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Nicaragua: il sandinismo alle urne

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Riceviamo e pubblichiamo questa interessante cronaca delle elezioni in Nicaragua dell’8 novembre 2021 che contestualizza le complessità della situazione nel paese latinoamericano.

Di Marco Gatto

Venerdì 5 novembre Mick Wallace, europarlamentare irlandese, gruppo GUE, tifoso granata, sbarca a Managua, Nicaragua, con un piccolo seguito di 5 persone: siamo un italiano, un francese e tre irlandesi, a parte me, tutti assistenti di Wallace e di Clare Daly, europarlamentare anch’essa, purtroppo all’ultimo assente per ragioni personali (io, umilmente, sostituisco Clare). Il motivo è osservare le elezioni nel piccolo paese centroamericano, patria di Sandino e del sandinismo. La visita è personale, non ufficialmente delegata dal parlamento europeo.

Ci ricevono all’aeroporto con una lavagnetta sulla quale sono scritti i nostri nomi, veniamo accompagnati in una stanza, dove vi sono già altri osservatori e, poi, radunatici tutti nell’albergo dove risiedono le delegazioni, veniamo divisi in diversi gruppi. Gli osservatori internazionali sono circa 180, il nostro gruppo è composto da una trentina di persone: oltre noi 6, vi sono, tra gli altri, 2 italiani che lavorano per una onlus, un membro del partito comunista tedesco, 2 cooperanti belghe, sindacalisti belgi, un membro di Podemos Barcellona, 2 membri della CUP catalana, un politico argentino e altri.

Il giorno dopo, sabato 6, si inizia presto: alle 7 ci si incontra nell’albergo dove risiedono le varie delegazioni (noi abbiamo preferito stare in un alberghetto vicino), veniamo divisi in diversi bus e ci si sposta nel CSE (Consejo Supremo Electoral). Alle 8 iniziano le operazioni di registrazione: ognuno viene (gentilmente) identificato e fotografato, quindi munito di una bella tessera di “Acompanante Electoral”.

Immediatamente dopo inizia una conferenza fiume, dove intervengono le massime autorità: il presidente del parlamento, con un delegat* di tutti i partiti presenti nella camera, il presidente della Corte di Giustizia, la presidente del CSE, il presidente della Banca Centrale e diverse altre autorità. I discorsi convergono sulla pressione esterna contro il governo, l’ingerenza Usa con la lobby dei fuoriusciti a Miami, l’importanza della tornata elettorale e la volontà di rimanere un paese “libre e soberano” (libero e sovrano).

Nel fiume dei discorsi (la seduta è durata oltre le sei ore) sembra che i sandinisti vogliano convincerci della bontà del loro governo, ma, vista la composizione delle delegazioni estere, non mi sembra che c’è ne fosse un gran bisogno.  Più che osservatori, sembravano tifosi.

Si descrive l’economia del paese, la composizione etnica, le lingue parlate, le infrastrutture, l’accesso a  internet e molto ancora. Tutto sommato la cosa è interessante, soprattutto quando viene descritta la situazione sociale del paese: dal 2007, anno del ritorno al potere di Ortega e di quel che resta del sandinismo, l’analfabetismo è calato drasticamente, la sanità è tornata pubblica (dopo la privatizzazione degli anni seguenti la sconfitta elettorale del 1990) e la povertà è calata di oltre il 50%  (dati dell’Istat locale, della quale ci tocca fidarci, come ci fidiamo della nostra). Risultati, direi, straordinari. In ogni caso, secondo gli stessi dati, ancora un nicaraguense su tre è in una situazione di povertà almeno relativa, cosa che balza agli occhi passeggiando per le strada di Managua o per le altri parti del paese.

Veniamo assegnati alla città di Estelì, altipiano settentrionale, roccaforte sandinista, massima produttrice di sigari, immersa in una magnifica campagna. Siamo accompagnati da Carlos Morelos, funzionario del ministero degli esteri e da Siddharta Marìn, funzionario del ministero della giustizia.  Visitiamo 4 circoscrizioni elettorali, in ognuna delle quali ci fermiamo per una mezz’oretta, liberi di vagare, osservare e entrare dove vogliamo.

Il meccanismo di voto è semplice e, sembrerebbe, sicuro. Al compimento dei 16 anni, ogni cittadino riceve un documento di identità. All’arrivo nella circoscrizione, viene letto il codice a barre del documento e l’elettore viene indirizzato ad un seggio, nel quale viene registrato e fornito di scheda elettorale, da piegare e mettere nell’urna dopo aver votato. Alla fine, a chiunque abbia votato, viene dipinto un pollice di inchiostro indelebile, così da impedire che si possa votare più volte. Attaccate fuori da ogni seggio, ci sono le liste del corpo elettorale (massimo 400 persone a seggio), con una visione della privacy diversa dalla nostra.

Tutti i partiti possono avere un loro rappresentante in ogni seggio durante le operazioni di voto e di spoglio, mentre presidente, segretario e scrutatore sono membri del CSE (almeno così mi sembra di aver capito).

Durante la nostra presenza, le cose si sono svolte nella massima semplicità e correttezza e tutti gli operatori coinvolti mi sono sembrati onesti, gentili e competenti.

I risultati ufficiali sono stati partecipazione al voto del 65% e il presidente Ortega al 75%, facile vincitore.

Che dire? A noi le elezioni sono sembrate corrette e tutto sembra essersi svolto normalmente. La cosa che si percepiva era che doveva esserci stata una forte pressione nella partecipazione al voto, non si sa se dal governo o da parte di familiari: abbiamo visto poveri anziani spaesati che non sapevano come, cosa e perché votare. Nulla possiamo dire sulla percentuale dei votanti, anche se l’afflusso sembrava essere abbastanza sostenuto: il 20% dichiarato dalle organizzazioni di opposizione Urnas Abiertas e Observatorio Ciudadanos sembra eccessivamente basso. D’altra parte impossibile sapere cosa succedeva nei seggi prima e dopo la nostra venuta o durante lo spoglio.

Come già detto, penso si possa pensare che il risultato sia regolare, anche perché, come dettoci dal nostro accompagnatore Carlos, la vera sfida non era vincere le elezioni, ma ottenere un buon quorum di votanti.

Il vero dubbio, probabilmente, non sta nel verificare la regolarità di questo processo elettorale, ma nel capire se i veri avversari di Ortega  e della moglie/vicepresidente Rosario Murillo, anche essa figura di spicco della rivoluzione, si siano potuti presentare. Già nel 1995 si era formato, in opposizione al Fronte Sandinista di Liberacion National (FSLN) di Ortega, il Movimiento Renovador Sandinista (MRS), partito formato da guerriglieri e intellettuali come Sergio Ramirez, Dora Maria Telles e Victor Hugo Tinoco, fortemente critico verso la deriva autoritaria e personalista della coppia al potere. Inoltre molti dei nove comandanti della rivoluzione sandinista, come Luis Carrion Cruz, Henry Ruiz e Jaime Wheelock, hanno duramente criticato il governo e il fatto che, nel corso di questo anno, ci siano stati ancora numerosi arresti (anche di figure di spicco, come la già nominata Maria Telles), non fa ben sperare in una futura riconciliazione. Anche le continue critiche, pure molti recenti di Gioconda Belli, principale scrittrice e intellettuale del paese (con Sergio Ramirez) fanno fortemente dubitare della reale democrazia nel paese.

Certamente, da occidentali lontani chilometri e divisi da un oceano, oltre che da storia e cultura, tutto ciò che si può fare è osservare ed esporre i fatti. Capire se il governo Ortega/Murillo ha ragione sugli arresti effettuati dopo le rivolte del 2018 (con, secondo voci dell’opposizione, 320 morti in 4 mesi), violente e dirette, secondo le fonti governative, da forze esterne oppure se viene impedito l’utilizzo dei mezzi democratici al popolo e agli avversari politici, che pure hanno combattuto contro il dittatore Somoza, resta una cosa difficile, da lasciare alla sensibilità di ognuno. Sicuramente le carcerazioni di sandinisti della prima ora fa molto riflettere.

Un certo sostegno al FSLN è sicuramente presente nel meraviglioso paese centro americano: ritornando al nostro albergo dal CSE, dove arrivavano i risultati dello spoglio, abbiamo potuto testimoniare di giovani imbandierati e di festosi raggruppamenti. Che siano la maggioranza della popolazione, impossibile dirlo.

La cosa che consola rimane il tentativo di eradicare la povertà nel paese, sperando che si riesca a fare sempre di più. Ancora oggi, in America centrale (e forse in tutta l’America latina), la cosa migliore che possa capitare ad un bambino povero è quella di nascere nella dittatoriale Cuba, nonostante Usa e covid. Ma le cifre su sanità, istruzione e nutrimento sono più forti della propaganda imperiale.

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