Iraq 2003-2014: “mission accomplished, failed state!”
Lo scorso 28 maggio il presidente americano Obama, durante il discorso annuale ai nuovi cadetti dell’accademia militare di West Point, affermava che la leadership di Al Qaeda era stata decimata, e che l’organizzazione islamista era vicina alla sconfitta totale.
A vedere quello che succede oggi in Iraq non si direbbe.
Pochi giorni fa un battaglione di 800 combattenti affilitati all’ “Esercito Islamico dell’Iraq e del Levante” (ISIS in inglese, DAESH in arabo) conquistava le città di Mosul, seconda per importanza dopo Baghdad, e Tikrit, “sconfiggendo” due intere divisioni dell’esercito iracheno (30 mila soldati ritiratisi senza combattere). E oggi si preparano a marciare verso Baghdad, la capitale.
Sebbene ISIS e al Qaeda siano due formazioni distinte, e talvolta con obiettivi e strategie differenti (vedi guerra in Siria dove l’emiro di Qaeda, al Zawhairi, ha dichiarato che la sola e unica Qaeda siriana è Jahbat al-Nusra), qaedisti o meno, poco cambia. Oggi, nella galassia islamista, la leadership qaedista di Zawhairi (nascosto e lontano dai campi di battaglia da più di dieci anni) è sfidata da ISIS e dal prestigio del suo comandante, Abu Bakr al Baghdadi. La nuova Qaeda di ISIS, che ha smesso i panni di organizzazione verticistica e segreta per diventare “organizzazione che sta sul campo”, sta facendo man bassa di adepti tra i giovani jihadisti: il suo appello massimalista alla jihad globale e alla creazione di un emirato siro-iracheno ha messo in crisi Zawahiri e la sua agenda “minimalista” (cacciata del regime alawita di Assad).
Oggi ISIS è una vera potenza in Medio Oriente: in Siria controlla una fascia di terra molto ampia nel nord-est del paese, con Raqqa come capitale, e in Iraq è altrettanto diffusa la sua presenza, soprattutto nella zona dell’Anbar (ricordate Falluja?) e dell’Erbil. Ma chi sta dietro a questo ISIS? Esso sarebbe stata creata da una costola irachena di al Qaeda, a seguito dell’invasione americana del 2003, ad opera del giordano Al Zarqawi, poi, alla sua morte, sostituito da al Baghdadi, entrato in aperto conflitto con Qaeda. Dietro questa “al Qaeda 2.0” ci sarebbe la mano dell’Arabia Saudita, alleato “moderato e conservatore” dell’Occidente, impegnata, nel suo leading from behind, a contrastare l’ascesa dell’Iran e dell’arco sciita (con il beneplacito occidentale). Il che significa spargere terrore nell’Iraq a maggioranza sciita e nella Siria odierna (con qualche attentato nei quartieri sciiti di Beirut per colpire Hezbollah): non è infatti un mistero che Re Abdullah Saud veda il premier iracheno al Maliki (nonché Assad ed Hezbollah) come dei lacché dell’Iran. Quale miglior occasione dunque se non inondare di petrodollari questo ISIS per fare il lavoro sporco?
Tornando all’Iraq, certo è che la situazione odierna irachena è la risultante anche di altri fattori. Primo tra tutti l’invasione americana del 2003, che è stata accompagnata dalla distruzione dello stato iracheno. L’imposizione di un governo fantoccio (composto da esuli semi-sconosciuti), l’ondata di disoccupazione provocata dalla de-baathizzazione dell’esercito e della burocrazia, l’inesistenza di qualsiasi strategia a lungo termine di ricostruzione materiale e state-building, lo sperperamento dei fondi per la ricostruzione in eserciti di contractors e mercenari a difesa delle imprese straniere, la privatizzazione e la s-vendita del petrolio iracheno alle compagnie occidentali: queste sono solo alcune delle fallimentari politiche americane in Iraq dal 2003 ad oggi. Il disagio e lo scontento degli iracheni, a seguito anche delle tattiche militari americane di assedio e bombardamento su aree densamente popolate (vedi fosforo bianco su Falluja 2004), unito a punizioni collettive, deportazioni di massa, abusi (vedi Abu Ghraib), non ha fatto altro che crescere col tempo: non ci si dovrebbe stupire oggi se, tra coloro che attaccano le forze di sicurezza irachene, vi siano anche nazionalisti e membri secolari dell’ex esercito iracheno (400 mila membri dell’ex esercito iracheno si trovarono disoccupati da un giorno all’altro dell’invasione americana…).
Inoltre l’istituzionalizzazione di una politica del divide et impera, che ha fatto leva sulla maggioranza sciita (perseguitata sotto Saddam) contro la minoranza sunnita non ha fatto altro che radicalizzare lo scontro interno allo stesso Iraq. Le politiche settarie e poco inclusive dello stesso governo Al Maliki, considerato da molti un Saddam Hussein sciita corrotto e bramoso di potere (vedi arresto del vicepresidente al Hashemi, la scelta personale dei comandanti dell’esercito, nepotismo, corruzione,…), che hanno emarginato i sunniti dalle posizioni di potere e dall’esercito nazionale hanno solamente contribuito ad esacerbare il settarismo in seno alla società irachena. L’Iraq odierno è un failed state, uno stato fallimentare: l’intervento americano, il fazionalismo e il settarismo politico hanno costituito terreno fertile dove ISIS-Qaeda (anche grazie ai pesanti finanziamenti esterni, come quelli ricevuti per combattere in Siria contro Assad, vedi Fisk sull’Indipendent al sito goo.gl/YPgCdB) hanno acquisito legittimità agli occhi (di una parte) della popolazione.
Per quel che riguarda la situazione sul campo, sembra che ISIS abbia unito le sue forze a quelle di altri gruppi militanti islamici sunniti (e, come visto, anche a nazionalisti ed ex membri dell’esercito iracheno), fungendo da avanguardia combattente a livello avanzato, offrendo logistica, supporto, uomini, armi e munizioni per contribuire a generare disordini.
Di oggi l’appello dell’Ayatollah al-Sistani, una delle massime autorità sciite in Iraq, a prendere le armi e combattere ISIS, prima che essi si avvicinino alle città sante di Najaf e Kerbala, nel sud del territorio iracheno: anche l’Iran si è detto disposto ad “aiutare” il vicino iracheno per recuperare la sovranità sui territori perduti, e pare abbia già inviato, segretamente, dei battaglioni di Pasdaran (i “guardiani della Rivoluzione”, corpi speciali) a sostegno delle forze regolari irachene.
Alla situazione generale di conflitto partecipano anche i curdi del nord, che ieri hanno ripreso la città di Kirkuk, importante polo petrolifero: per i curdi l’indebolimento dello stato iracheno e l’avanzata dell’ISIS sono un’opportunità da cogliere al volo per riconquistare terreno (giusto per chiarire, i curdi non sono alleati né amici di ISIS, tant’è vero che negli ultimi anni si sono scontrati con questi ultimi in Siria).
Quel che oggi è visibile in Iraq, con sempre più terreno conquistato dai jihadisti di ISIS, sembra essere la risultante della politica americana e occidentale dal 2003 in Medio Oriente ad oggi. Dopo aver visto il disastro dell’occupazione dell’Iraq (che ebbe come unico risultato di aumentare l’influenza iraniana nel paese e, in Medio Oriente, dell’arco sciita), gli States si sono decisi ad un confronto sempre più serrato con l’Iran e, con lo scopo di indebolire il regime degli Ayatollah (anche in vista di un tavolo negoziale internazionale sulla questione nucleare), hanno alimentato un esteso conflitto di carattere settario tra mussulmani sunniti e sciiti, fomentando e finanziando strumentalmente gruppi estremisti (c’è un illuminante articolo di Hersh su questo shift nella politica americana al sito http://goo.gl/akmvvB).
Sembra che l’Occidente abbia fatto suo il motto “il nemico del mio nemico è mio amico”: il problema è che oggi “ISIS-Qaeda 2.0” mostra meno malleabilità dei qaedisti cresciuti combattendo i sovietici in Afghanistan nel 1979 e sembra fuori controllo. Infatti molti combattenti (provenienti da tutto il mondo, dal vecchio continente agli Stati Uniti) bussano ormai alle porte dell’Europa…..
(In tutto ciò Obama, eletto nel 2004 proprio per mettere fine alla disastrosa (e dispendiosa) guerra irachena pare optare per il profilo basso: nessun intervento diretto e finanziamento alle forze irachene regolari, ma sembra possibile l’uso dei droni…)
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