Ilva: No alla licenza di uccidere
Per capire a pieno, e misurare, la dose d’”istinto criminale” che guida le grandi transnazionali corsare che navigano con spirito predatorio nel gran mare della globalizzazione, quello dell’Ilva di Taranto è davvero un caso esemplare.
Di Marco Revelli per volerelaluna.it
Lo “scudo penale” che pretende “l’Acquirente”, come condizione per restare è una vera e propria “licenza di uccidere”. Anzi il prolungamento di quel lasciapassare per la morte (degli altri, naturalmente, dei bambini di Taranto, degli abitanti del quartiere Tamburi, degli operai stessi dell’acciaieria) che già il primo governo Renzi alla fine del 2014 aveva rilasciato al Commissario straordinario che avrebbe dovuto realizzare il Piano ambientale di risanamento (sulla carta da completarsi all’80% entro il luglio del 2015). E che successivamente il ministro Calenda avrebbe esteso anche ai futuri compratori dilatandone nel tempo scadenze e immunità penale. In quello sciagurato decreto si stabiliva che le condotte poste in essere in attuazione del Piano ambientale “non possono dar luogo a responsabilità penale o amministrativa” in quanto “costituiscono adempimento delle migliori regole preventive in materia ambientale, di tutela della salute e dell’incolumità pubblica e di sicurezza del lavoro” (sic!).
Che lo costituissero davvero era posto come articolo di fede, non essendo previsto (o comunque sanzionato in caso di inadempienza) nessun controllo periodico sull’”adempimento”, né sul rispetto delle “migliori regole” (non meglio precisate) né sui tempi dei lavori di realizzazione del Piano ambientale (il quale al momento del decreto non era neppur pienamente definito), tant’è vero che questi si sono dilatati a dismisura: la “completa copertura” dei parchi primari, fonte di quantità spaventose di polveri mortali, che avrebbe dovuto, secondo l’originaria Autorizzazione integrata ambientale (AIA) del 2012 essere completata tassativamente entro il 27 ottobre del 2015 (termine prorogato dal decreto renziano a fine 2016), risultava ancora, nella primavera di quest’anno (2019!), realizzata per meno della metà. E quanto alla diossina, secondo la denuncia di Angelo Bonelli coordinatore nazionale dei Verdi, sarebbe ritornata assai vicina ai valori devastanti registrati nel 2009, quando scoppiò la bomba dei 1124 capi di bestiame della masseria Carmine condannati a essere abbattuti perché altamente inquinati (“In un anno il valore della diossina a Taranto è aumentato del 916%”, passando “da 0,77 picogrammi del 2017 a 7,06 picogrammi del 2018, molto vicino agli 8 picogrammi del 2009”).
In realtà, al di là delle sue formule bizantine, quel decreto non regolava affatto l’adempimento del Piano ambientale per rendere compatibile quello stabilimento con la salute dei cittadini e degli operai ma era diretto a garantire una piena immunità (e impunità) ai gestori della fabbrica dei veleni per consentir loro di prolungarne le attività produttive (comprese quelle nocive) al riparo degli interventi sanzionatori della magistratura. Tant’è vero che ben tre procedimenti per emissioni inquinanti del siderurgico, aperti dalla procura di Taranto, sono stati archiviati perché coperti appunto dallo “scudo penale”, il che aveva convinto il gip Benedetto Ruberto a ricorrere alla Corte costituzionale contestando la costituzionalità dei decreti che permettevano la prosecuzione dell’attività degli impianti nonostante il sequestro del 2012, e sottolineando in particolare “lo spostamento costante della data di ultimazione dei lavori” e “l’immunità penale” concessa ai vertici aziendali.
In sostanza dietro al ricatto-pretesa da parte di Mittal dell’”immunità penale” sta una concezione delle relazioni giuridiche e sociali da Ançien régime (solo il Sovrano Assoluto era legibus solutus), incompatibile con ogni ordinamento moderno, anche il più compiacente e subalterno alla logica del profitto. Una sorta di ritorno a un medioevo giuridico o allo spirito della Constitutio criminalis carolina (dal nome di Carlo V che la emanò) per la quale, come è stato ricordato, le pene “venivano qualificate non sulla base del bene danneggiato, ma in relazione alla posizione dell’accusato” e al suo status. Qualunque governo “moderno” (nel senso di “successivo al 1789”) che pensasse di adottare una simile aberrazione giuridica, si coprirebbe di ridicolo, compreso il governo Conte, che pure è uomo di legge. E che perderebbe definitivamente la faccia (anzi forse l’ha già persa) nel momento in cui per trattenere i baroni franco-indiani si provasse a riproporgli l’esca appetitosa dell’impunità ad personam.
Date queste premesse, ci si sarebbe potuto aspettare che quantomeno una buona parte dell’eletta schiera di chi partecipa quotidianamente alla conversazione pubblica, nell’ambito politico, culturale, sociale, si sollevasse come un sol uomo di fronte alla provocazione predatoria dei padroni dell’acciaio, invece no. Anzi.
Repubblica – che pure aveva fatto a suo tempo la prima pagina su Greta Thunberg e il suo “Come osate voi!” che sapete parlare solo di soldi mentre il pianeta muore -, Repubblica appunto, il giorno dopo la rottura di Mittal, alludendo alla colpa di chi aveva sospeso lo “scudo penale” intitolava SULLA PELLE DELL’ILVA. E il suo editorialista di punta, Massimo Giannini, per fugare ogni dubbio sulle posizioni del giornale, definiva quello di Taranto “uno dei migliori stabilimenti siderurgici d’Europa” (sic!).
Il Pd, nelle cui file hanno militato alcuni dei maggiori responsabili della gestione irresponsabile della vicenda Ilva a danno della tutela dei cittadini, da Matteo Renzi appunto a Carlo Calenda (ho usato l’imperfetto perché entrambi hanno seceduto), si è stracciato le vesti sul latte versato della siderurgia italiana, minacciando strappi nella maggioranza se l’ineffabile scudo non fosse ripristinato. Per non dire della destra, che per bocca dell’altro Matteo terribile, Salvini, minaccia addirittura l’ostruzionismo parlamentare (contro cosa non si sa) se non si ritornasse al regime d’immunità per quei nuovi padroni così vessati poverini dai giallorosa, e fa un po’ ridere questo sovranismo dei nostri stivali, che grida “prima gli italiani” quando si tratta di metter sotto i migranti e poi si sbraccia per metter prima i franco-indiani e i loro miliardi sacrificando al loro profitto la vita dei propri concittadini.
Ma poi ci sono i sindacati: quelli che non solo al “lavoro” ma alla vita dei “lavoratori” e delle loro famiglie dovrebbero essere particolarmente attenti e che invece – al momento della stipula del contratto con Ancelor Mittel – per primi si dichiararono d’accordo con la clausola immunitaria, e ancora oggi dichiarano (Luigi Sbarra, della Segreteria nazionale CISL) – “inconcepibile ed incomprensibile la decisione del Governo di smantellare lo scudo legale indispensabile per concludere il percorso di ambientalizzazione” (sic). Io stesso ho sentito, con le mie orecchie, come si dice, un rappresentante Uilm di Taranto dichiarare ai microfoni di Radio1, che si è fatto di tutto per impedire a Mittal di lavorare! Per fortuna non è quello il punto di vista degli operai: come riporta lo stesso “Sole 24Ore”, secondo un sondaggio realizzato dall’Unione dei sindacati di base (Usb) con un questionario distribuito ai circa 8.200 lavoratori presenti alle assemblee in fabbrica di fine ottobre, il 96,6% di chi ha risposto (1.211 su 1.254) ritiene che non sia giusto «garantire ad ArcelorMittal o ad altri lo scudo o l’immunità penale fino alla scadenza delle attività Aia». E 1.223 operai (97,6%), pensano che “l’attuale ciclo produttivo integrale a carbone non è compatibile con il rispetto della salute umana e dell’ambiente”.
Ora poi si apprende – dalla “trattativa” (si fa per dire) avviata col Governo – che come condizione per tenere aperto lo stabilimento non basta in pegno la pelle dei cittadini di Taranto esposti al rischio, si vuole anche la testa di 5.000 operai considerati in “esubero”. Ed emerge l’ipotesi, assai plausibile, non solo e non tanto che il management avesse “sbagliato” clamorosamente il Piano industriale, ma che tutta l’operazione Ilva, fin dall’inizio, fosse stata concepita dal gruppo franco-indiano al puro scopo di eliminare dal mercato un possibile concorrente, fingendo di acquistarlo per suicidarlo. Come che sia, è abbastanza evidente che padroni così, a Taranto e in Italia, è meglio perderli che trovarli.
Meglio, molto meglio, nazionalizzare il complesso siderurgico, per risanarlo se possibile, de-carbonizzandolo, e poi solo a quel punto restituirlo al mercato. In realtà la soluzione della nazionalizzazione avrebbe dovuto essere la via maestra fin dal 2012, quando con provvedimento coraggioso, la magistratura tarantina aveva sequestrato parte di quella fabbrica della morte sulla base di dati scientifici inconfutabili relativi al suo impatto devastante sulla salute: nessun privato, infatti, operando con regole di mercato, potrebbe realisticamente realizzare un’opera insieme così necessaria ma così impegnativa. Soluzione che l’allora governo Monti, dominato dal suo dogma ultraliberista, non aveva neppur considerato, e che quelli successivi, cresciuti sotto la stessa egemonia ideologica, hanno regolarmente scartato. Oppure si sarebbe potuto immaginare un grande progetto di riqualificazione eco-compatibile dell’intera area industriale, sul modello Ruhr in Germania, magari tentando di coinvolgere l’Unione europea nell’impresa. Opzioni che ancor ora dovrebbero essere in bella vista sul tavolo governativo, se chi siede ad esso avesse un minimo di responsabilità, di coraggio e di fantasia.
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