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In Tunisia continuano le proteste contro Eni. Fermata la produzione?

di Alessandro Doranti per  Il Manifesto

Dopo la visita al cantiere ENI di Tazarka, dove da più di una settimana è esplosa la protesta della popolazione con presidi ai cancelli e blocchi al passaggio dei camion, impieghiamo un’ora per rientrare a Tunisi. Con un leggero strattone alla spalla, mi svegliano che la macchina è appena arrivata in rue Bourguiba. E’ notte e lungo la strada principale della capitale sono in corso gli ultimi caroselli dei militanti di Ennahdha dopo che il successo atteso da giorni ha ricevuto l’ufficializzazione dall’Instance Supérieure Indépendante pour les Élections. Il mio amico, e a questo punto “collega” cameramen, mi aspetta in Rue de Marseille insieme a Z. e un fotografo francese. Racconto fatti e sensazioni dell’incontro coi manifestanti. Posando gli occhi davanti ai cancelli di Eni, tutt’altro appare rispetto alle accuse delle agenzie di stampa e del governo tunisino che parlano di sequestri e presenza di gruppi armati. Nessuno ha mangiato per la tensione e proviamo a rimediare. A quell’ora l’unica soluzione per calmare la fame è un carretto ambulante. Compriamo dei panini, manca mezzo dinaro di resto e il venditore rimedia offrendoci due uova da bere all’istante. Ci spiega che danno più forza in “certe” situazioni. Ci accontenteremmo di utilizzarla per provare a capire i reali meccanismi di circolazione di questa notizia. Come si è formata, come è stata approfondita, come viene seguita. Il discorso si allarga all’informazione. Tunisi conosce se stessa, è la capitale, il centro. Quello che è fuori, è molto più distante, alieno, più dei 60 km di macchina per recarsi sul posto. Filtraggi, approssimazioni, “ma anche razzismo”, mi confessano. Tutto può essere. In ogni caso una delle parti in gioco si chiama Eni, che con il suo silenzio non facilita di certo la trasparenza.

Continuo a leggere e scrivere fino alle luci dell’alba e oltre, aspettando che gli altri si sveglino. In tarda mattina siamo di nuovo sulla strada per Tazarka. Rispetto alla sera precedente, a me si aggiungono un cameramen e un attivista tunisino. Prima di partire telefono a Ramzi Bettaieb di Nawaat, per informarlo che sono stato a Tazarka e che sto per tornarci. Gli racconto le mie impressioni, lui continua a esprimere dubbi sulla natura dei manifestanti.

Davanti ai cancelli ci sono meno persone della sera precedente, non più di trenta, tutte molto giovani. Ridha Ben Salha si ricorda di me. “Il livornese!”. Gli altri si presentano. Per prima cosa ci fa notare che dalla fabbrica non arrivano più rumori. “L’impianto è fermo”. Il blocco dei camion non permette il trasporto dei materiali trattati fuori dalle cisterne, che con il passare dei giorni sono arrivate al collasso. Difficile dire se la produzione sia effettivamente ferma. Ma se lo fosse – e l’assenza di qualsivoglia rumore sembra confermarlo – per Eni prima o dopo si porrà il problema di come gestire questa situazione. Un ragazzo si avvicina con il telefonino e avvia “le Vidéo 0047”, che mostra l’uscita di alcuni impiegati dai cancelli, filmati poco prima del nostro arrivo. Nelle immagine c’è Ridha appena all’interno del cancello che parla con un operaio in tuta, poi si salutano. Pochi istanti dopo una macchina lascia senza difficoltà il cantiere. “Non stiamo trattenendo nessuno”.

Ridha ribadisce i passaggi della sera precedente. “In paese erano tutti convinti che Eni sostenesse il Comune nel realizzare le infrastrutture. Era quello che il Comune affermava e tutti stavano zitti. Dopo la Rivoluzione abbiamo scoperto che le cose sono andate diversamente e abbiamo cominciato a fare le nostre richieste, quelle del popolo, che dopo la Rivoluzione non ha più paura”. Eni non ha accettato la trattativa. Pensava che i manifestanti non restassero più di 2-3 giorni e ha continuato a riempire le cisterne. “Ma noi non andremo via prima dell’accettazione delle nostre richieste”. La stampa parla di sequestro del personale. Ride di gusto: “Non c’è stato niente di tutto questo. Circa 200 persone si sono presentate ai cancelli. Per un paio di giorni abbiamo detto a chi entrava che non sarebbe uscito. Non potevamo far altro per costringere Eni a venire a trattative”. Conferma l’ingresso dell’ambulanza, ma smentisce ancora che quattro persone siano state portate via. “Ci siamo adoperati per far entrare l’ambulanza, che ha portato via una sola persona, che si è sentita male ma non per mancanza di cibo e acqua”. Radhi ci tiene a sottolineare che il rapporto con gli operai è buono. Esistono differenti opinioni su come portate avanti la protesta? “Tutto il popolo di Tazarka è unito. Stiamo anche facendo una raccolta di firme e sono già mille gli abitanti che hanno sottoscritto e lasciato i propri dati. Per il resto si tratta d’informazioni che diffonde Eni, che non a caso ha imposto il silenzio ai dipendenti. Perché non possono parlare?” Non si tratta di una richiesta sindacale. “E’ una richiesta delle persone del paese, che come potete vedere non sono armate e non sono banditi. E se bevono, come scrive la stampa, lo fanno ai bar del paese, non qua”. La fabbrica resta presidiata al suo interno. “Ci sono gli addetti alla sicurezza, non è certo un posto che si può abbandonare a se stesso”. Saliamo nel furgonato e andiamo a vedere gli altri cancelli e i dintorni della fabbrica. Nel frattempo chiamo il responsabile di Nawaat, a cui propongo un confronto in diretta con “il bandito”. Ridha si presenta: “Sono il portavoce della protesta degli abitanti di Tazarka e membro del consiglio di protezione della Rivoluzione”. Parlano a lungo, Ramzi espone le sue perplessità, Ridha sembra divertito, ma su certi passaggi la sua faccia si scurisce e, ci dice il traduttore, ribatte che “non è giusto far passare queste informazioni”. Cade la linea, i soldi della scheda tunisina sono terminati. Ma Ridha richiama, vuole proseguire coi chiarimenti, poi mi passa il telefono. “Sembra convincente” chiude Ramzi. Torniamo sul furgone e lasciamo il cantiere, proseguendo in direzione del mare. Sulla strada i resti delle barricate di sassi e bidoni che sarebbero serviti per impedire il passaggio dei camion cisterna dell’Eni. Ma su questo Ridha non vuole aggiungere troppi particolari. “Sono stato stamattina in commissariato, c’è una denuncia di Eni a mio carico e certe cose preferisco non dirle, devo ripresentarmi lunedì”. Ripartiamo. A un passo dalla spiaggia di Tazarka, un odore nauseante riempie l’aria e ammassati a terra compaiono rifiuti di ogni genere. “Una discarica a cielo aperto – ci fa notare Ridha – che ha compromesso quella che doveva essere un’oasi protetta”. Ma questa è un’altra storia. Lasciamo i fenicotteri a zampettare in uno laghetto ormai privo d’acqua. Prima di salutarci Ridha ci tiene a mostrarci la sua casa, un imponente gioiello architettonico, su vari piani. “Io ho tutto, non mi manca niente. Non lavoro da giorni, ma non importa, voglio star vicino alla mia gente”.

A casa commentiamo la giornata con altri attivisti tunisini che ci hanno raggiunto. “Il sistema dei media tunisini – attacca W. – non si è ancora liberato dai meccanismi di disinformazione dei tempi di Ben Ali. I giornalisti non si muovono per una protesta contro l’Eni. In questo momento sono tutti presi dalle elezioni e dal problema della stabilità interna. E poi dopo quello che è successo tutti pensano solo a Sidi Bou Zid”. Continuiamo a cercare informazioni sui siti. Salem, un abitante di Tazarka lascia il suo numero di telefono in fondo a un commento a un articolo e invita a contattarlo. W. compone il numero. Si presentano, hanno un conoscente in comune a Tazarka. L’uomo racconta di essere un lavoratore di una ditta, che appena può, raggiunge il presidio dei manifestanti. Parla di una protesta pacifica, popolare, condivisa dalla gente del posto.  Rivela che l’installazione di Eni nel sito di Tazarka inizialmente non fu accettata dalla municipalità, perché troppa prossima al paese. Il terreno attualmente in uso sarebbe stato comprato da un imprenditore di Sfax e affittato in seguito ad Eni che ha cominciato a sfruttarlo per il petrolio. “Eni – prosegue Salem – in qualche modo è riuscita ad avere il terreno. Ma non avrebbe un’autorizzazione per operare a Tazarka, bensì a Ghardaia”. L’impatto ambientale non è stato leggero. “I gas creano effetto serra dappertutto. I terreni agricoli si sono svalutati, in particolare intorno al cantiere dove soffrono la presenza dell’impianto di illuminazione di Eni, i cui fasci di luce hanno fatto scomparire le notti”.

Sulla rete spuntano anche i primi video autoprodotti. La principale attività della zona è l’agricoltura e a parlare sono principalmente contadini. Una donna, davanti ai cancelli, spiega di non essere contro Eni, ma che non è possibile tollerare oltre “il rumore, gli odori, i fumi e il surriscaldamento che la presenza della fabbrica comportano”. Un contadino, ripreso in mezzo al campo di lavoro, senza mezzi termini dichiara “che Eni sta fabbricando solo malattie, a causa delle fuoriuscite di gas che in particolare stanno colpendo i bambini di Tazarka”.

Parole da che meriterebbero ben altri approfondimenti, visite costanti, inchieste, prelievi sul territorio. E che invece raccolgono i toni indignati dell’informazione solo per l’indisponibilità  a trattare con interesse e maggior rigore il caso. Al contrario, estraendosi da quella copertura mediatica “confusa” che da subito ha bandito di legittimità la protesta, forse c’è ancora molto da scoprire.

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