Di Tariq Alì c’è sempre piaciuta la presa di posizione schietta e fuori dal coro. Di questo suo nuovo contributo (pubblicato oggi sul
Manifesto )
ci piace sottolineare la lucidità con cui contraddice tante interpretazioni orientaliste oggi à la page (in particolare sul “1989 arabo”) con cui i media filo-White House cercano di malinterpretare le riuvolte maghrebine. Sottolineiamo in neretto i concetti essenziali espressi dall’editorialista della New Left Review. Vedere in particolare la chiosa finale, salutare antidoto a tante recenti ubriacature “democratiche” di casa nostra.
Non può più restare, perché i militari hanno dichiarato che non apriranno il fuoco sul loro stesso popolo e questo esclude l’opzione Tian an men. Se i generali (che finora hanno sostenuto il regime) si rimangiassero la parola, spaccherebbero l’esercito aprendo la prospettiva di una guerra civile. Nessuno la vuole, al momento, nemmeno gli israeliani i quali vorrebbero che i loro amici americani sostenessero il loro uomo al Cairo più a lungo che si può. Ma anche questo è impossibile. Mubarak se ne andrà questo weekend o il prossimo? Washington vuole una «transizione ordinata» ma le mani di Suleiman lo Spettro (o Sceicco Al-Torture, come lo chiamano alcune delle sue vittime), il vicepresidente che Mubarak è stato forzato ad accettare, anch’esse sono macchiate di sangue. Sostituire un torturatore corrotto con un altro non è più accettabile, le masse egiziane vogliono un totale cambio di regime, non un’operazione stile Pakistan in cui un imbroglione civile sostituisce un dittatore militare e nulla cambia.
Il virus tunisino si è diffuso molto più rapidamente di quanto chiunque immaginava. Dopo un lungo sonno indotto dalle sconfitte – militari, politiche, morali – la nazione araba si sta risvegliando. La Tunisia ha impattato immediatamente sulla vicina Algeria, quel sentimento ha valicato i confini della Giordania e ha raggiunto il Cairo in una settimana. Ciò di cui siamo testimoni è un’ondata di rivolta nazional-democratica, che ricorda più le ribellioni che nel 1848 investirono l’Europa – contro lo Zar, l’Imperatore e chiunque collaborasse con loro – e annunciarono le turbolenze successive. Questo è il 1848 arabo. Oggi lo zar-imperatore è il presidente della Casa Bianca. Questo è ciò che differenzia queste proto-rivoluzioni dall’affare del 1989: questo e il fatto che, con poche eccezioni, le masse non si sono mobilitate allo stesso modo. Gli europei dell’est si sdraiarono davanti all’Occidente, immaginando in questo un futuro felice e cantando «prendeteci, prendeteci, adesso siamo vostri».
Le masse arabe vogliono sciogliersi da questo sgradevole abbraccio. Stati Uniti e Unione europea hanno supportato le dittature di cui stanno cercando di liberarsi. Queste sono rivolte contro l’universo della miseria permanente, contro un’élite accecata dal suo stesso benessere, dalla corruzione, dalla disoccupazione di massa, dalla tortura, dal giogo dell’Occidente. La riscoperta di una solidarietà araba contro queste repellenti dittature e chi le sostiene è un punto di svolta in Medio Oriente. Si rinnova la memoria storica di una nazione araba che fu brutalmente distrutta subito dopo la guerra del 1967. Il contrasto in termini di leadership non potrebbe essere più evidente. Nonostante le sue debolezze e i suoi molti errori, Gamal Abdel Nasser vide la sconfitta del 1967 come qualcosa di cui doveva accettare la responsabilità. Si dimise. Oltre un milione di egiziani si riversarono nel cuore del Cairo per scongiurarlo di restare al potere. E gli fecero cambiare idea. Morì in carica pochi anni più tardi, piegato e senza soldi. Il suo successore cedette il paese a Washington e a Tel Aviv per un piatto di lenticchie.
Gli eventi dell’ultimo mese segnano il primo vero revival del mondo arabo dalla sconfitta del 1967. Le banderuole eternamente all’erta per non capitare mai dalla parte sbagliata della storia, e di conseguenza evitare di sperimentare la sconfitta, sono state colte di sorpresa dalle rivolte. Hanno dimenticato che rivolte e rivoluzioni, modellate dalle circostanze esistenti, accadono quando le masse, le folle, le cittadinanze – chiamatele come volete – decidono che la vita è insopportabile e che non saranno soffocate oltre. Per loro un’infanzia miserabile o un’ingiustizia sono fenomeni naturali come un calcio in faccia per la strada o un brutale interrogatorio dentro una prigione. Ne hanno fatto esperienza, ma se le condizioni continuano ad essere le stesse, diventati adulti si affievolisce in loro la paura di morire. Quando si è raggiunto questo livello, una sola scintilla basta a incendiare l’intera prateria. In questo caso letteralmente, come dimostra la tragedia del piccolo negoziante che si è dato fuoco a Tunisi.
Siamo all’inizio del cambiamento. Le masse arabe non sono state annientate con la forza, questa volta, e non soccomberanno. Cosa offrirà a questa gente chi rimpiazzerà i despoti a Tunisi e al Cairo? La democrazia, da sola, non può nutrirli e dar loro un lavoro…
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