L’IPCC avverte: il capitalismo è insostenibile
Una notizia esclusiva raccolta dalla Revista Contexto sul Sesto rapporto del gruppo di esperti dell’Onu, afferma che l’unico modo per evitare il collasso climatico è quello di allontanarsi da qualsiasi modello basato sulla crescita perpetua.
di Juan Bordera, Fernando Valladares, Antonio Turiel, Ferran Puig Vilar, Fernando Prieto, Tim Hewlett, da ECOR Network
La seconda bozza del Gruppo III dell’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change/Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico), che ha l’incarico di fornire proposte di mitigazione, afferma che dobbiamo allontanarci dal capitalismo attuale per non superare i limiti planetari. Conferma inoltre quanto già detto nell’articolo pubblicato sulla Revista Contexto il 7 agosto scorso: “Le emissioni di gas a effetto serra (GHG) dovranno raggiungere il picco al massimo in quattro anni“. Il documento afferma anche che ci sono poche possibilità di continuare la crescita.
Noi, scienziati e giornalisti firmatari di questo articolo, abbiamo analizzato una nuova parte del Sesto Rapporto, filtrata dalla stessa fonte: il collettivo di scienziati Scientist Rebellion y Extinction Rebellion España.
In questa sezione possiamo vedere chiaramente le divergenze esistenti nella comunità scientifica riguardo le misure necessarie per raggiungere una transizione efficace e giusta. Per fortuna, tra le solite e più timide posizioni, cominciano a spuntare richieste che sarebbero state impensabili fino a poco tempo fa.
Prima di entrare nel merito dell’analisi, è necessario un po’ di contesto: nel 1990, il Primo Rapporto di valutazione dell’IPCC affermava che “l’aumento osservato [della temperatura] poteva essere in gran parte dovuto alla variabilità naturale“. Questo dibattito è stato chiuso nelle relazioni successive. Ma se fossero rimasti dei dubbi, l’analisi del Gruppo I del Sesto Rapporto – ora ufficiale – ha chiarito ogni incertezza. Elimina ogni possibilità di una risposta negazionista sul clima, ampiamente irrorata con il denaro di coloro che avevano più da perdere: le lobby dei combustibili fossili. La prima domanda per risolvere un mistero è di solito la classica Cui Bono (A chi giova?).
La domanda di fondo ora è: come assicurarsi che l’inevitabile transizione sia percepita come un beneficio e non come una rinuncia? Non c’è altra possibilità che rinunciare alla crescita indefinita, e il rapporto trapelato lo menziona. La transizione deve tener conto delle differenze culturali e storiche delle emissioni tra i paesi, delle differenze tra il mondo rurale e quello urbano per non avvantaggiare l’uno sull’altro, e soprattutto deve tener conto delle tremende e crescenti disuguaglianze economiche tra i sempre più poveri e i sempre più oscenamente ricchi. O si affrontano queste tre dicotomie, o la transizione avrà più nemici che sostenitori e si saboterà da sola. La bozza recita testualmente: “gli insegnamenti di economia sperimentale mostrano che le persone possono non accettare misure che sono percepite come ingiuste, anche se il costo di non accettarle è più alto“.
Anche se si riuscisse a cambiare rotta, gli scienziati avvertono: “Le transizioni non sono di solito dolci e graduali. Possono essere improvvise e dirompenti“. Sottolineano anche che “il ritmo della transizione può essere ostacolato dal blocco esercitato dal capitale, dalle istituzioni e dalle norme sociali esistenti“, enfatizzando l’importanza dell’immobilismo sul quale aggiungono: “La centralità dell’energia fossile nello sviluppo economico degli ultimi duecento anni solleva ovvie domande sulla possibilità di decarbonizzazione“.
Le politiche favorevoli alle compagnie di combustibili fossili hanno estratto la ricchezza comune – la nostra aria, le foreste, la terra… – e l’hanno messa nelle mani di una piccola minoranza. Le politiche verdi sono quindi destinate ad essere obbligatoriamente redistributive in un’epoca in cui la disuguaglianza è in aumento. Una delle misure proposte per ridurre la regressività dei prezzi del carbone è la ridistribuzione delle entrate fiscali a favore dei redditi bassi e medi. Ma, come ci ricorda l’antropologo Jason Hickel: qualsiasi cosa che non sia un limite all’estrazione dei combustibili fossili, con obiettivi annuali decrescenti che riducano l’industria a zero, sarà solo un lavarsi le mani del problema.
E arriviamo a uno dei paragrafi che definiscono il rapporto: “Alcuni scienziati sottolineano che il cambiamento climatico è causato dallo sviluppo industriale e, più specificamente, dal carattere dello sviluppo sociale ed economico prodotto dalla natura della società capitalista, che quindi considerano in definitiva insostenibile“. Anche se molti lo hanno detto prima (leggi qui), non crediamo di aver mai letto qualcosa di così chiarificatore nel rapporto sul clima più importante del mondo che aggiunge: “Le emissioni attuali sono incompatibili con l’Accordo di Parigi perché è assolutamente vincolante ridurle in forma immediata e determinata“.
Diversi scenari di riduzione delle emissioni
Questi obiettivi, che implicano una drastica diminuzione delle emissioni e, a breve termine, anche della produzione di energia e dell’uso dei materiali, sono impossibili da raggiungere con il modello attuale. Inoltre, il Gruppo III collega la riduzione delle emissioni con il compimento dei 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile concordati nel 2015 dagli stati membri delle Nazioni Unite, da raggiungere entro il 2030. Nonostante le contraddizioni tra i 17 Obiettivi per lo Sviluppo Sostenibile, tra di essi troviamo obiettivi indiscutibili come la riduzione delle disuguaglianze e la protezione della biodiversità, mescolati con uno più controverso all’interno del rapporto stesso: promuovere la crescita economica sostenibile.
Nell’IPCC è consuetudine non nascondere il dibattito scientifico, e se nel 1990 questo ruotava ancora intorno alle cause del cambiamento climatico, dopo 30 anni infruttuosi possiamo vedere che la discussione ora oscilla tra le posizioni che credono ancora che possiamo continuare a crescere e ridurre le emissioni al ritmo necessario, e coloro che vedono questo come un altro tipo di negazionismo, più sottile, ma che alla fine beneficia e viene difeso dagli stessi che una volta mettevano in dubbio l’origine del riscaldamento globale.
Il rapporto dell’IPCC presume che “gli obiettivi di mitigazione e sviluppo non possono essere raggiunti attraverso cambiamenti incrementali“. Concentrarsi sulla crescita richiede lo sviluppo massiccio di tecnologie che possano ridurre le concentrazioni di gas serra nell’atmosfera, ma queste tecnologie CCS (Carbon Capture and Sequestration) non si stanno mettendo in pratica come previsto.
Con i depositi di carbonio degli ecosistemi in chiaro declino e i feedback climatici che si innescano – spingendo la Terra oltre diversi punti di non ritorno, come è ormai ampiamente riconosciuto, e quindi verso uno stato più caldo e instabile – l’unico modo noto per evitare il collasso del clima è quello di allontanarsi dal modello di crescita perpetua.
Il rapporto sottolinea che nella cooperazione internazionale è stata identificata una “ipocrisia organizzata” per cui agli accordi e alle rivendicazioni non corrispondono azioni, e questo rappresenta una delle più importanti barriere alla mitigazione.
L’IPCC ci invita anche a non dimenticare le lezioni non attuate per il Covid-19. Lezioni che dovrebbero servire ad evitare di fare gli stessi errori con il cambiamento climatico, poiché le analogie sono chiare e dirette.
I costi della prevenzione e delle azioni preparatorie sono minimi rispetto ai costi degli impatti causati. Ritardare l’azione avrà costi elevati molto difficili da sopportare.
Se non si agisce presto, le sfide aumenteranno in modo non lineare e con conseguenze impreviste
Date le contraddizioni sempre più evidenti sul concetto di sviluppo sostenibile, è possibile parlare di qualsiasi forma di sviluppo solo allontanandosi dal PIL come misura di ricchezza per andare verso un modello economico meno basato sulla concorrenza. L’unico sviluppo sostenibile è orizzontale, non verticale. In altre parole, ridurre la disuguaglianza.
È chiaro che o esiste la percezione che una grande maggioranza di noi ne possa “beneficiare”, o non ci sarà soluzione. Per questo è necessario spiegare bene l’enorme portata del problema affinché le misure possano essere comprese e certi sacrifici possano essere intesi come benefici, sempre tenendo in considerazione che l’alternativa è cambiare per sempre la stabilità climatica e aggravare i conflitti per le risorse.
La competizione ha aiutato le specie ad evolversi ma, come ha dimostrato la brillante la microbiologa Lynn Margulis, è la cooperazione la chiave per spiegare i grandi salti evolutivi. Ci troviamo ora di fronte a un precipizio disegnato dall’intersezione della crisi ecologica e di quella energetica. Possiamo avere una buona vita con meno energia disponibile (e allo stesso tempo avremo meno carico di lavoro), ma il capitalismo non sarà in grado di sostenersi con meno energia senza completare la sua mutazione in una sorta di tecno-feudalesimo.
Solo se cooperiamo, se capiamo che condividiamo tante cose – compresa un’atmosfera che non sa cosa siano le frontiere – possiamo reagire e saltare abbastanza lontano per evitare la caduta.
Tratto da: CTXT Agosto 2021 – (licenza creative commons: https://ctxt.es/es/20150115/redaccion/1705/?tpl=11)
Qui la versione in inglese pubblicata dalla Monthly Review.
Traduzione in italiano di Marina Zenobio per Ecor.Network.
Autori:
– Juan Bordera è un giornalista, sceneggiatore e attivista di Extinction Rebellion España e València en Transició.
– Fernando Valladares ha un dottorato in scienze biologiche, è professore di ricerca al CSIC (Consejo Superior de Investigaciones Científicas) e vincitore del premio Jaume I per la protezione dell’ambiente.
– Antonio Turiel ha un dottorato in fisica teorica, una laurea in matematica, è ricercatore del CSIC e esperto di energia. È l’autore del recente saggio Petrocalipsis.
– Ferran Puig Vilar è un ingegnere delle telecomunicazioni, ha lavorato per 30 anni come giornalista ed è specializzato in crisi climatica.
– Fernando Prieto ha un dottorato in ecologia ed è direttore dell’Osservatorio per la sostenibilità.
– Tim Hewlett ha un dottorato in astrofisica ed è un membro del collettivo Scientist Rebellion.
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