Siria, grandi manovre per il 2019
Notevoli sono le mosse delle grandi e medie potenze – negli ultimi giorni, per non dire nelle ultime ore – per sciogliere a proprio vantaggio l’impossibile nodo del conflitto mediorientale.
Nell’eroica mobilitazione dei popoli della Siria del Nordest (schieratisi in massa nelle città lungo il confine contro le manovre dell’esercito turco e dei suoi alleati jihadisti) e nel silenzio (o nell’assenso) di quelli degli altri attori regionali, a finire sotto i riflettori sono ancora una volta gli interessi delle classi dirigenti – ridotti al minimo comune denominatore del discorso geopolitico.
È stato l’annuncio di Trump del 19 dicembre scorso, che poneva fine a 4 anni di intervento statunitense in Siria, ad innescare una spirale che ha portato alle dimissioni a catena del Segretario alla Difesa Mattis e dell’inviato speciale per la coalizione anti-ISIS McGurk, ai tamburi di guerra turchi ed ai negoziati tra regime di Damasco ed amministrazione democratica della Siria del Nordest per rintuzzare il disegno imperialista di Erdogan. Producendo una situazione sul campo paradossale: nel distretto di Manbij si segnalano la presenza contemporanea dei vessilli a stelle e strisce, del regime e dell’amministrazione democratica del Consiglio Militare di Manbij, formalmente ancora al comando dell’abitato a maggioranza araba.
Ma le dichiarazioni di inizio anno di Trump, sotto la pressione di figure come il senatore repubblicano Lindsey Graham – pro-Israele, anti-Iran e da sempre massimo lobbista dell’industria bellica – hanno rimesso ancora una volta in discussione le tempistiche del ritiro statunitense, posticipandolo di quattro mesi. Ed alludendo ad una quadra apparentemente impossibile: sconfitta permanente dell’ISIS, prevenzione dell’Iran, protezione degli alleati curdi – clausola in cui hanno pesato il malumore del Pentagono e lo sdegno dell’opinione pubblica, anche attraversato da una forte mobilitazione internazionale, per l’abbandono delle partigiane e dei partigiani delle SDF.
L’unico scenario che potrebbe farne combaciare tutti i pezzi è quello di un’interposizione concordata della cosiddetta “NATO araba” in Siria del Nordest. Si è infatti assistito negli ultimi giorni a colloqui di alto livello tra vertici militari egiziani e siriani (che vantano forti legami storici e l’opposizione alla Fratellanza Musulmana ai vertici del potere in Turchia e Qatar); ed alla progressiva normalizzazione delle relazioni tra i paesi a guida saudita del GCC ed il regime di Damasco – con la riapertura dei confini giordani, delle ambasciate di Emirati Arabi Uniti e Bahrein nella capitale siriana e la possibile riammissione di Assad nella Lega Araba.
Fantapolitica? Benché decisivo, il contributo di Iran e Russia alla sopravvivenza del regime siriano (di fatto commissariato) potrebbe rivelarsi un’ipoteca troppo pesante ed ingombrante per la sua stabilizzazione e la ricostruzione post-guerra. Certo nemmeno i miliardi che il Golfo metterebbe sul piatto in tal senso potrebbero bastare a compensare anni di inimicizia, isolamento e tentato regime change ed influire sulle lealtà degli apparati del regime. Ma se c’è un fattore che, da tutte le parti, non è mai venuto meno in otto anni di conflitto è quello del cinismo e del realismo politico.
Un accordo tra Turchia e regime d’altro canto sarebbe problematico, oltre che per i popoli della Siria del Nordest, anche per l’alleato di punta degli Stati Uniti nella regione – Israele. Che vedrebbe consolidarsi le posizioni dei suoi nemici di nuova (Erdogan) e vecchia data (Assad). E dovrebbe porre delle domande anche ai fautori di una Russia da un lato a braccetto negli ultimi mesi con la Turchia – allo stesso tempo secondo esercito della NATO ed uno dei massimi sponsor del terrorismo jihadista in Siria e non solo – dall’altro impegnata nella lotta al fondamentalismo islamico in casa propria, come riportato alla ribalta in questi giorni da molti media filo-Putin.
Nel frattempo la sanguinosa parabola dell’ISIS sta avviandosi alla conclusione, almeno nei termini della sua forma-stato. Quello che era un soggetto transnazionale delle dimensioni della Francia, e in grado di minacciare le capitali di Siria ed Iraq, è stato ridotto a prezzo di innumerevoli martiri e battaglie ad una dozzina di km2 nella valle dell’Eufrate. E sotto l’offensiva delle SDF contro le ultime ridotte di Shaafa e Susah, nei primi bagliori del 2019 potrebbe iniziare ad essere declinato – finalmente – al passato. Togliendo ogni ragione di essere ad un ipotetico intervento NATO sotto bandiera turca – che già opprime da troppo tempo le popolazioni di Idlib ed Afrin.
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