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Tempo delle elezioni e tempo della rivolta.

Considerazioni a partire da alcune giornate di mobilitazione in Francia.

Alla luce di alcuni momenti di mobilitazione degli ultimi giorni a cui abbiamo avuto occasione di partecipare, raccogliendo testimonianze e punti di vista, proviamo a tratteggiare qualche considerazione sull’attuale situazione in Francia.

Il contesto francese è stato fortemente marcato dalla campagna elettorale per le elezioni legislative seguite allo scioglimento delle camere da parte di Macron: si ha la netta percezione che a queste elezioni venga attribuito da parte di tutta la società un significato particolare e di rottura, percezione confermata dall’altissima partecipazione al voto di domenica che ha sfiorato i livelli di quella del 1981.

In questo clima, il 28 giugno a Parigi si è tenuta una massiccia assemblea dei collettivi di lotta con l’obiettivo di preparare un piano di lavoro capace di far fronte a quello che si prevede, probabilmente a ragione, essere il futuro governo francese: un governo di estrema destra a guida Bardella e Rassemblement National, con Macron presidente della Repubblica. Il 29 giugno, a Nanterre, nella periferia di Parigi, si è invece tenuta la marcia in ricordo di Nahel Merzouk: la sua uccisione un anno fa da parte di un agente di polizia aveva scatenato due settimane di rivolte che avevano messo a ferro e fuoco la Francia ed in seria difficoltà il piano istituzionale. 

Mentre scriviamo si è delineato il quadro dei risultati del primo turno delle elezioni legislative “straordinarie”: con una partecipazione al voto del 70%, oltre il 20% in più delle ultime (2022), si confermano le previsioni che vedevano il Rassemblement National in testa con oltre il 30% dei voti ed il Nuovo Fronte Popolare in seconda posizione con il 28-29%, mentre l’arco politico liberale fedele a Macron scende al 20%. La dirigenza del NFP ha già annunciato che al secondo turno, previsto il 7 luglio, ritirerà le proprie candidature laddove esse siano arrivate seconde sia all’RN che ai Repubblicani, concentrando i propri voti sui candidati macronisti pur di fare blocco contro l’avanzata dell’estrema destra.

Sin dallo scioglimento dell’Assemblea Nazionale, la quasi totalità dei collettivi autonomi e di lotta hanno scelto di sostenere il Nuovo Fronte Popolare (NFP). Nella congiuntura che si è aperta con la crisi di governo, i movimenti antirazzisti e gran parte dei collettivi dei quartieri popolari – che hanno portato avanti alcune delle lotte più avanzate e dirompenti degli ultimi anni all’interno delle banlieues e delle metropoli francesi e che hanno espresso posizioni politiche di sostegno e rappresentazione, anche se non di organizzazione diretta, alle rivolte del 2023 – hanno anch’essi chiamato al sostegno per il Fronte Popolare. Molte delle posizioni prese dalla France Insoumise (la forza principale dell’NFP)sono infatti rivendicazioni storiche di questi collettivi: il disarmo della polizia, lo scioglimento delle squadre speciali come la BRAV e la BAC, la difesa e l’ampliamento dei diritti dei migranti e degli immigrati irregolari e una presa di posizione chiara (e particolarmente scomoda per una forza elettoralista nel panorama repubblicano francese) contro l’islamofobia. Intorno al sostegno al NFP si sono andati quindi allineando gran parte dei movimenti sociali più attivi e strutturati nella République.

Ci sono tuttavia alcuni elementi significativi che ci sembra di poter riconoscere e che continuano a segnare uno spartiacque, in termini di analisi e di percezione dei fenomeni, tra chi pratica il terreno della lotta, attraverso forme di organizzazione proprie e specifiche all’interno dei quartieri popolari dove vive la maggior parte delle persone razzializzate e chi invece proviene dalla tradizione dei movimenti di lotta “della metropoli”,  che pur avendo visto negli ultimi 10 anni una composizione di classe differenziata, sono per la maggior parte portati avanti da persone bianche.

Da questi ultimi, infatti, il sostegno al NFP viene interpretato nei termini di una necessità contingente che vede una forma di ricomposizione del politico su un piano di carattere emergenziale, legato a doppio filo ad una narrazione di segno quasi apocalittico che descrive la possibile (e probabile) vittoria dell’RN come l’avvento del fascismo tout court. Si tratta di un punto di vista che va al di là delle cerchie più strettamente militanti e viene sostenuto anche da una parte di popolazione apparentemente disinteressata alle elezioni fino al giorno prima. Chiunque sia passato da Parigi in questi giorni avrà colto le esortazioni a votare FP nei posti più impensabili – nei negozi, per strada, al supermercato – e chi ci vive stabilmente conferma la presenza di un certo fervore elettorale nei propri posti di lavoro. Da questo punto di vista, ovvero quello che misura la buona riuscita di una proposta politica se non dai risultati perlomeno dal consenso che riesce ad ottenere, la scelta del Fronte Popolare di impostare la propria campagna elettorale sulla necessità di “fare blocco contro il fascismo” piuttosto che su concrete rivendicazioni programmatiche è stata significativa, avendo colto appieno le conseguenze sul piano simbolico che la scelta di Macron di sciogliere l’Assemblea Nazionale ha attivato agli occhi di una popolazione ormai consapevole di come nella democraticissima repubblica le leggi passino a suon di decreti emergenziali e operazioni repressive.

Considerare l’”urgenza politica” come consustanziale al piano evenemenziale che i tempi istituzionali sembrano dettare non significa però sottostimare il portato politico e le conseguenze di una vittoria del RN e del blocco di estrema destra. È impossibile ignorare il massiccio aumento di aggressioni fasciste avvenute negli ultimi mesi e nelle ultime settimane ai danni di compagni e compagne, concerti, luoghi di aggregazione e di organizzazione dei movimenti sociali, e ovviamente contro le iniziative in solidarietà alla Palestina. È un quadro effettivamente che vede incrementare la linea del conflitto urbano e sostanzia l’idea che la minaccia di un “fronte fascista” che si muove in maniera coordinata tra il piano istituzionale e la sua base sia reale. Quale sia la sua effettualità e come ci si possa organizzare nell’immediato futuro per farvi fronte è stato il principale argomento di discussione dell’assemblea che menzionavamo poc’anzi, tenutasi nel’XI arrondissement a due giorni dalle elezioni.

La sensazione che emergeva da quel contesto era che, per la prima volta, gran parte dei movimenti di lotta metropolitani sentissero molto concreto il rischio connesso ad uno stato di guerra civile, ovvero di uno scontro sociale in seno alla società dispiegato in maniera quasi-permanente, e nel quale una delle due forze in campo esiste, ma non è sufficientemente organizzata, mentre l’altra, quella fascista, avrà dalla sua parte il governo e vedrà la polizia come suo principale alleato. Diciamo per la prima volta, perché ci sembra che il punto stia tutto qui: nella percezione inedita del rischio di venire “espulsi” dal quadro di un ordine politico di cui si può scegliere di fare parte, sebbene  in maniera più o meno critica o totale – in quanto bianchi, in quanto cittadini francesi ed anche, in parte, in quanto militanti politici. Un rischio che si intravede verosimilmente all’orizzonte è dunque quello di non ricadere più sotto la “protezione” e la tutela di risorse ancora esigibili da una forma di diritto repubblicano, quello di non giocare più la partita su un terreno in qualche maniera conosciuto e regolamentato, ma di avere, improvvisamente, a che fare con il dispiegamento di una violenza che fa collassare l’ordinamento sociale sulla legge del più forte, e lo fa avvalendosi di tutte le tecniche di contro insorgenza che le forze armate sperimentano da secoli nelle colonie, nelle periferie – e, parzialmente, anche nei recenti scontri di piazza e sgomberi delle autonomie – e di tutti i principi di esclusione sociale propri di un ordinamento giuridico che si struttura su fondamenta patriarcali, razziste e classiste.

È inevitabile non constatare una differenza tra questa percezione del tutto giustificata che si ritrova nei milieux militanti francesi e quella di chi, invece, questa violenza la sperimenta da sempre sulla propria pelle all’interno dei quartieri popolari, proprio perché essa è la cifra dell’imposizione di un ordine sociale. L’ordine democratico – che al grado zero della biopolitica si fa garante anche solo della mera sopravvivenza di chi ne fa parte – non esiste per la maggior parte degli abitanti dei quartieri se non nella forma del nemico. Questo punto di vista emerge costantemente dalle testimonianze dei/delle militanti politici/e del movimento antirazzista e decoloniale, come controcanto alla campagna elettorale di queste settimane frenetiche. Lo ricorda una madre dei comitati «Verità e Giustizia» (nati in Francia per volontà di chi ha avuto figli o parenti assassinati dalla polizia) che: «i quartieri popolari ed i loro abitanti razzializzati sono sotto attacco da anni».

Nel corso della marcia per Nahel, a Nanterre – organizzata proprio da uno di questi comitati al cui centro sta soprattutto la mamma, Mounia – una compagna dei quartieri afferma che: «Il fascismo, nei quartieri popolari, c’è già: negli omicidi della polizia, nell’ordine sociale razziale imposto con la violenza, nel modo in cui i fascisti marciano pubblicamente per Parigi minacciandoci di morte mentre in mezzo a loro si trovano apertamente dei poliziotti che sostengono e partecipano alle loro spedizioni punitive».

Questa testimonianza evidenzia bene la discrasia tra soggettività non razzializzate, che concepiscono il possibile avvento al governo dell’estrema destra nei termini di uno “choc”, di un cambiamento annunciato, ma che vede un’accelerata nel suo inveramento, e una componente che invece riconosce il fascismo quotidianamente, perché espressione militarizzata e ultraviolenta di un dominio imposto da un ordine repubblicano di cui essi non possono fare parte perché “neri, arabi, abitanti di banlieue”. Il fascismo si presenta nei quartieri popolari sotto forma di una costante invarianza, tesa ad imporre manu militari un ordine che include ed esclude sulla base della linea del colore, che su di essa determina i rapporti di classe e di dominio all’interno dello Stato, e che necessita di un altissimo grado di violenza per assicurare la propria riproduzione.

Nel corso della rivolta scaturita in risposta all’omicidio di Nahel, in cui la maschera della “democrazia assimilatrice” è crollata a fronte alla risposta inedita dei giovani delle banlieues, il governo Macron non ha esitato a schierare le forze antiterrorismo, rispondendo con centinaia di arresti e facendo numerosi altri morti e feriti. Non ha retto il tentativo di depotenziare le rivolte attraverso il tradizionale discorso paternalista; quello che promette di “integrare” tramite il supporto di solerti mediatori quella “minoranza che sbaglia”, composta in maniera maggioritaria dai “giovani senza prospettive dei quartieri popolari” all’interno dell’arco giuridico della cittadinanza repubblicana. Tutt’altro: il filo esistenziale che collega la possibilità di morte per mano di un rappresentante dello Stato si istanzia nella percezione quotidiana di una nemicità senza possibilità di mediazione e di riassorbimento. Non è un caso che i primi ad affinare la narrazione di una “guerra civile” in atto, all’interno dei propri confini, siano stati proprio il Fronte Nazionale e l’ampia coalizione macroniana.

Questa questione della guerra civile – che da parte popolare e del fronte antifascista viene ripresa comprensibilmente nei termini di una “guerra razziale” – è già qua nel momento in cui la polizia spara impunemente nei quartieri, nel momento in cui è stata organizzata addirittura una raccolta fondi per il poliziotto assassino di Nahel che ha raggiunto oltre un milione e mezzo di euro. In Francia, uccidere un ragazzino dei quartieri non solo è permesso e previsto dalla legge, ma un pezzo di paese è convintamente disposto a sostenere economicamente l’assassino: fare i sicari della repubblica all’interno dei quartieri popolari può diventare, come in ogni conflitto informale parastatale, un’attività lucrativa.

Nel corso della rivolta del 2023, la sollevazione nei quartieri popolari è stata enorme, in termini di numeri di giovani e giovanissimi coinvolti, di obiettivi attaccati, di radicalità. Per l’occasione, le istituzioni avevano dovuto accompagnare la risposta repressiva dispiegata alla rievocazione di discorsi imperniati su cliché etnico-razziali: la violenza “improvvisa e incontrollabile” che può essere ricondotta solo ad un certo tipo di identità, quella nera, araba e soprattutto musulmana – confessionalmente esteriore ai principi fondanti dell’ordine sociale repubblicano d’impronta europea e occidentale. Se questa identità esiste con certezza solo nella forma di un simulacro di eredità coloniale che i vari governi riattualizzano a seconda delle statistiche sul proprio consenso, le costanti mobilitazioni politiche che hanno attraversato i quartieri popolari dimostrano che ciò che esiste invece con certezza è un tessuto di organizzazione, di relazione e di militanza che già da anni lavora per sostenere le famiglie degli uccisi dalla polizia, i genitori i cui figli sono messi in garde-à-vu o arrestati, che lotta quotidianamente contro le incursioni e gli abusi della polizia e delle squadre fasciste, anche in vista della costruzione di un soggetto politico autonomo all’interno delle cités.

Al di fuori di fiammate come quella del 2023, capaci di mettere davvero in crisi l’assetto politico francese, la costituzione di una soggettività politica autonoma all’interno dei quartieri popolari sembra assumere un assetto morfologico non immediatamente intelligibile agli occhi di una militanza bianca, ancora molto debitrice di una propria “tradizione del politico”, abituata a misurare i gradi di soggettivazione attraverso codici di lettura spesso rigidi nelle forme e nelle aspettative.

Eppure si tratta di forme ben distinguibili all’interno di contesti anche pacificati e di carattere più commemorativo come questa marcia di Nanterre che si è tenuta, anche senza grandi numeri, nonostante le previe minacce e i tentativi di dissuasione e da parte di comune e prefettura, i quali non hanno esitato a porre le imminenti elezioni sul tavolo dei pretesti funzionali a soffocare qualunque forma di aggregazione politica che non prenda avvio dall’incendio delle loro sedi. Nel breve tragitto per cui il comitato è riuscito a strappare l’autorizzazione – dall’esplanade Charles de Gaulle, fino alla piazza Nelson Mandela, quella più prossima a dove la polizia ha sparato a Nahel (qui un più articolato racconto della giornata: https://radioblackout.org/2024/07/marcia-per-nahel-un-anno-dopo-la-sua-uccisione-da-parte-della-polizia-francese/) – nessuno scontro, pochi cori anche se arrabbiati, ma una testa del corteo che esprimeva a pieno, immediatamente, la propria irriducibile ostilità allo stato di cose.Non solo attraverso la dimostrazione di forza che le prime file dei ragazzi e delle ragazze del quartiere comunicavano e che si è resa ancora più manifesta nel momento in cui si è confluiti in massa nel barbecue commemorativo. Ma anche attraverso il solo fatto di essere presenti a sostenere una madre ed una famiglia, di scendere in piazza per manifestare la propria compattezza nel cordoglio il giorno prima di una tornata elettorale in cui gran parte della sinistra bianca percepisce il “rischio del fascismo”. Lo stesso che nei quartieri ha ucciso Nahel, anche a guida della maggioranza di parlamento non vi era Bardella, bensì Borne e Darmanin.

Alla luce dello stato di urgenza (non solo) elettorale di questo periodo, ci sembra di leggere una scommessa duplice e non priva di tensioni da parte di chi lotta nei quartiers: votare NFP e bloccare la possibilità di un governo a guida RN è una strategia di sopravvivenza che è vitale, ancora prima che politica, e questo ce lo insegna la conta inclemente dei ragazzi assassinati dalla polizia. Non ci sembra assente nemmeno la speranza che ampliando in maniera radicale le contraddizioni in seno all’ordine politico – attraverso dei candidati che si pongono in retrofila delle mobilitazioni e propensi a mettersi a disposizione dei movimenti (cosa che non esiste in alcuna altra espressione della “sinistra” europea) – si possa arrivare alla possibilità reale di un’imposizione delle proprie istanze all’interno di un campo storicamente precluso alle rivendicazioni antirazziste e decoloniali. Le persone dei quartieri con cui abbiamo avuto modo di parlare che hanno deciso di votare NFP – e che hanno fatto massa, a giudicare dalla geografia dei risultati della prima tornata elettorale – hanno fatto spesso riferimento a come si tratti di una scelta che, non meno di altre agite nel campo impuro della politica, non è priva di contraddizioni. Come dimenticare, infatti, che Cazeneuve, il deputato firmatario della proposta di legge che prevede la possibilità per la polizia di rispondere con le armi da fuoco in caso di rifiuto di obbedire agli ordini (la norma che ha permesso legalmente l’omicidio di Nahel e che ha fatto sì che il poliziotto assassino venisse assolto) fa parte del Partito Socialista, a sua volta integrato nel Fronte Popolare?

Ci sono persone che lottano in questo contesto le quali affermano che si tratta pur sempre di scegliersi il proprio nemico: meglio il Fronte Popolare al governo che la destra, certo. Ma una compagna dei comitati di lotta di Nanterre ci fa comunque presente che: «noi e questa gente qua (riferendosi all’ala gauchista) non siamo la stessa cosa». E chiosa con un moto lapidario anche per chi, nell’azione, tiene sempre un occhio rivolto alla tradizione: «il tempo delle elezioni non è il tempo della rivolta».

Certamente, a pagare le conseguenze maggiori di una “fascistizzazione” della compagine di governo e della società francese saranno i quartieri popolari e le soggettività razzializzate. E questo pone degli obiettivi in termini di progetto che vanno ben oltre la scommessa di chiamare al voto per il Fronte Popolare. Con la stessa lungimiranza ci si interroga, alle latitudini di chi rappresenta un punto di vista autonomo, davvero relativamente a possibili alleanze con le forme di organizzazione che si sono articolate nei quartieri e con i collettivi antirazzisti e decoloniali che negli ultimi anni hanno accumulato forza e peso politico. 

Si tratta di un punto di vista – in parte ancora da guadagnare – che deve riconoscere una centralità alle soggettività che si vanno strutturando nei quartieri popolari, non solo come principali vittime di un attacco frontale del futuro governo RN, ma anche come soggetto politico attivamente impegnato da decenni nella lotta contro le violenze delle articolazioni repressive dello Stato. Questo ci sembra costituire la precondizione per uscire dal disorientamento che comporta l’avanzata fascista: riconoscerla per quello che è, ovvero l’emersione in termini punitivi e sempre più escludenti di una condizione di dominio già presente, sebbene principalmente in atto nei quartieri segregati e razzializzati. A partire da questa consapevolezza, occorre lavorare al rafforzamento dei propri gruppi organizzati, nella forma di strutture o di reti, e alla conquista di uno spazio tramite cui poter identificare un terreno di scontro praticabile nei prossimi mesi.

Il tempo delle elezioni non è il nostro, è vero. Ma la base del movimento conosce le proprie ragioni. Il compito dei prossimi mesi sarà la costruzione di un terreno di lotta propositivo, in grado di mettere in campo una forza di opposizione totale al paventato governo Le Pen-Bardella sì, ma anche all’ordine repubblicano, coloniale, patriarcale e capitalista in quanto tale, per poter finalmente ricominciare a segnare il tempo della rivolta.

…A suìvre!

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