
Speciale Infoaut: voci, commenti, approfondimenti sulla vicenda #CharlieHebdo
Buona lettura.
Redazione Infoaut
Altri articoli e approfondimenti che abbiamo recentemente pubblicato su Infoaut:
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La banlieue, l’insurrezione, e il richiamo dell’ISIS
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Alle radici del terrorismo al servizio della guerra permanente
di Salvatore Palidda da Alfabeta2
Quando, perché, come e dove si genera il terrorismo che il 7 gennaio ha massacrato Charlie Hebdo, ma prima s’è manifestato in tante occasioni e non solo col marchio “islamista”? La letteratura sull’argomento è ormai enorme, ma anche le descrizioni a volte corrette sono lacunose e mancano della lettura sufficiente per capirne le “radici” e gli eventuali rimedi.
Il “profilo” più credibile descritto da alcuni autori è che si tratta di giovani marchiati dalla disgregazione sociale, marginali spesso diventati devianti (alcool, droghe, spaccio, piccola delinquenza). Ma, come s’è visto anche a Londra e altrove, si tratta anche di giovani di buona famiglia, senza passato deviante, magari scolarizzati sino alla laurea eppure convertiti al radicalismo islamista sebbene prima atei o cristiani, o persino ebrei. Sarebbero tutti “infatuati” dal neo-mito (ma quanto vecchio) dell’“eroe negativo” che trova nello jihadismo una sorta di maniera di definirsi positivamente rispetto alla sua condizione di esclusione economica, sociale, culturale o dovuta a quel razzismo perfido di cui sono intrisi anche i ceti medio-alti. Non sopporta la mancanza di pari dignità, di rispetto per lui e i suoi simili, non trova lavoro o gliene offrono solo malpagato, inferiorizzato, nocivo o da delinquente, se laureato non ha le stesse chances di chi è wasp o di origini “DOC”.
Cerchiamo di andare alle radici: questi “radicalizzati” sono il prodotto di un preciso contesto (frame), cioè il frutto di una precisa costruzione sociale. È esattamente la conseguenza della profonda destrutturazione liberista dell’assetto economico, sociale, culturale e politico della società industriale in cui prima si situava l’immigrazione e i figli di immigrati e in generale delle classi subalterne o anche delle classi medie (che anche allora si rivoltavano diventando criminali – si pensi alla banda Cavallero e altri casi del genere – e in alcuni casi anche terroristi – si pensi a diverse biografie dei “rossi” e dei neri in Italia e altrove). Il liberismo ha smantellato il welfare, l’inserimento pacifico, l’assimilazionismo, l’integrazione sociale e culturale (di destra e di sinistra) (vedi Robert Castel) e ha innescato la criminalizzazione razzista. Le rivolte nelle banlieues cominciano nel 1985 ed emerge allora anche il lepenismo dapprima come razzismo anti-immigrati e antisemitismo e via via contro l’égalité e lasolidarité…
Liberismo oblige: l’accanimento per aumentare i profitti impone l’inferiorizzazione a cominciare dagli immigrati e dai loro figli per poi estenderla alla maggioranza della popolazione. Le rivolte delle banlieues sono palesemente contro il liberismo che fa dei giovani del popolo la “posterità inopportuna” (vedi Sayad), la racaille (feccia). E devastante e criminogena è la risposta a queste rivolte che da allora non smettono di riprodursi sia perché il liberismo si accanisce accentuando l’esclusione, la marginalizzazione in tutti i sensi, sia perché la risposta le alimenta. I governi da un lato perseguono la pura criminalizzazione razzista e dall’altro elargiscono qualche “caramellina” distribuita ai “docili” (una piccola minoranza dei giovani marginalizzati).
Per questo lavora in subappalto la schiera di educatori, assistenti sociali, psicologi, islamologi, antropologi, sociologi e politologi e varie ONG, spesso embedded, cioè il “terzo settore” di cui si serve la governance liberista privatizzando il welfare ed escludendo ogni effettivo risanamento delle cause che aggravano la disoccupazione, le economie sommerse, la destrutturazione economica e sociale. In trent’anni questa è la “carotina” elargita a una minoranza della “posterità inopportuna”, mentre alla maggioranza è rifilata la criminalizzazione razzista, sistematica e spesso assai violenta (vedi Rigouste e D. Fassin) in Francia con Sarkozy e poi con Valls. Di fatto si alimenta soprattutto la clientela elettorale dei partiti al governo parallelamente al business del sicuritarismo (più soldi alle polizie e ai dispositivi di sicurezza).
Nel frattempo, i discorsi più mediatizzati hanno confortato la governance che rifiuta di riconoscere le vere cause della fracture sociale, ossia dell’anomia prodotta dal liberismo. Tanti classificati come democratici o di sinistra da trent’anni veicolano bla-bla sulla crisi dell’identità, sulla crisi dei “valori”, genericamente contro il razzismo e l’antisemitismo, prescrivendo ricette a-sociologiche e a-politiche a favore di un trattamento psico-sociale di quasi nulla utilità (tranne che per i boss dell’”umanitario” che spesso sfruttano giovani precari malpagati). Da parte degli ideologi del liberismo, abbiamo avuto una produzione letteraria che, da Huntington e Fallaci a Houllebecq, ha sistematicamente rilanciato il sostegno alla guerra permanente/infinita (come diceva esplicitamente G. W. Bush).
È questo l’elemento chiave che marchia in maniera decisiva il frame liberista che s’è riprodotto soprattutto dall’inizio degli anni 1970: la rivoluzione liberista è stata la sovrapposizione di quella finanziaria/economica, di quella tecnologica e di quella politica, passata innanzitutto con la RMA (revolution in military affairs che è anche rivoluzione negli affari di polizia, vedi Alain Joxe). Il liberismo è sostenuto innanzitutto dalla lobby finanziaria-militare-poliziesca che ha assolutamente bisogno della riproduzione permanente delle guerre (unico modo per consumare i suoi prodotti… terribile ironia di questa guerra liberista: Coulibaly ha ucciso 4 persone nel supermercato casher con una mitraglietta israeliana). Questo alimenta il continuum delle guerre permanenti che diventano guerre per la sicurezza urbana, contro le rivolte nelle banlieues, la criminalizzazione razzista di rom e immigrati e persino la persecuzione dei barboni e la reintroduzione delle pene corporali per i minori al primo sospetto di loro devianza.
L’accanimento della carcerizzazione e della penalità e l’escalation delle violenze e torture con la conversione militare-poliziesca anche nelle carceri e il ricorso frequente a criminali e mafie per il lavoro sporco diventa un nuovo potente fattore criminogeno. La stigmatizzazione dei giovani che si sentono rigettati nella marginalità, insultati e senza futuro, spinge alcuni a cercare riconoscimento, gratificazioni o persino gloria nella loro stessa autodistruzione (sacralizzata nei media… lo jihadismo come ogni terrorismo dà l’illusione di un riconoscimento mondiale rispetto alla marginalità sociale e politica).
La “distrazione di massa” e la “distrazione” delle polizie e di parte della magistratura le orienta verso la criminalizzazione razzista (in nome della guerra all’islamismo radicale, all’antisemitismo, alla delinquenza giovanile quasi sempre classificata come manovalanza delle mafie, ai nemici della democrazia). Diventa allora ben prevedibile la deriva terrorista di “schegge impazzite” che trovano rifugio nelle proposte jihadiste o radicali, così come negli esempi di stragismo nichilista o di “umani-bomba”. Un comportamento non nuovo nella storia dell’umanità, cioè tipico di chi non intravede alcuna possibilità di negoziazione pacifica per soddisfare le sue rivendicazioni di miglioramento della propria vita.
È questo che il liberismo è riuscito a realizzare: l’erosione dell’agire politico, l’impotenza dell’azione politica per negoziare col potere. L’asimmetria di potere che s’è sviluppata con il liberismo ha eroso le possibilità di agire collettivo pacifico. Ecco perché il fenomeno del radicalismo islamista, come altri radicalismi o anche l’auto-distruzione e i suicidi “postmoderni”, è un “fatto politico totale”: investe tutti gli aspetti e sfere dell’organizzazione politica della società e degli esseri umani.
Ora, dopo il massacro di Charlie Hébdo, è probabile un nuovo rilancio della guerra permanente a tutti i livelli, subito invocata da alcuni che trovano ampio spazio mediatico. Mentre l’a-sociologia e i benpensanti si contenteranno di provare a suggerire qualche piccolo tampone per limitare il danno.
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Intervista a MIGUEL MELLINO – di ANNA CURCIO (Commonware)
Questa chiacchierata nasce da un disagio, da una condizione di spaesamento di fronte alle analisi che circolano, anche all’interno del movimento, su quanto è successo a Parigi. Concentrare l’attenzione sulla difesa della libertà di espressione o in appelli per porre un freno all’islamofobia mi sembra infatti piuttosto debole, limitante, sicuramente insoddisfacente. Non è però mia intenzione qui produrre una valutazione o un giudizio di valore sui fatti. Semplificando potremmo dire si tratti di un’azione nemica alla costruzione di percorsi di liberazione – in una guerra che non vede nessuno scontro di civiltà, né l’opposizione anti-imperialista a interessi imperialisti, ma piuttosto il fronteggiarsi di differenti forme di oppressione e sfruttamento interne alla stessa civiltà capitalistica. Da questa angolazione, quello che invece ci interessa è soprattutto riflettere sulle genealogie di questa guerra e sulle rimozioni che l’accompagnano. Qual è il tuo punto di vista in proposito?
Sono abbastanza d’accordo. È chiaro che si tratti di uno scontro interno alla civiltà capitalistica. Non è uno scontro di civiltà, le civiltà come entità reificate sappiamo che non esistono, e qui non ci sono due fazioni di cui una è necessariamente più buona dell’altra. Sono entrambe espressione della stessa cosa. Ma credo che bisogna cominciare a ragionare a partire dai fatti. Non sappiamo molto ma possiamo partire da quel poco che sappiamo. E la prima cosa che direi è che chi ha compiuto quest’atto è francese. Persone nate in Francia e cresciute nella banlieue. La prima domanda che ci dobbiamo porre è dunque perché dei ragazzi francesi, nati e cresciuti nella cultura metropolitana delle banlieue parigine, che è uno spaccato importante della cultura meticcia europea, hanno poi sentito il bisogno di andare in Siria per arruolarsi all’interno di un’organizzazione politico militare islamica a lottare contro Assad e poi tornare in Francia a fare quello che hanno fatto. A me pare che sia questa la domanda da cui partire. Cosa sta succedendo? Perché c’è questo bisogno? È inutile fare come tanti in questi giorni che vanno a cercare la risposta ai fatti di Parigi in Medio Oriente o nei paesi islamici. È a partire dall’Europa che bisogna cominciare a porsi la questione. Cosa sta succedendo in Europa? Dobbiamo interrogare seriamente questa Europa. Non è la prima volta che accadono cose di questo tipo. Episodi analoghi si sono verificati anche durante la guerra in Iraq o dopo l’attentato alle torri gemelle. In Inghilterra, per esempio, molti ragazzi che non sono di origine inglese oppure islamici, hanno a un certo punto sentito il bisogno di combattere contro l’Inghilterra e hanno pianificato azioni di diverso tipo. C’è il famoso caso di Richard Reid, inglese di origine caraibica che decise di imbottirsi di tritolo e far saltare un aereo. Alla fine fu scoperto, dato che la sua operazione era grottesca. Ma sicuramente io vedo il ripetersi di una situazione. E la questione su cui ragionare è: cosa succede? Perché nasce questo bisogno? Chiaramente possiamo partire dal fatto che la maggior parte dei soggetti postcoloniali – uso quest’espressione non perché alla moda, ma come definizione di comodo che comprende migranti, postmigranti, insomma soggetti e gruppi che in qualche modo rimandano alle migrazioni e al colonialismo – ha fatto esperienza, sin dal dopoguerra, ma soprattutto negli ultimi 30 anni con lo sviluppo del neoliberismo, di un razzismo che, sul territorio europeo, è diventato ancora più di prima una componente strutturale. E che sembra strutturale, per così dire, alla stessa idea di Repubblica in Francia. Si può dire che Repubblica sia il nome della Whiteness in Francia. E quando dico qui razzismo sto parlando di un regime di sfruttamento materiale. Non sto parlando semplicemente di discriminazioni e pregiudizio, come di solito avviene.
È dunque al razzismo strutturale che segna l’intera storia europea che dobbiamo guardare?
Io partirei senz’altro dal fatto che in Europa, e forse anche all’interno dei movimenti, non c’è una risposta adeguata al problema del razzismo che molti gruppi e soggetti (o comunità) sentono come parte del proprio sfruttamento ed emarginazione. Un razzismo che è davvero integrale, per usare in senso paradossale il linguaggio di Fanon. Chi ha avuto modo di andare a Parigi o a Londra ultimamente sa che è una città militarizzata, dove c’è un controllo e una repressione di tutto ciò che in qualche modo puzza di arabo, di islamico, di nero o diciamo di ciò che un certo discorso coloniale mainstream, fattosi stato e cultura, intende per non europeo. C’è una pressione molto forte da parte di ciò che Althusser chiamava “gli apparati ideologici dello Stato”, in questo caso i soldati e le forze di polizia, su una parte ampia della popolazione che è considerata nemica, se vuoi anche nemica di classe, se pensiamo che il razzismo non fa che produrre nuove forme di classismo. Parigi è una città altamente militarizzata. Ci sono truppe che si aggirano in aeroporto o nelle strade delle banlieue e continuamente fermano per controlli tutti quelli in odore di essere arabo o algerino, una cosa che rimanda a vecchie questioni irrisolte del paese. E che ci ricorda lo stato di eccezione permanente in cui vive una parte della popolazione metropolitana. Ed è abbastanza umiliante semplicemente vedere queste scene in mezzo a gente che si aggira nei templi del consumo, a turisti spensierati o passanti che vanno magari a lavorare o a prendere un caffè. Mi ha fatto molto ricordare quanto accade nelle città dell’America Latina, dove quelli che possiamo chiamare i ragazzi dei “barrios” più poveri e periferici, delle favelas, più scuri della media della popolazione, vengono continuamente assaliti dalle forze dell’ordine. Io cercherei quindi di partire da qui, dal fatto che non abbiamo affrontato bene questa questione. Nella nostra agenda politica e teorica, nell’agenda dei movimenti o di chi è impegnato in un certo tipo di lotte in Europa, razzismo e anti-razzismo occupano davvero un posto di rilevo? Abbiamo detto qualcosa su tutto questo che sia stato pregnante? Eppure a Londra, tre anni fa ci sono stati dei riot non indifferenti, a Parigi era già successo e sarebbe successo ancora successivamente. Pensiamo anche a quanto è successo di recente a Stoccolma e ad altre situazione di questo genere. Chiaramente la questione del razzismo che segna a livello materiale e simbolico lo spazio metropolitano europeo ha anche a che fare con una sorta di rimosso coloniale, con il fatto che in Europa non si è mai fatto realmente i conti con il colonialismo, inteso come qualcosa di costitutivo della storia e del capitalismo europeo, e che questo oggi ci ritorna in forma grottesca, mostruosa.
Direi che è soprattutto la reazione che episodi come questo suscitano a mostrarci in modo netto l’esistenza di un rimosso. Come dicevi, i lasciti dell’esperienza coloniale e il ruolo del razzismo nella organizzazione e riorganizzazione delle relazioni sociali e produttive, nelle colonie prima e in Europa dopo, fino a oggi, sono tutte cose che non possiamo fare a meno di considerare, ma non sempre assurgono a livello di priorità nelle analisi. Spesso, quando si affronta il tema del colonialismo e dei suoi lasciti, e si parla di un rimosso coloniale in Europa, si rimane sul piano del richiamo astratto senza andare al cuore del problema, quello del razzismo e dello sfruttamento che segnano l’intera narrazione europea. E così si finisce, come dicevi, a non essere neanche in grado di porsi le giuste domande ..
Parlare di rimosso coloniale non vuol dire semplicemente che non si è più parlato o non si è parlato abbastanza di colonialismo, o che non si sono espiate le colpe. Rimosso coloniale qui significa non aver fatto i conti con l’eredità materiale e simbolica del colonialismo come elementi costitutivi dell’attuale spazio materiale europeo, con un fenomeno come la gerarchizzazione della cittadinanza, che prevede quello che è stato chiamato, anche nelle sfere di movimento, un’inclusione differenziale dei diversi soggetti, e che con lo sviluppo del neoliberismo ha assunto una modalità più dura e selvaggia. È a questo che ci riferiamo quando parliamo del rimosso del colonialismo e del razzismo. Non semplicemente del fatto che l’Europa deve fare un mea culpa su qualcosa che appartiene al passato. L’eredità coloniale impregna l’attuale costituzione materiale europea, così come il suo ordine discorsivo, e di cui le modalità di governo delle migrazioni ne sono uno dei suoi principali sintomi. Colonialismo e razzismo restano un’attualità. Capitalismo, razzismo e colonialismo si sono storicamente intrecciati in modo piuttosto profondo, generando effetti terribili su buona parte delle popolazioni del mondo. Si tratta di un sistema che crea effetti differenziati, che non ricade su tutti allo stesso modo, visto che si fonda sulla distribuzione gerarchica di diritti di accesso e di privilegi, e che finisce per agire su uno spazio sociale già di per sé eterogeneo, e percorso dalle differenze, anche rivendicate. Una cosa che poi pone ulteriori problemi a tutto il processo di frammentazione che si è determinato negli ultimi 20 anni con la neoliberalizzazione e finaziarizzaizone del capitale. È con questo che dobbiamo fare i conti, si è molto parlato di frammentazione e di scomposizione gerarchica del lavoro come dispositivo centrale della catena di comando dell’attuale capitale globale, meno si è parlato di come il razzismo abbia un ruolo centrale e primario nella costruzione di questo ordine. A me sembra che su questo, sul ruolo del razzismo nella gerarchizzazione e frammentazione della società, si è ragionato poco. Ed è forse per questo che non si riesce a parlare a una parte della popolazione europea che è oggi potenzialmente uno dei soggetti politici più interessanti e antagonisti. Nel senso che forse non riusciamo a raggiungere, o non sempre raggiungiamo chi vive nelle banlieue, le comunità postmigranti, ecc. Non voglio estremizzare, ci sono ovviamente anche movimenti metropolitani meticci. Ci sono senz’altro stati esempi di dialogo in questo senso, però mi pare che resta il problema della mancanza di un’effettiva considerazione della questione del razzismo/anti-razzismo e del colonialismo nella nostra comprensione del presente, per elaborare una risposta politica più efficace alla frammentazione sociale. La famosa insurrezione delle banlieue nel 2005 è sicuramente un esempio di rovesciamento di questo dispositivo razzista. Ha visto una composizione che con un termine buonista possiamo definire multicolore, nel senso che non c’erano solo ragazzi di origine araba ma anche francesi francesi, come d’altronde è successo nei riot di Londra del 2011. A mettere a ferro e fuoco le città non c’erano solo soggetti postcoloniali, nel senso in cui lo abbiamo definito prima, ma anche molti settori di quello che possiamo chiamare un proletariato autoctono che, come conseguenza di una neoliberalizzazione spinta, è stato inghiottito da questa progressiva razzializzazione della società. Un processo di impoverimento e marginalizzazione che finisce per inghiottire anche soggetti che non sono neri, arabi o coloniali. Non è mai una questione di separazione totale come il pensiero radicale afroamericano ha saputo ben evidenziare, siamo tutti un po’ parte di questi processi.
L’altro tema che vorrei toccare ha a che fare con la libertà di espressione, perno storico del discorso liberale. Sarebbe ora di rimetterla a critica. Come si può immaginare la libertà di espressione legata agli individui e non alle dimensioni collettive, cioè alla libertà per chi e per che cosa? La libertà di espressione è sempre legata alle norme e ai rapporti di forza esistenti in una società. Cosa ne pensi?
Trovo davvero molto ridicolo tutto quello che sta avvenendo, soprattutto perché avviene anche all’interno di certe aree di movimento. Come se i discorsi fatti negli ultimi 20 o 30 anni non fossero serviti a niente. Di cosa parlava Foucault quando parlava di ordine del discorso? Per dirlo in modo ironico, se vogliamo misurare il grado di libertà delle società europee dobbiamo partire dal grado di dicibilità delle cose, da ciò che si può dire e ciò che resta al di fuori delle regole che organizzano il campo del discorso. L’effetto più chiaro è quello a cui assistiamo in questi giorni visto che per poter dire qualcosa in merito a quello che è successo a Parigi dobbiamo sempre cominciare con una premessa e delle giustificazioni: “siamo contrari a quanto è successo, è un omicidio barbaro, etc” e poi possiamo finalmente cominciare a parlare. Questo ti dà l’idea che c’è una pressione molto forte, data proprio dall’ordine del discorso, che porta poi a rifugiarsi dietro la libertà d’espressione. A mio modo di vedere lo slogan Je Suis Charlie equivale a dire “je suis l’occidente”. Non voglio demonizzare nessuno, ma sicuramente quello che leggo in questa espressione è soprattutto: io sono l’occidente. Io sono i diritti, io sono la libertà delle donne, la libertà di stampa. Io sono tante cose e noi siamo assediati dai barbari.
Una pretesa di universalismo…
Un falso universalismo. È piuttosto l’Europa che da diversi secoli sta portando la barbarie in tutto il mondo, e che si è costruita e si sta costruendo sulla barbarie. E quando tu porti la barbarie non ti puoi all’improvviso professare immune da queste cose. Primo o poi ne sentirai gli effetti, anche a casa. Come dicevamo prima, quello che si può dire su questo tipo di organizzazioni politico-militare che è alla base di quanto è successo a Parigi è che sono proprio una ritorsione alla Frankenstein, il mostro che ti si ritorce contro. E l’esempio della Siria è molto chiaro. Lì alcune persone, anche nate in Francia o in Europa, sono state addestrate dall’occidente, dagli Usa e dalla Cia in primo luogo, per combattere Assad. Sono stati usati anche in altri paesi, come Iraq, Libia, Etiopia, ecc. sotto la maschera di rivoluzione colorate. Poi il mostro è divenuto autonomo. Qualcosa del genere, anche se ricorrendo ad altri attori sociali, è successo in Ucraina. Per tornare al nostro discorso, oggi, non possiamo fare a meno di considerare che gran parte della popolazione del mondo arabo-islamico si sente in guerra, perché sopporta aggressioni di ogni tipo da diverso tempo, sente che insieme alle elite degli Usa e dell’Europa c’è un’altra parte società che gli ha dichiarato guerra per la difesa degli interessi capitalistici. E libertà di espressione, all’interno di questo campo, non è qualcosa di asettico, vuol dire fare che qualunque cosa fai o dici ti stai schierando, stai facendo una scelta di parte. E così vieni percepito. Vuol dire schierarsi e le conseguenze sono inevitabili. Forse dal centro di Parigi è difficile sentire che buona parte del mondo è in guerra, e vive la guerra con i suoi schieramenti, come modo di vita quotidiano. Salvaguardando le distanze, come se durante la guerra d’Algeria un giornale satirico avesse fatto satira dei costumi del sottoproletariato algerino, come poteva essere percepito dagli algerini in lotta? La satira dovrebbe essere critica del potere.
Per chiudere, riprendendo quanto detto, vorrei sottolineare la centralità della lotta al razzismo che, soprattutto in questa fase di crisi del neoliberismo appare come sempre più urgente – anche i fatti americani degli ultimi mesi con le uccisioni di giovani neri disarmati da parte della polizia ci parlano di questo – ma come dicevi non è questa una pratica consolidata, almeno in Europa. Da dove credi possiamo partire?
Il neoliberismo è un sistema di dominio che si fonda proprio su una concezione razzista dell’umanità. Mentre guardavo quello che stava succedendo a Parigi mi è tornata in mente la biografia di Malcolm X, quando si racconta della conversione all’islam nelle carceri americane, che è stata una fase di passaggio che lo ha poi portato a una concezione meno nazionalista e più internazionalista. Si racconta di come l’islam funzionasse come rimedio a una violenza razzista sentita quotidianamente che nega, esclude ed emargina, non ti considera e fa di te qualcosa da cui si può prescindere in qualunque momento. Quindi io direi che è interessante rileggere la letteratura prodotta dal movimento afroamericano negli anni Sessanta perché penso che oggi l’Europa sia dentro una logica di questo tipo – ammesso che sia possibile fare delle analogie tra l’America di allora e l’Europa di oggi. È chiaro che da quando in Europa c’è stata una eterogeneizzazione della popolazione, come effetto della presa di parola di chi è venuto qui, ed è proprio con essa che ha cominciato a manifestarsi dentro lo stesso territorio europeo quella sindrome d’insicurezza e la connessa aggressione razzista che il colonialismo portava con sé. La sindrome dell’enclave, della razza bianca assediata che deve difendersi da poveri e barbari, sembra essere una parte dell’attuale dispositivo securitario. Per me il punto di partenza resta il mettere la questione dell’anti-razzismo come priorità nell’agenda politica e teorica dei movimenti. Cominciare a riflettere seriamente sulla questione e non utilizzarla come semplice aggregato di altre cose. Non basta più aggiungere la lotta anti-razzista ad altre lotte. È da qui che dobbiamo ripartire se non vogliamo restare chiusi e impotenti tra la distruzione sociale seminata dal modello neoliberista dell’attuale UE e le chiusure identitarie e neofasciste che essa stessa produce e alimenta, come necessario altro speculare.
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Mi dispiace, ma io non sono Charlie!
Quello che è accaduto ad una dozzina di persone, essere scannate per una questione di vignette, è un abominio. Non solo per la questione in sé, e basterebbe, di fare una strage per problemi con il senso dell’ironia. Ma anche perché, in questo modo, si ribadisce un potere terribile, quello dell’autorità mortifera della religione sui comportamenti difformi dalla dottrina, che in Europa era superato da secoli. E si tratta di un potere che è una peste che deve essere combattuta, mentre i suoi focolai vanno isolati, pena il ritorno di nuove e vecchie discriminazioni religiose con contorno allucinatorio fatto di miserie e di stragi.
Per questo motivo l’orrore proveniente dalla regione parigina, la strage dell’XI arrondissement, non può che essere fatto proprio. Non può che essere metabolizzato per essere evitato. Specie nel nostro paese, dove la tensione sociale latente non può certo finire nel dramma di conflitti religiosi futuri, magari alimentati dalla fiamma di una crisi di modello economico destinata a durare. Quella sensazione di gelo che ha invaso la Francia, oltre il lutto e la protesta popolare, che si insinua nella domanda su dove stia andando la propria società, deve essere fatta anche nostra. Guardando alle nostre numerose diseguaglianze sociali per fare in modo che non diventino il contesto di una serie, grottescamente distesa nel tempo, di massacri. O di una società tecnologicamente occhiuta, militarizzata, piena di leggi speciali e di invasione della più elementare privacy in nome della “lotta al fondamentalismo”. Detto questo, ribadita la consapevole assunzione conoscitiva ed etica della tragedia parigina, si tratta anche di evitare gli errori. Parlandone, è il caso di rispolverare questa espressione, con laicità. Con quello spirito di serenità, tipico della migliore cultura laica, che emerge proprio nei momenti difficili, controversi e drammatici.
La vicenda Charlie Hebdo, finita purtroppo in un lago di sangue, è anche frutto di una serie di errori non solo redazionali ma anche di una parte della società francese. Quella che finisce, anche senza volerlo, per sovrapporre i diritti dell’uomo, e la conseguente libertà di opinione, allo scontro tra civiltà. Proprio come volevano gli apprendisti stregoni neocon di Bush. Quelli che volevano legittimare la rapina delle risorse e delle materie prime dei paesi non occidentali come uno scontro della libertà contro la barbarie. E infatti la vicenda parigina si legge così: la libertà, di espressione, contro la barbarie islamista. E, senza fare la minima concessione ai macellai di Charlie Hebdo, deve essere chiara una cosa: tutte le volte che si legittima lo schema libertà occidentale contro barbarie islamista si legittimano nuove guerre e si producono nuovi, drammatici conflitti interni. Per questo parliamo di errori della società francese.
Charlie Hebdo produceva da anni vignette contro Maometto. Come satira sui morti alle manifestazioni di protesta contro i film ritenuti blasfemi dal radicalismo islamico. Era così necessario provocare? In modo così insistito, reiterato, continuo? Si parla, non a torto, di libertà di espressione. Ma è stata usata in modo intelligente? Non dimentichiamo che un vignettista del Charlie Hebdo, Maurice Sinet, era stato licenziato nel 2008 dall’allora direttore del settimanale, Philippe Val, perché accusato di antisemitismo. Se possiamo comprendere che un direttore di un settimanale satirico licenzi qualcuno sospettato di antisemitismo, giustamente e per non essere paragonato ai periodici nazisti e antisemiti degli anni ’30, non si capisce perché questa sensibilità sia scomparsa quando si è parlato, e a lungo, dell’Islam. Licenziare un redattore sospettato di antisemitismo e pubblicare vignette con un musulmano rivolto alla Mecca, senza mutande e con una stella visibilmente piantata nel retto, è espressione di equilibrio culturale in una società come quella francese? È forse ironia contro il potere?
Questo nel momento in cui, come è accaduto in Francia, un comico come Dieudonné ha visto, a nostro avviso giustamente, bloccati i propri spettacoli a causa di contenuti antisemiti. La satira toglie l’aura sacrale al potere per rendercelo ridicolo, profano e quindi, in fondo, fenomeno umano tra gli umani. Ma il rapporto tra satira e libertà, quello da difendere, è nei confronti della critica al potere. La Francia ha milioni di persone la cui maggioranza, giova dirlo, fa parte della classi subalterne ed è di religione musulmana. Non va aggiunto a un dramma, ovvero che milioni di subalterni invece di una identità di classe ne hanno una religiosa, la beffa di trattarli pubblicamente come imbecilli per un paio di lustri. Questo tanto più in una società dove, altrettanto giustamente e a tutela dei diritti e della dignità delle donne, il velo integrale è proibito. Si tratta però di avere un equilibrio complessivo nei confronti di milioni di cittadini francesi: non è possibile proibire e allo stesso tempo anche deridere. Nessuno dovrebbe permettersi di dettare legge, nemmeno la legge, figuriamoci i singoli o i gruppi religiosi, sulla libertà di opinione. Ma questo aumenta la responsabilità di chi usa la libertà di opinione. Verso i quali, se la esercitano in modo irresponsabile, va esercitata la pressione della critica. Questo per non trovarsi in Italia un prossimo domani con i Borghezio e i Salvini che fanno a gara di “libertà” per provocare questo o quel gruppo sociale in attesa della riscossione, in termini elettorali, delle loro provocazioni. Per non aggiungere quindi ulteriori errori a possibili nuovi orrori: non siamo tutti Charlie Hebdo. Proprio perché consapevoli che Parigi si è trasformata in un mattatoio, ma per non alimentare lo scontro di civiltà, per non ritrovarsi in una società ancor più securitaria, militarizzata e ossessiva che “deve” tutelarti dai “radicalismi religiosi”. Ovvero per coniugare il grande business della sicurezza con la negazione, materiale e formale, dei diritti elementari in nome dell’emergenza. Viviamo in società dove gli aggregati sociali tendono a non esprimersi in termini di classi ma entro relazioni balcanizzate: gruppi regionali, etnici, identitari, autoreferenziali, religiosi.
È questa tendenza che, in occidente come a Singapore, oltretutto favorisce il turbocapitalismo. Ed è una tendenza che va frenata e invertita. Per non aggiungere nuovi errori, e poi nuovi orrori, all’orrore parigino di questo gennaio 2015.
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Pagherete caro, pagherete tutto, pagherete tutti. Ovvero: perché, in memoria di Wolinski, non sto con Charlie Hebdo
Posso dire di aver avuto, nella vita, la sorte e il privilegio di essere riuscito ad avere a che fare con Wolinski. Ed è accaduto grazie alle pagine di «Blue», dove io ero un giovane redattore, lui un mostro sacro che intrecciava a doppio filo la storia della satira italiana dei Pazienza, dei Tamburini (e parlo solo dei morti, visto che di morte parla questo pezzo), de «Il Male» e dell’ambiente autonomo e irriverente della Bologna del ’77 con la nuova tradizione francese del fumetto, quella nata dalla furia del Maggio e che, con Wolinski, stampava giornali che si definivano «cubi di porfido da lanciare contro il potere».
Quando, oggi pomeriggio, un mio vecchio collega mi ha chiamato per dirmi «hanno ammazzato Wolinski» non sapevo ancora nulla di quanto era successo a Parigi. Allora sono restato in silenzio, sconvolto. E poi ho aggiunto: «Chiunque sia stato ora è un mio nemico».
Volevo intendere, dicendo questo, che da ateo quale sono non ho nessuna predisposizione verso la retorica del pentimento o del perdono ma, al contrario, apprezzo il piatto freddo della vendetta, sul genere immortalato da slogan del tipo «pagherete caro, pagherete tutto». Ed ora sono proprio slogan di questo genere che vorrei usare per onorare la memoria del Maestro. Un bel «pagherete caro, pagherete tutto» e… pagherete tutti. Sì. Perché confesso di non aver seguito e di conoscere poco le polemiche sui presunti contenuti islamofobici di «Charlie Hebdo», ma riesco benissimo a vedere la strumentalizzazione, questa sì islamofoba e assolutamente antilibertaria, che personaggi più pericolosi di qualunque estremista islamico stanno facendo della tragedia parigina. Partiamo, per esempio, da Ferruccio de Bortoli che, da «CorriereTV», erre moscia in testa e frangetta sempre fresca di parrucchiere calcata sulla fronte, si è immediatamente fatto alfiere della «civiltà occidentale» e della «libertà di espressione», auspicando immediatamente l’innalzamento dei «livelli di guardia» e la tolleranza zero contro le «zone grigie», concludendo il sermone con il grido «siamo tutti Charlie Hebdo» prima di annunciare la pubblicazione sul suo giornale delle vignette satiriche del settimanale francese.
Ecco, ovunque sia de Bortoli, io non vorrei mai essere, e quindi ora non voglio stare neppure con Charlie Hebdo né con il relativo hashtag che sta impazzando sui social. Anzi, mi dispiace di non saper disegnare, altrimenti approfitterai immediatamente dell’illuminismo di de Bortoli in tema di libertà di espressione per raffigurarlo con il naso e la lingua ben piantata nel culo dell’Agnelli di turno, ricordando che dove c’è oppressione padronale e monopolio del grande capitale sui mezzi di informazione non può esserci nessuna libertà di espressione, altro che le vignette di Charlie Hebdo.
Un altro luogo dove non vorrei mai essere è qualunque luogo in cui si trovi il nostro presidente del consiglio, l’uomo mai votato da nessuno (ok, io comunque non ho proprio votato) Matteo Renzi. Anche lui si è affrettato a sottolineare la sua vicinanza al settimanale in cui lavorava Wolinski, specificando – magari prima di prendere un Falcon per andare a farsi fare un pedicure a Montecarlo – che «l’Europa ha il dovere di reagire». Certo, lui di «reazione» se ne intende: il massacratore sociale per eccellenza, l’uomo dello smantellamento dei diritti dei lavoratori, il servo dei palazzinari e dei banchieri, l’artefice degli sgomberi e degli sfratti generalizzati, il generale della guerra contro i poveri che stiamo subendo da troppo tempo… più reazione di così? Neanche al congresso di Vienna!
Ora, lontano da ogni ipocrisia, e rendendo rispettoso omaggio alla vena dissacrante del grande Wolinski, vorrei affermare tranquillamente che se a Renzi prendesse un colpo secco adesso (e attenzione, parlo di malattie assolutamente naturali: se ne va tanta gente brava, perché lui sta ancora qui?!?), ebbene sarei affranto davvero per il fatto di non saper disegnare, altrimenti farei un bellissimo ritratto di me stesso mentre piscio sulla sua tomba.
Qualora dovesse succedere, comunque, qualcuno può venire a farmi una fotografia.
Poi la mandiamo a de Bortoli e gli diciamo: «È la libertà d’espressione bellezza!».
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Io non mi dissocio
Risposta di Karim Metref (di cui abbiamo anche pubblicato il testo tratto dal blog Divaga-azioni più in alto) a questo articolo di Igiaba Scego pubblicato su Internazionale.
Cara Igiaba,
in questi giorni saremo messi sotto torchio e le prossime campagne elettorali saranno fatte sulla nostra schiena. Gli xenofobi di tutta Europa vanno in brodo di giuggiole per la gioia e anche gli establishment europei che non hanno risposte da dare per la crisi saranno contenti di resuscitare il vecchio spauracchio per far rientrare le pecore spaventate nel recinto.
Da ogni parte ci viene chiesto di dissociarci, di scrivere che noi stiamo con Charlie, di condannare, di provare che siamo bravi immigrati, ben integrati, degni di vivere su questa terra di pace e di libertà.
Ebbene, anche se ovviamente condanno questo atto come condanno ogni violenza, non mi dissocio da niente. Non sono integrato e non chiedo scusa a nessuno. Io non ho ucciso nessuno e non c’entro niente con questa gente. Altrettanto non possono dire quelli che domani dichiareranno guerra a qualcuno in nome di questo crimine.
Tu dici: “Oggi mi hanno dichiarato guerra. Decimando militarmente la redazione del giornale satirico Charlie Hebdo mi hanno dichiarato guerra. Hanno usato il nome di dio e del profeta per giustificare l’ingiustificabile. Da afroeuropea e da musulmana io non ci sto”.
Io con questa gente sono in guerra da trent’anni. Li affrontavo con i pugni all’epoca dell’università e con le parole e con le azioni da allora e fino a oggi. Sono trent’anni che li combatto e sono trent’anni che il sistema della Nato e i suoi alleati li sostengono regolarmente ogni dieci anni per fomentare una guerra di qua o di là.
Anche io sono afroeuropeo, sono originario di un paese a maggioranza musulmana ma non mi considero un musulmano: non sono praticante, non sono credente. Ma anche io non ci sto. Non ci sto con questi folli, non ci sto quando lo fanno a Parigi ma non ci sto nemmeno quando lo fanno a Tripoli, Malula o a Qaraqush.
Non sto con loro e non sto con chi li arma un giorno e poi li bombarda il giorno dopo. Non ci sto in questa storia nel suo insieme e non solo quando colpisce il cuore di questa Europa costruita su “valori di convivenza e pace”. Perché dico che questa Europa deve essere costruita su valori di pace e convivenza anche altrove, non solo internamente (ammesso che internamente lo sia).
Tu dici che questo non è islam. Io dico che anche questo è islam. L’islam è di tutti. Buoni o cattivi che siano. E come succede con ogni religione ognuno ne fa un po’ quello che vuole. La adatta alle proprie convinzioni, paure, speranze e interessi. Nelle prossime ore, i comunicati di moschee e centri islamici arriveranno in massa, non ti preoccupare. Tutti (o quasi) giustamente si dissoceranno da questo atto criminale. Qualche altro Abu Omar sparirà dalla circolazione per non creare imbarazzo a nessuno. La Lega e altri avvoltoi si ciberanno di questa storia per mesi, forse per anni. E noi ci faremo di nuovo piccoli piccoli, in attesa della fine della tempesta. Come stiamo facendo dopo questi attentati (forse) commessi da quella stessa rete che la Nato aveva creato per combattere una sua sporca guerra.
Loro creano mostri e poi, quando gli si rivoltano contro, noi dobbiamo chiedere scusa, dissociarci e farci piccoli. A me questo giochino non interessa più. Non chiedo scusa a nessuno e non mi dissocio da niente. Io devo pretendere delle scuse. Io devo chiedere a questi signori di dissociarsi, definitivamente, non ad alternanza, da questa gente: amici in Afghanistan e poi nemici, amici in Algeria e poi nemici, amici in Libia e poi… non ancora nemici lì ma nemici nel vicino Mali, amici in Siria poi ora metà amici e metà nemici… Io non ho più pazienza per questi macabri giochini. Mando allo stesso inferno sia questi mostri sia gli stregoni della Nato e dei paesi del Golfo che li hanno creati e li tengono in vita da decenni. Mando tutti all’inferno e vado a farmi una passeggiata in questa notte invernale che sa di primavera… Speriamo non araba.
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