi la sterlina, la lira, ecc. E poi perché l’unico modo per rendere possibile questo tipo di moneta comune alla Lordon e Sapir – una riedizione del bancor di keynesiana memoria, una sorta di “eurobancor” – è di impedire la mobilità dei capitali. Voglio vedere come si fa a proibirla! Io sono d’accordo con Lordon nella sua critica alla socialdemocrazia europea, alla risibilità dei discorsi di Hollande e compagnia improntati all’“adesso brontoliamo, vogliamo la crescita”, alla denuncia della pretesa di Letta o Hollande di picchiare i pugni sul tavolo, se solo pensiamo all’impotenza di questi paesi rispetto alla Germania. Mi sembra però altrettanto velleitaria l’idea dell’instaurazione di una moneta comune. Innanzitutto perché contiene delle ipotesi di sovranità nazionale e di freno alla mobilità dei capitali che non si capisce con quale forza e soggetti si possano realizzare: non bastano dei bravi economisti che dimostrano come questo sistema potrebbe funzionare meglio, ci vuole ben altro. La questione poi si complica ulteriormente, perché l’istanza di riappropriazione di uno spazio di agibilità democratica – alla base di tutti questi ripensamenti e proposte di riforma del sistema monetario internazionale – è giusto: solo che non sappiamo a quale livello. Pensiamo forse che sia possibile ritornare a far funzionare i nostri parlamenti per decidere il destino del welfare o per portare avanti misure di rilancio della crescita economica? Pensiamo che sia questo il modo per tornare ad appropriarci di una dimensione democratica? Ne dubito, perché la crisi della rappresentanza ha preceduto la crisi dell’euro, anche se ovviamente si è lì intensificata. É dunque una crisi profonda, che ha a che fare con la forma stessa dello sviluppo capitalistico più maturo e con la formazione del consenso, delle mobilitazioni e delle aggregazioni. Quindi, si può immaginare il ristabilimento di una forma democratica per via della sovranità monetaria, però lo spazio istituzionale della democrazia così riconquistata sarebbe vuoto. Il nodo delle forme della riappropriazione della democrazia si pongono allora sul piano europeo e transnazionale: però è proprio qui che comincia il problema.
Le posizioni che potremmo definire neo-sovraniste si allargano anche a Wolfgang Streeck: nel suo peraltro importante libro “Tempo guadagnato” il sociologo tedesco invoca una Bretton Woods per l’Europa, con un sistema ordinato di tassi di cambio flessibili e il diritto alla svalutazione per le singole nazioni, facendo esplicito riferimento al “bancor” keynesiano. La crisi europea sembra insomma incentivare la riproposizione di un’idea dello Stato come elemento di resistenza alla globalizzazione neoliberista e di ridemocratizzazione, un’idea come dicevi tu piuttosto velleitaria e radicalmente criticabile. Tuttavia, non ci sembra sufficiente la semplice riaffermazione di un classico discorso europeista, perché quello che poteva essere in origine oggi – come hai ben spiegato – non è più. Il cuore del problema, da te perfettamente centrato, è ripensare un discorso europeo e transnazionale facendo però i conti con l’Europa reale, diventata come tu dici un mostro. Dunque, qual è oggi il “livello”, cioè gli spazi dell’azione politica e le leve da rovesciare in possibilità di trasformazione?
Va subito detto che è impensabile un passaggio dal locale al globale senza tener presente che sarà necessariamente e per fortuna punteggiato da lotte locali. Il problema è ovviamente come il cumulo di queste lotte possa trovare uno sbocco sul piano europeo e transnazionale. Quello che possiamo immaginare e su cui dobbiamo impegnarci è l’individuazione degli obiettivi attraverso cui lo spazio della democrazia possa essere concretamente declinato. Per esempio, la questione dei beni comuni o dei servizi pubblici (non è sempre facile distinguere) può essere concretamente agita, oltre che agitata, sul piano europeo. Le lotte contro l’austerità rappresenteranno, anche dopo le elezioni tedesche, la possibilità di costruire un terreno di contrasto sia alla sovranità dei mercati finanziari e dell’ordoliberalismo, sia al ripiegamento reazionario sulla democrazia nazionale. Penso poi che il reddito di cittadinanza sia un’istanza su cui possiamo tentare di agire delle aggregazioni e delle ricomposizioni. Tutte queste cose sono praticabili.
Quello che mi interessa capire è quali sono i soggetti. Un conto sono le ipotesi di aggregazione di vari gruppi e movimenti: sicuramente l’anno prossimo ci saranno varie sperimentazioni, come è stato nelle mobilitazioni no global, e ci saranno anche delle derive parlamentaristiche. D’altra parte, però, non credo che sia lì che la forza necessaria possa essere trovata. Penso per esempio che i migranti possano tornare a essere una forza importante per rilanciare la lotta per i concreti diritti sociali transnazionali. Quello che sta avvenendo sul piano mondiale e nella zona mediterranea ha degli effetti devastanti dal punto di vista dell’impoverimento, per cui ci saranno certamente milioni di persone che si sposteranno. Già ci sono grossi flussi migratori intraeuropei dovuti alla crisi dell’eurozona e del liberismo finanziario, figuriamoci ora con quello che sta succedendo in Siria o in Egitto (e vedremo come andranno a finire le cose in Turchia). Ci confronteremo quindi con uno scontro durissimo tra forze conservatrici o reazionarie e spinte migratorie. Questo è un elemento che ci vedrà impegnati sul fronte soggettivo.
Quanto si riuscirà a fare? Non mi sembra che i precedenti delle lotte su scala europea siano così entusiasmanti: per esempio, tentativi come quello della mobilitazione di Francoforte mi pare che mostrino più una debolezza che non una potenzialità. Non so in che misura la scadenza delle elezioni europee agevolerà un dibattito e una mobilitazione che ponga il problema della ricomposizione di soggettività volte a rivendicare welfare, beni comuni, reddito sociale, ecc. Però, se da una parte è inevitabile navigare questa incertezza politica, dall’altra dobbiamo ancora molto chiarirci le idee. Mi sembra importante la consapevolezza di questo livello dello scontro maturata negli anni. Incominciamo anche a maturare l’idea che la questione della democrazia sia prioritaria, perché ne conseguono altre, però allo stesso tempo non è chiara. Le più chiare in questo senso sono le forze di destra, che tuttavia si stanno spaccando tra una destra populista e una destra economica. A fronte di questa crisi della destra, saremo in grado noi di fare finalmente un discorso sulla democrazia che non sia di tipo sovranista?
L’anno scorso hai detto che le lotte nella crisi sono strutturalmente spurie: ne abbiamo avuto molte dimostrazioni, e probabilmente aumenteranno ulteriormente. Il che vuole anche dire che, senza calarsi – con le idee chiare, come sottolineavi – nelle ambiguità talora profonde delle lotte, si rischia una posizione di semplice testimonianza: tu hai mostrato come siano velleitari tanto i ripiegamenti sovranisti, quanto la riproposizione delle evocazioni europeiste che non fanno i conti con i nodi da te indicati. Il tema dell’Europa, infatti, non è oggi molto presente nei movimenti, il che è un grande problema però è anche rivelatore della necessità di ripensare il discorso transnazionale e l’individuazione dei suoi spazi e livelli…
Tempo fa avevo lanciato l’idea di una moneta del comune, in alternativa sia alla moneta unica sia alla moneta comune – per come l’abbiamo tratteggiata sull’onda di Lordon. La moneta del comune esprime una serie di dati comuni in un contesto estremamente differenziato ed eterogeneo. Dal punto di vista del metodo politico, individuare questi spazi ed elementi del comune è fondamentale per poi fare un discorso sulla moneta. Io per esempio sono d’accordo sul fatto che l’euro è una moneta incompiuta: si può allora completare l’euro se si riconosce ciò che è comune all’interno di uno spazio di diversità ed eterogeneità. A essere comune è sicuramente la povertà, la crisi della scuola e della formazione, la sofferenza, l’impossibilità di definire un po’ di futuro per i giovani. Sono queste le cose comuni. Il “new deal europeo”, di cui ultimamente qualcuno parla, è un new deal in cui noi lottiamo per un’organizzazione monetaria che garantisca questi elementi e spazi del comune. Per noi un euro completo è un euro del comune, nel senso che il sistema monetario europeo deve essere in grado di non strozzare questi spazi dentro l’alternativa tra pubblico, cioè Stato, e privato. Dal punto di vista del metodo dobbiamo muoverci in questo senso.
D’altra parte dobbiamo fare tesoro di quelle che sono state le lotte fino ad adesso, innanzitutto del fatto che quando ci sono state le mobilitazioni in Spagna e in Grecia non c’è stato nulla intorno. Cosa hanno fatto i sindacati tedeschi? Nemmeno un’ora di sciopero in solidarietà con i greci! Noi possiamo parlare di Europa alternativa quanto vogliamo, ma fino a quando non si riconosce che le lotte sul piano regionale, locale e nei singoli paesi membri devono essere generalizzate possiamo chiudere con questa cosa. Allora, in primo luogo dobbiamo riconoscere e agitare gli elementi del comune in una situazione oggettivamente e storicamente differenziata ed eterogenea, quelli che dicevo prima – non solo i beni comuni, ma le condizioni esistenziali comuni. In secondo luogo, diventa un obbligo etico-politico costruire degli spazi di diffusione e di generalizzazione delle lotte locali. Per esempio, io mi aspetto che in Francia l’anno prossimo possano scoppiare grandi conflitti. Allora, siamo pronti da una parte per distillare gli elementi del comune, e dall’altra per mobilitarci e generalizzare le lotte?
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