Dopo Charlotte. Obama, le presidenziali e la riemersione della crisi negli Stati Uniti
Short-Change – 1.Privare qualcuno di qualcosa con l’inganno – 2.Ingannare qualcuno restituendogli meno soldi di quanto meritato o atteso
Calato il sipario sulle due convention repubblicana e democratica a Tampa e Charlotte, gli Stati Uniti si avviano alle elezioni presidenziali in un clima di pesantezza e disillusione. Né la destra reazionaria ed il Tea Party, che puntano tutto sul candidato vicepresidente Ryan, né l’asfittico Obama bis sembrano in grado di mobilitare quelle fasce di elettorato che li portarono alla vittoria rispettivamente nel 2004 e nel 2008. Particolarmente grave, agli occhi dell’elettore obamiano di allora (e di Occupy Wall Street, artefice di contestazioni ad entrambi gli appuntamenti come trampolino di lancio verso l’anniversario del movimento il 17 settembre prossimo ed oltre), la posizione del presidente uscente: imbelle di fronte allo strapotere dei centri di gravità della finanza globale, se non colluso con essi, autore di una precaria e contraddittoria riforma sanitaria e incapace, dopo quattro anni, di venire a capo di una crisi che continua ad incidere profondamente il corpo sociale statunitense.
Da tutta una serie di indicatori macroeconomici, infatti, sembra che l’economia non abbia fatto che peggiorare durante il quadriennio obamiano: disoccupazione all’8,3%, aumento sostenuto degli statunitensi sotto la linea di povertà, esplosione del debito pubblico. Proprio quest’ultimo dato è stato particolarmente richiamato dai repubblicani: avendone l’ampiezza sfondato, proprio nei giorni della convention democratica, il muro dei 16.000 miliardi di dollari, pari al 104% del PIL federale. Senza contare le spese delle amministrazioni locali, con un totale complessivo che verrebbe a superare persino le alte vette del debito pubblico italiano – già aumentato di suo negli ultimi mesi nonostante (grazie?) alle misure di austerità montiane. Un limite già oltrepassato nell’agosto 2011 laddove, davanti ad uno stato federale legalmente in bancarotta ed impossibilitato a pagare i servizi di base, democratici e repubblicani si accordarono per un rialzo del tetto del debito statunitense da 14.3 a 16.4 miliardi di dollari; totale ora a rischio di essere nuovamente ritoccato verso l’alto (e con urgenza), proprio a ridosso delle elezioni presidenziali.
Altro grattacapo per la futura amministrazione statunitense sarà la congiuntura del cosidetto ‘fiscal cliff‘ di fine 2012/inizio 2013: un periodo in cui per legge scadrebbero le agevolazioni fiscali e le riduzioni delle tasse promosse dai passati governi, entrando contemporaneamente in vigore i tagli a ciò che rimane del welfare a stelle e strisce. Una prospettiva devastante per l’economia statunitense, che finirebbe direttamente in recessione; e la cui alternativa consisterebbe in un aumento del debito pubblico a livelli tali da rendere plausibile l’emersione di forti tensioni internazionali attorno allo status privilegiato di Washington nei flussi dell’economia e della finanza globali.
Tutta una serie di scenari che, al posto di una grosse koalition in stile europeo – preclusa dalla conformazione del sistema politico statunitense – produrrebbero verosimilmente un maggiore livello di coordinamento e negoziazione bipartisan tra le istituzioni dell’1% (Federal Reserve inclusa) davanti alle scadenze più importanti. Non a caso, molto apprezzato dai media mainstream (anche dalla stampa cortigiana di casa nostra) è stato il discorso dell’ex presidente democratico Bill Clinton. Intento, nella difesa di Obama, ad escludere la corrente più cialtrona ed integralista del partito repubblicano dal futuro quadro di dibattito politico: quello stesso spirito bipartisan dimostrato dal “presidente della prosperità” nel firmare nel 1999 lo sciagurato Gramm–Leach–Bliley Act repubblicano – una legge che, favorendo la completa deregolamentazione della finanza e liberalizzazione dei derivati avrebbe dato un notevole contributo all’insorgere della successiva crisi del 2007-2008.
Intanto la FED si sta preparando ad inondare i mercati di nuova liquidità tramite l’acquisto massiccio di propri titoli dai mercati (Quantitative Easing 3, QE3), come già avvenuto due volte in passato. Nel 2010, gli effetti del QE2 furono lo scoppio di una guerra valutaria con la Cina (detentrice di gran parte del debito USA, i cui interessi venivano così a ridursi), l’apprezzamento dell’euro (con impatto negativo sulle esportazioni dei paesi euromediterranei) e lo scatenarsi della speculazione sulle materie prime che secondo alcuni analisti, assieme all’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, ha contribuito significativamente all’insorgerere dei sommovimenti dello scorso anno in nordafrica e medio oriente.
A cosa porterà, quindi, la riemersione della crisi là dove si è originata, negli Stati Uniti? Lo scenario globale è mutato di molto rispetto al 2008, ed alle presidenziali statunitensi della “speranza” e del “change”. La Cina, ad esempio, affronta la triplice congiuntura del ricambio generazionale della leadership in sella dal 2004, con la corrente neoliberista in pole position dopo l’eliminazione di avversari politici come Bo Xilai; lo sboom della propria bolla immobiliare, già pagata a caro prezzo in termini ambientali e sociali; e la grave crisi di sovrapproduzione, emersa con l’eclissi del consumatore europeo, che lascia migliaia di capannoni del paese asiatico stipati di merce invenduta. L’Europa a sud si dibatte nella crisi del debito sovrano, con l’implementazione del fondo salva stati EFSF vincolato al beneplacito della corte costituzionale tedesca di Karlsruhe, che si pronuncerà il prossimo 12 settembre; mentre a nord presenta striscianti segnali di difficoltà, dai dati sull’andamento dell’economia britannica post-olimpica, ai salvataggi delle banche Dexia e CIF da parte del governo socialista francese, ai recentissimi acciacchi dell’industria manifatturiera tedesca. Una miscela esplosiva che, davanti all’irrisolta crisi greca, all’incompiuta primavera araba, alla lotta operaia nei paesi emergenti come il Sudafrica, alle tensioni sociali attorno alle questioni del debito privato (come quello studentesco, nelle americhe) può davvero portare la posta in gioco ad alzarsi.
Wally Crash
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