Guerra lampo delle SDF al Daesh nella provincia di Hasaka: sotto controllo il 20% della Siria
L’operazione “Ira di Khabour” (dal nome del fiume che attraversa tutta la zona per confluire nell’Eufrate) che ha visto il protagonismo della milizia assira del Consiglio Militare Siriaco a fianco delle YPG si è conclusa con la liberazione di un’amplissima area e della grande città di Shadadi, un tempo crocevia della tratta degli schiavi e delle schiave dei fedeli di Al-Baghdadi.
Importante è stata la collaborazione delle tribù arabe locali, che come nel contesto del fronte di Afrin hanno partecipato agli scontri. Così come il contributo degli internazionalisti alla battaglia, in cui ha perso la vita Rustem Kudi: militante tedesco il cui sacrificio porta ad 8 il numero di “quanti non sono nati ma sono morti curdi”, secondo un’elegia funebre che circola in questi minuti in rete.
Finiscono nelle mani delle SDF l’importante giacimento di al-Jabseh, da cui il Daesh estraeva fino a 3000 barili di petrolio al giorno; ed il controllo delle principali vie di comunicazione, di fatto spaccando in due, tra Raqqa e Mosul, i territori del sedicente califfato. Non a caso, anche in un contesto di interessi militari occidentali verso quell’area, circolano voci riguardo al trasferimento di parte della leadership di Daesh in Libia – in particolare del suo capo militare al-Shishani.
Nel frattempo Stati Uniti e Russia sono arrivati al perfezionamento di una tregua di carta rispetto alle ostilità in corso in altre aree della Siria. L’accordo, che dovrebbe entrare in vigore nel fine settimana, non impedisce al regime di Damasco di attaccare le parti non accolte ai negoziati, come il qaedista Fronte al-Nusra – i cui territori e capacità militari rappresentano la spina dorsale delle risorse dell’esangue Esercito Libero Siriano (FSA) che in buona parte connette ed egemonizza. Né di giovarsi indirettamente delle offensive delle SDF – opposte oltre che al Daesh agli islamisti nel FSA, sia sul fronte di Afrin che nel quartiere di Sheik Maqsood ad Aleppo. E la sacca di Darayya, storica roccaforte dei ribelli nell’hinterland di Damasco, sta subendo in queste ore i bombardamenti di un regime sempre più all’offensiva. Brutte notizie per Arabia Saudita e Turchia, la quale anzi si è vista intimare dagli Stati Uniti la cessazione dei bombardamenti contro le posizioni delle YPG in Rojava ed il diniego del supporto NATO in caso di intervento aggressivo in quell’area.
L’abilità finora mostrata dalla dirigenza del PYD di destreggiarsi tra gli interessi delle grandi potenze ha portato il progetto del confederalismo democratico a controllare circa il 20% del territorio siriano, in cui vivono oltre 4.5 milioni di persone, tra autoctoni e rifugiati: per un’estensione paragonabile a quella della Svizzera, ed una popolazione paragonabile a quella dell’Irlanda. Un peso organizzativo, umano e geopolitico non marginale, che potrebbe anche in futuro garantire il consolidamento dell’ipotesi autonoma nella regione. Tra gli USA attenti a non essere definitivamente estromessi dalle dinamiche siriane post-guerra e la Russia che deve fare i conti con un alleato altrimenti al collasso e dissanguato nelle sue disponibilità militari, infrastrutturali ed economiche, c’è spazio per un progetto che possa restare sul territorio, ed affermarsi tramite un radicamento ed una legittimità trans-etnica e trans-confessionale.
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