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Euroscetticismo e nepopulismo nell’Eurogame

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Lontano dall’aver sancito un accordo organico sugli strumenti e le modalità di contrasto alla crisi Covid-19, il Consiglio Europeo di giovedi 23 aprile ha quantomeno sancito una tregua temporanea nello scontro intra-europeo.

A differenza del recente passato quando questi rinvii avevano costi minori, oggi il tempo, con le economie ‘bloccate’, gioca un ruolo importante per la tenuta finanziaria e sociale di alcuni attori, si veda l’Italia. Il recovery fund esisterà e la centralità della Commissione a guida Von Der Leyen ne garantirà la compatibilità con il rigore dei paesi del nord. Anche questa volta ognuno torna in patria cantando vittoria in attesa del prossimo round del 6 maggio, quando la Commissione dovrà entrare nel merito delle modalità di funzionamento e finanziamento del ‘fondo per la ripresa’.

L’aumento dei fondi legati alla crisi porterà il bilancio europeo 2021-2027 a superare, non è dato ancora sapere di quanto, la quota 1% del PIL dell’eurozona (166 miliardi di euro). Questo bacino, combinato alla raccolta di capitali attraverso titoli garantiti dalla Commissione stessa, dovrebbe costituire, o almeno avvicinarsi, ai 1500 miliardi paventati come base di partenza per la ripresa.
La Cancelliera Merkel ha ammesso che la Germania dovrà rassegnarsi a contribuire al bilancio europeo più di quanto preventivato in precedenza.
Il coinvolgimento della Commissione europea, finanziata proporzionalmente in base ai PIL dei membri UE, rappresenta comunque un costo per la leadership tedesca, che davanti al baratro deve temperare tentazioni di fuga in avanti.
Italia e Spagna, ma tanto si deve all’ingresso della Francia nella fazione dei peccatori, scommettendo sulle paure dovute alla detonazione del mercato unico hanno ammorbidito l’ordo-liberismo tedesco, per ora.
Il nodo, tutto fuorché formale, che adesso divide i ‘santi’ del nord dai ‘peccatori’ del sud è la modalità di erogazione di tali fondi. Prestiti o trasferimenti?
I trasferimenti, che Italia, Spagna e Francia invocano a fondo perduto, rappresenterebbero l’affermazione di una redistribuzione parziale delle risorse da ‘nord a sud’ permettendo ai paesi maggiormente colpiti di far pesare la ripresa in maniera meno pesante sui propri conti pubblici.
I prestiti, seppur temperati da tassi di interesse minori, rappresenterebbero un prosieguo dello schema indebitamento/disciplina, la cui natura ‘punitiva’ si protrarrà nel tempo, rinviando parzialmente il rigorismo tedesco/olandese.
Nel frattempo i mercati finanziari continuano ad essere titubanti, come ci ricorda l’agenzia di rating Fitch, che ha declassato i bond italiani al livello di BBB-. Gli investitori sono avvisati, l’Italia per finanziarsi deve promettere di restituire di più (interessi). E’ la trappola del debito.

Se l’ambito di contrattazione europea sembra disegnare un percorso di compromesso in grado di giungere all’autunno, nuove precipitazioni epidemiologiche permettendo, sono le contraddizioni interne al sistema economico italiano quelle che stanno inceppando e scuotendo il connubio tra politica, imprenditoria e classi proprietarie di rendita.
Come avevamo già scritto all’indomani dell’Eurogruppo del 7-9 aprile, l’Italia rappresentata da Conte aveva poco da sacrificare sull’altare della disciplina tedesca e la condotta europea dell’esecutivo doveva presentare alcune rigidità, in assenza di queste si sarebbe aperto uno spazio politico che avrebbe permesso ai sovranisti nostrani di passare ad un ulteriore incasso di consensi.

La creazione della moneta unica euro, ultimo concreto elemento del processo di approfondimento del mercato comunitario, ha almeno due origini, connesse ed entrambe frutto di interessi ‘padronali’.
Una prima di natura geopolitica, necessaria al temperamento e bilanciamento dell’esorbitante privilegio del dollaro, che, come la crisi del 2008 ha mostrato, è ancora in grado di scaricare i costi della speculazione finanziaria sui regimi di credito/debito esterni agli Usa, (spostamento dell’epicentro critico da Wall Street ai debiti sovrani europei tra il 2008 e il 2011).
Una seconda origine è da ricercarsi nella necessità delle classi dirigenti e industriali dell’Unione Europea di dotarsi di una moneta comune ‘forte’ in grado di inflazionare la rendita interna e aumentare il proprio potere d’acquisto sulla produzione globale in un momento in cui la ‘globalizzazione neoliberista’ diventava sempre più competitiva.

“Con l’euro guadagneremo di più, lavorando un giorno di meno” Romano Prodi.

Nonostante la politica dell’epoca celebrasse i vantaggi interclassisti e condivisi dell’euro, la moneta unica non ha mai goduto un gran favore di popolo e né minimamente migliorato le condizioni materiali di milioni di lavoratori e lavoratrici. Su questo tema, la saggezza popolare della nostalgia alla lira si dimostra portatrice di un’istanza di classe, chi lavora percependo salario ha visto contrarre il proprio potere d’acquisto, ben prima del generalizzato peggioramento/declassamento dovuto alla crisi finanziaria del 2008.

Questo ‘euro costoso’, la crisi del 2008, le lacrime e sangue del ce lo chiede l’Europa, fino al MES e allo spauracchio della Grecia, non hanno migliorato la reputazione della governance comunitaria agli occhi della popolazione. La generazione aperitivi e Erasmus, sinonimo di un benessere economico, è molto più sottile di quanto una certa politica e stampa facciano trasparire.

Con questo non si vuole portare avanti nessuna idea a ‘sinistra’ di Italexit, la quale producendosi nell’attuale contesto di rapporti di forza innescherebbe un peggioramento delle classi subalterne, ma pensiamo sia utile radicare lo scetticismo verso l’euro, immagine concreta dell’UE, come una istanza ‘giusta’ e naturale del fenomeno neopopulista.

Il ‘neopopulismo’, termine inteso come rottura della mediazione sociale del capitalismo occidentale e portatore di istanze di classe, (si guardi l’introduzione del libro “I dieci anni che sconvolsero il mondo” di di Raffaele Sciortino) porta al suo interno questa critica verso bruxelles. Questa sintesi di ‘euroscetticismo’ è costitutiva dell’affermazione dapprima pentastellata e poi leghista e si è fondata su una diffusa percezione: la necessità di rinazionalizzare le decisioni politiche.

Una prima fase del neopopulismo rappresentata dalla carica ‘antagonista’ pentastellata del popolo contro la casta si è esaurita a tempo di record. il ‘neoriformismo’ dal basso dei 5 stelle incarnato dal reddito di cittadinanza, depotenziato dalla coalizione leghista di governo, e da quota 100 si è infranto nel processo di retrocessione economica italiana nella gerarchia europea e nelle rigidità di Confindustria e classi proprietarie di difendere l’Italia delle grandi opere e delle crescenti disuguaglianze.
Una seconda fase del ‘neopopulismo’, sovrapposta e più profonda della precedente, è stata incarnata dal sovranismo leghista contro i globalisti/europeisti. Questa fortunata postura da campagna elettorale di Salvini ha già sperimentato contraddizioni nella breve parentesi di governo giallo-verde.
La geografia territoriale ed economica del recente successo elettorale di Salvini ci mostra una contraddizione insanabile nella sua proposta politica. Un sempre più indebolito e declassato apparto industriale e coloro che detengono patrimoni vedono nella Lega una rappresentazione statale in grado di alleggerire i costi fiscali e tutelare i privilegi di rendita, ma questi sono tutt’altro che disposti a privarsi della valuta forte euro, o nel caso dell’apparato produttivo del legame economico, seppur subalterno, con la Germania e il mercato unico.
In questo quadro vanno lette le ultime sparate del Capitone per tentare di accreditarsi come referente politico “maggioritario” di Confindustria.
Tuttavia, la polarizzazione economica e il restringimento del sentiero di governo-sviluppo renderà sempre più complesso il tentativo salviniano di amalgamare interessi contrapposti. Da un lato vi sono gli interessi imprenditoriali della “crescita ad ogni costo” e dello Stato come strumento di evasione fiscale, fornitore di credito fuori logica di mercato, e socializzatore dei costi nelle sempre più frequenti transizioni critiche. Dall’altro vi è una spinta dal basso che invoca supporto, reddito, tutela dell’occupazione dal mercato globalizzato, di cui l’Ue rappresenta l’imposizione legislativa concreta.

Ciò non vuol dire che Salvini sia finito, o che il salvinismo, come declinazione italiana del “contratto sociale” trumpiano, sia al capolinea. Molto dipende dalle profondità che prenderà la crisi, da dove morderà e dal posizionamento dei soggetti internazionali e regionali.

Questa ennesima virata critica, di natura esogena per quanto tutta interna alla logica del capitalismo come sistema ecologico autodistruttivo e predatorio, sta accelerando bruscamente le istanze di un ‘popolo’ che vuole tornare a decidere. Questa tensione travolge non solo i milioni in povertà o sulla soglia di essa ma coinvolge una quota crescente di paese, anche quella parte rimasta solvibile dopo la crisi finanziaria 2008 attraverso il lavoro ‘garantito’ e l’elevato risparmio privato.

L’inconsistenza degli aiuti di Stato e i danni ‘oggettivi’ all’apparato produttivo in termini di sottrazione di quote di mercato, costringeranno ampie fasce di popolazione ad innescare un approfondimento del processo di erosione del risparmio privato. Un processo che potrebbe coinvolgere non solo gli strati ‘garantiti’ bassi della società ma anche la sfera più alta della classe media, assottigliando il mitologico “welfare familistico” che ha contribuito a mantenere un quadro di compatibilità nello scorso decennio.

“E’ cresciuta la vulnerabilità dei bilanci di famiglie e imprese. I rischi per la stabilità finanziaria che ne derivano sono mitigati, oltre che dagli interventi di politica economica, dal livello contenuto dell’indebitamento delle famiglie e dal rafforzamento della struttura finanziaria che le imprese hanno realizzato negli ultimi anni”.
Cos’ parlò Bankitalia.

Per il momento si stima che la crisi da Covid abbia già determinato una riduzione della ricchezza finanziaria delle famiglie di oltre 140 miliardi (il 3,2%), ed è probabile che una gran parte di questa riduzione sia avvenuta tra famiglie con reddito sotto la mediana che hanno avuto la necessità di accedere a “liquidità d’emergenza”.
Il trend si approfondirà, rendendo il risparmio privato una delle poste in palio di questa crisi.
Sulla stampa mainstream appaiono diverse proposte per “valorizzare” questo risparmio attraverso la sua mobilitazione o finanziarizzazione. Ciò naturalmente vorrebbe dire aumentare il volume di indebitamento degli strati più bassi della società facendo saltare quello che finora è stato un effettivo argine di tenuta alle crisi economiche e sociali, cioè il tutto sommato basso indebitamento delle famiglie italiane.

Mentre il paese si avvicina pericolosamente al salto nel buio della ‘fase 2’, i cui risvolti epidemiologici restano discretamente preoccupanti per la salute di tutt*, l’aumento del costo dei beni di prima necessità, la disoccupazione e lo strangolamento dell’economia informale mettono a repentaglio la stessa riproduzione sociale.

Lo scontro inter-capitalista nell’Economia-Mondo e la sua partita interna europea produce dei costi economici e politici sempre meno eludibili. Sul piano globale, regional-europeo e nazionale, a fronte di una polarizzazione della ricchezza, vedremo uno scaricamento dei costi verso il basso.
Ma la maglia è sempre più larga, ad aver filo da tessere…

 

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