Draghi’s drug
Alla fine anche la Ue ha il suo Quantitative easing (alleggerimento quantitativo: acquisto sistematico da parte della Bce di titoli di stato e privati con immissione di liquidità nei circuiti finanziari). Diventato una misura quasi inevitabile stante la politica della dichiarazione compiuta portata avanti negli ultimi mesi dal presidente della Bce Draghi, i mercati finanziari non avrebbero tollerato un suo rinvio. L’incertezza verteva solo sull’entità della manovra e sul meccanismo di condivisione del rischio tra le diverse banche centrali.
Ora, il risultato della negoziazione interna alla Bce -nella sostanza, Draghi contro la Bundesbank- sembra in qualche modo il frutto di uno scambio tra l’entità degli acquisti e il criterio di ripartizione del rischio. Da un lato, più di 1.100 miliardi di euro di acquisti almeno fino a settembre ’16 (sessanta miliardi al mese) soprattutto in titoli di stato in base alle quote che ogni paese detiene del capitale della Bce: un’immissione di liquidità più ampia del previsto che non può che compiacere le borse. Dall’altro, solo il 20% dei rischi (perdite, eventuali default) sarà a carico della Bce, il restante 80% a carico delle singole banche centrali nazionali: non c’è mutualizzazione né completa né spinta del debito e su questo l’opposizione tedesca è passata.
A caldo un paio di considerazioni generali senza pretesa di esaurire l’argomento.
Questa misura monetaria che dovrebbe far ripartire l’economia ricalca ovviamente il Qe della Federal Reserve. Ma – al di là delle panzanate che si sentono in giro (da ultimo anche da Obama) sulla fuoriuscita degli Usa dalla crisi – la creazione immane di moneta lì non ha affatto rilanciato l’economia reale, bensì è servita a rifornire di carburante le borse nel mentre banche e aziende operavano un parziale deleveraging (riduzione dei debiti), il tutto a carico del crescente debito pubblico. Risultato: finanzieri e grandi azionisti ingrassati, creazione di una nuova spaventosa bolla speculativa che non si sa quando e come e dove scoppierà, e middle class che sta sempre peggio. Certo, efficace quanto a tamponamento della crisi ma, attenzione, reso possibile dal “privilegio esorbitante” del dollaro grazie al quale la monetizzazione del debito è direttamente scaricata sul resto del mondo. Non a caso, di fronte ai primi timidi tentativi di sottrazione rispetto a questo meccanismo predatorio, Washington sta scatenando il caos geopolitico in giro per per il mondo. Oltretutto, la Federal Reserve sta ora gradualmente innescando marcia indietro attirando capitali dai paesi emergenti verso un dollaro rafforzato (a pensar male, lo stampar moneta del Giappone prima e della Ue ora vanno a surrogare la Fed permettendo ai capitali speculativi di continuare le loro scorribande).
Venendo all’Europa, l’efficacia del Qe solleva dubbi anche tra gli economisti, almeno tra quelli “seri”. I tassi di interesse sono già ai minimi storici, l’export può beneficiare dell’euro basso ma il mercato mondiale va rallentando, e soprattutto le banche avranno sì più liquidità a disposizione per il credito ma, al di là della loro situazione patrimoniale precaria e dei molti crediti in sofferenza per cui non prestano a famiglie e imprese, è proprio la domanda da investimenti a mancare! In gergo, il cavallo non beve nonostante fiumi d’acqua a disposizione (il fallimento del Qe giapponese ne è la prova eclatante). Sotto questo angolo visuale, la Bundesbank non ha tutti i torti a vedere nel Qe un palliativo che servirà a creare non crescita ma bolle speculative (andrebbe aggiunto: a favore di chi?).
Per la Germania, da tutti i punti di vista è un brutto rospo da ingoiare. Passa parzialmente la ricetta, che fin qui Berlino ha cercato di contrastare, di ripianare debiti con nuovo debito sovraccaricando così i bilanci statali e mettendo a rischio le prospettive della moneta unica. La strategia dell’austerity rischia di restare monca perdendo una delle due gambe (lo stop alla crescita dell’indebitamento) mentre l’altra (“riforme di struttura” per spremere di più il lavoro) non dà i frutti sperati in un quadro di rallentamento economico globale. Come il prossimo voto greco probabilmente dimostrerà, l’equazione si fa per Berlino quasi impossibile. Costretta così a giocare in difesa, deve accettare compromessi sempre più al ribasso mentre l’”amico” americano – massimo supporter, col Fmi, del Qe in salsa europea! – la sta mettendo con le spalle al muro in Ucraina (e rapporti con Mosca), nel negoziato Ttip, rispetto al “terrorismo islamico”, ecc. In questo quadro, anche la non mutualizzazione del rischio nel Qe appena varato invece di rappresentare una difesa potrebbe rivelarsi un boomerang un domani che la speculazione tornasse a puntare alla grande contro l’euro, che a quel punto rischierebbe di frammentarsi assai più che nel 2011-12. Probabilmente a Berlino torneranno a breve a pensare a un piano B…
Insomma, la crisi è arrivata in Deutschland. Lo dicono anche alcuni segnali di incasinamento sociale, la mobilitazione anti-islamica di Pegida, la crescita del partito anti-euro, sul fronte opposto quella abbozzata contro la guerra “americana” in Ucraina.
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