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Il boomerang della transizione energetica mette l’Europa in panne

Di norme ne abbiamo già varate tante in Europa, più di tutti i vicini. Siamo avanti, in termini normativi, rispetto agli americani, ai cinesi o a qualsiasi altra potenza al mondo. Ci siamo posti obiettivi al 2030 e 2050 per decarbonizzare, ridurre le sostanze fitochimiche, ecc. Chiedo una pausa nella normativa europea. Ora dobbiamo metterli in pratica. Non dobbiamo apportare nuove modifiche alle regole perché scontenteremo tutti i giocatori.”

di Giorgio Ferrari, da La Bottega del Barbieri

Così si esprimeva il presidente francese Macron in un discorso del maggio del 2023, paventando ciò che oggi è sotto gli occhi di tutti: l’impraticabilità del New Green Deal europeo.
Ursula Von der Leyen che annuncia il ritiro di misure da lei stessa varate, mentre Bruxelles e le altre capitali europee sono assediate dai trattori, ne sono l’immagine più evidente e per quanto l’informazione cerchi di presentare la protesta degli agricoltori come questione tutta interna al mercato agro-alimentare (concorrenza dei prodotti esteri e mancata remuneratività dei prodotti europei), non c’è dubbio che l’impronta data alla transizione energetica (aggravata dalla posizione assunta nei confronti della guerra in Ucraina), ha finito per far saltare il precario equilibrio del settore.

Equilibrio peraltro basato sui sussidi (circa 400 miliardi di euro, il 30% del bilancio comunitario) rivelatisi una cura peggiore del male in quanto a beneficiarne sono state soprattutto le medie e grandi imprese agricole che operano con i criteri dell’agro-industria (meccanizzazione spinta e largo impiego di fitofarmaci).
D’altro canto le correzioni introdotte nella riforma del 2021 che legavano il 25% dei rimborsi diretti all’applicazione degli “ecoschemi” (rotazione delle colture con l’alternanza di piante leguminose, la coltivazione mista, l’allevamento non intensivo e basato su mangimi naturali, l’uso di piante o coltivazioni con maggiore resilienza di fronte ai cambiamenti climatici, etc) sono risultate poco praticabili per le aziende più piccole.
Al contrario i pochissimi criteri di “sostenibilità” introdotti in quella riforma, come quello per cui ogni azienda agricola con più di 10 ettari di terra doveva dedicare il 5% di terreno a funzioni non produttive (vale a dire riservarla a tutela naturale della biodiversità e del paesaggio) e quello della rotazione obbligatoria delle colture, sono stati derogati già nel 2022 (per la guerra in Ucraina) ed oggi questa deroga è stata estesa a tutto il 2024 mantenendo inalterati i sussidi.

Il risultato finale è che l’agricoltura e l’allevamento (insieme ai trasporti), sono i settori in cui le emissioni di gas serra sono calate solo marginalmente.
Secondo i dati dell’Agenzia UE per l’ambiente, tra il 2005 e il 2021 le emissioni diverse dalla CO2 in agricoltura sono scese appena del 3% e non si prevede nessuna inversione di tendenza, nonostante il taglio delle agevolazioni per il combustibile agricolo, cosa che ha fatto arrabbiare ulteriormente gli agricoltori.

Per contro non mancano le esasperazioni green – vere e proprie truffe ideologiche – che in Italia vedono stanziati 1,5 miliardi di euro (su un totale di 2,8 miliardi previsti nel PNRR per l’agricoltura sostenibile) destinati ai “parchi agrisolari” sponsorizzati da Coldiretti, cioè istallazione di pannelli solari per autoproduzione elettrica, essendo noto che il consumo di elettricità di tutto il settore agricolo è pari al 2% del consumo nazionale.

Parco solare Weesow-Willmersdorf – Berlino.

Analogamente in Germania, nel tentativo di rispettare gli obiettivi della transizione green, il governo ha emanato una legge federale che impone ai lander di riservare il 4% del loro territorio agli usi elettrici (pannelli solari, areogeneratori, linee elettriche) trattandosi in larghissima parte di terreni coltivabili che vengono sottratti all’agricoltura.
Non c’è quindi troppo da meravigliarsi se gli agricoltori europei, nel loro insieme, appaiano come “incalliti” oppositori al New Green Deal, fermo restando che all’interno della categoria operano degnissime associazioni di coltivatori che si battono per una agricoltura biologica.

Altrettanto contraddittorio e traballante è il quadro che si presenta nel settore della mobilità elettrica.
L’obiettivo di cessare la produzione di automobili a combustione interna nel 2035 è stato largamente bocciato dalle case automobilistiche che nonostante la pioggia di finanziamenti ricevuti, hanno avanzato ulteriori richieste di finanziamento – al limite dell’estorsione – per produrre le automobili elettriche, come è risultato chiaro dalle dichiarazioni dell’amministratore delegato di Stellantis.
Del resto un’automobile elettrica costa quasi il doppio dello stesso modello a benzina per cui, senza finanziamenti statali, c’è il rischio che l’automobile, oggetto simbolo della intrapresa capitalistica, cessi di essere quel mezzo di trasporto alla portata delle masse che ha caratterizzato lo sviluppo delle moderne società da oltre cento anni.

Ma c’è di più in questo aut aut padronale; c’è il risentimento verso la nomenclatura europea per le scelte fatte nella guerra in Ucraina e nei confronti della Cina che per il settore automobilistico hanno significato serie difficoltà negli approvvigionamenti di materiali strategici e aumento dei costi, oltre alla perdita secca del mercato russo, ormai avviato verso una autarchia automobilistica.
Scelte che incidono tutt’ora sul settore agricolo dato l’embargo imposto al grano russo (mentre quello ucraino viene praticamente svenduto sui mercati europei), e per la distruzione da parte ucraina della pipe-line russa che dallo stabilimento di Togliatti portava l’ammoniaca al porto di Odessa, da cui veniva esportata a prezzi convenienti in tutto il mondo per produrre fertilizzanti.
Scelte di una Commissione europea che, pur essendo dimissionaria, stanzia 50 miliardi di euro di aiuti militari all’Ucraina invece di destinarli – secondo le aspettative delle case automobilistiche e dell’agroindustria – al settore agricolo e a quello automobilistico.

Emissioni di gas nell’area del sabotaggio del North Stream.

Ma il disastro più grande, quello che veramente scontenta tutti i giocatori (per dirla con Macron), riguarda il tema del gas. Dall’embargo al gas russo alla distruzione del gasdotto Nord Stream, è stato un tripudio di compiacimenti sia da parte degli atlantisti (ormai largamente maggioritari in tutta Europa), sia da parte ambientalista.
I primi, sorvolando sull’atto di terrorismo internazionale (sabotaggio del Nord Stream), ammiccavano alla giusta punizione inflitta all’orso russo, mentre gli altri vedevano in quell’atto esclusivamente l’occasione per sganciarsi dalle fonti fossili ed accelerare, in sede europea, la transizione alle rinnovabili.

A distanza di un anno e mezzo circa dalla distruzione del Nord Stream la situazione è questa: i prezzi del gas e del petrolio sul mercato europeo sono aumentati con effetti di trascinamento su tutti i beni di consumo senza contare l’impatto sul settore agricolo che necessita di fertilizzanti a loro volta ricavati dai combustibili fossili.
L’affrancamento dal gas russo è risultato parziale sia perché è continuata la fornitura all’Europa attraverso i gasdotti che attraversano l’Ucraina (42 milioni di metri cubi al giorno), sia perché è aumentata la quota di GNL (gas naturale liquefatto) importata dalla Russia. Nel contempo però siamo diventati dipendenti dal GNL americano (il 60% delle esportazioni Usa arrivano in Europa).
Ciò ha comportato un sensibile aumento delle emissioni di metano in atmosfera (dovute ai processi di liquefazione-rigassificazione e trasporto) oltre all’aggravio di aver installato un cospicuo numero di rigassificatori in varie località europee.

Texas. Bacino del Permiano.

Gli Stati Uniti, che fino a 15-20 anni fa erano importatori di gas, sono diventati fra i principali produttori al mondo e in assoluto primi esportatori, grazie all’impiego del fracking che però è una tecnologia invasiva di cui, giustamente, gli ambientalisti americani denunciavano i rischi e chiedevano, inascoltati, che si riducessero quantomeno le esportazioni di gas.
La novità è che lo scorso 16 gennaio un comunicato della Casa Bianca ha annunciato una moratoria nelle approvazioni alle esportazioni di gas che ha già provocato la sospensione del progetto CP2 (il più grande terminale di esportazione di GNL mai costruito) decisamente osteggiato dagli ambientalisti.
Un successivo comunicato del DoE (Department of Energy) precisava che: “Durante questo periodo, esamineremo attentamente l’impatto delle esportazioni di GNL sui costi energetici, sulla sicurezza energetica dell’America e sul nostro ambiente. Questa pausa sulle nuove approvazioni del GNL vede la crisi climatica per quello che è: la minaccia esistenziale del nostro tempo”.

Un green-washing di Biden in vista delle elezioni, o una reale pausa di riflessione? Comunque sia una pessima notizia per l’Europa che, nonostante le rassicurazioni del governo americano, teme una flessione dei flussi di importazione di GNL dagli Usa, difficilmente sostituibile con altri fornitori.

Ma c’è uno scenario ancora più preoccupante delineato da Art Berman (1), esperto geologo statunitense specializzato nelle prospezioni di idrocarburi, secondo cui dietro la mossa di Biden si cela nientemeno che l’inizio della fine dello sfruttamento dello shale gas a prezzi correnti. In parole più semplici significa che tutti i maggiori giacimenti Usa di shale gas (quello ottenuto con il fracking) i quali rappresentano l’82% della produzione nazionale, hanno raggiunto il picco massimo di produzione tant’è che ora stanno rallentando l’estrazione di gas.
Se questa ipotesi venisse confermata, le esportazioni americane crollerebbero, i prezzi andrebbero alle stelle e a pagarne le conseguenze maggiori sarebbe proprio l’Europa.

Qualche considerazione

Sul piano degli assetti di potere, l’attuale legislatura europea non poteva concludersi con un risultato peggiore. Centinaia di miliardi spesi per la guerra in Ucraina senza che nessuna iniziativa diplomatica ne tentasse perlomeno una moratoria, non hanno impedito la disfatta politica e militare che si va delineando.

Una politica climatica temeraria, incurante delle contraddizioni reali derivanti dai cambiamenti occorsi sulla scena mondiale, ha finito per scontentare sia la classe imprenditoriale che i ceti sociali più esposti alle conseguenze della transizione energetica.

I nuovi “kulaki” – come ha definito sprezzantemente gli agricoltori un articolo de “la Repubblica” del 3 febbraio scorso – sono solo l’anticipo di uno sconquasso sociale che si annuncia in tutta l’Europa che conta (Germania, Francia, Italia) le cui economie sono in seria difficoltà, principalmente a causa delle scelte fatte nel settore energetico.

Le vie del gas russo nel febbraio 2022.

All’inizio del 2022, il braccio di ferro tra Francia e Germania, si era risolto con l’inserimento del nucleare tra le energie assimilate alle rinnovabili e il riconoscimento del gas come energia di transizione, ma in quel momento si faceva ancora affidamento sul gas russo che era a buon mercato.
Con l’inizio della guerra e il conseguente diktat della Nato, l’Europa chiudeva i rubinetti del Nord Stream per importare GNL dagli Usa a costi sensibilmente maggiori, con gli effetti che si conoscono sui prezzi al consumo, ma anche su quelli delle materie prime che riguardavano -in primis- le energie rinnovabili.
Oggi i costi di costruzione a Kw installato dell’eolico e del solare, nonostante i progressi tecnologici, sono aumentati e le utilities elettriche non investiranno più come prima a meno di nuove e cospicue agevolazioni da parte degli stati, e comunque le tariffe al consumo aumenteranno.
Del resto è solo così che in occidente (compresi gli Stati Uniti) il capitalismo riesce ancora a tamponare la crisi che lo attraversa, a prescindere dal fatto che le classi dirigenti al potere siano, di volta in volta, progressiste o conservatrici, climaticamente impegnate oppure negazioniste.
C’è da augurarsi che, almeno fuori dagli assetti di potere, si rifletta su questa debacle della transizione energetica da cui l’insieme dei movimenti ecologisti non possono chiamarsi fuori.

Aver richiesto che servivano più energie rinnovabili e più in fretta o una fuoriuscita dal fossile più incisiva, non li assolve dall’aver creduto che, ululando alla luna, le contraddizioni del capitalismo si sarebbero risolte favorevolmente, senza metterne in discussione anche il suo modo di funzionare.
L’ecologia che conosciamo, quando non è espressamente ideologia della natura, ha finito per esaurirsi nella variante impossibile di un capitalismo razionale (e perciò esente da contraddizioni) dove, per incanto, le condizioni di vita della società moderna si realizzano senza danni per l’uomo e la natura, dove il profitto è “ragionevole” e la sua estrazione “rispettosa”: un capitalismo insomma, di cui si accetta l’esistenza, ma non i suoi prodotti.

(1) https://www.artberman.com/blog/draining-america-first-the-beginning-of-the-end-for-shale-gas/

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pubblicato il in Crisi Climaticadi redazioneTag correlati:

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