#MaiConSalvini e hip hop militante: intervista a Kento
Abbiamo intervistato Kento, rapper militante, a partire del dibattito che la manifestazione romana #MaiConSalvini ha aperto all’interno di una parte del mondo dell’hip hop, suscitando prese di posizione e polemiche. Nell’intervista abbiamo poi aperto la riflessione alla scena hip hop italiana attuale e a che cosa voglia dire oggi fare rap militante:
In occasione della manifestazione #maiconsalvini a Roma si è sviluppato un dibattito all’interno del mondo dell’hip hop. Dopo la presa di posizione a favore della manifestazione di alcuni rapper romani e non sono scoppiate alcune polemiche nell’ambiente.
La mia riflessione è nata dal fatto che Lucci, un rapper romano, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook una foto con un cartello con scritto #maiconsalvini e «Roma rifiuta il razzismo», quindi un messaggio che ha me francamente sul momento sembrava abbastanza neutro, mi sembrava il minimo comune denominatore rispetto ad una situazione del genere. Al che stranamente Lucci ha cominciato a ricevere insulti, pseudo-minacce di gente che diceva: «Tu sei bravo a fare rap, ma fatti i cazzi tuoi quando si parla di politica». Di gente sostanzialmente di destra o neofascista che evidentemente ascolta hip-hop. Per quanto questa cosa possa sembrare assurda, anche sulla mia pagina sono incominciate ad arrivare minacce e insulti, nonostante la mia musica sia evidentemente schierata, e quindi sai bene cosa devi aspettarti, non c’è pericolo che possa essere fraintesa. La cosa all’inizio mi ha stupito, ma alla fine mi ha fatto riflettere. Quanta gente c’è che ascolta rap e che è di destra e razzista o addirittura fascista? A partire da questo, la cosa che mi sono sentito di chiedere con il mio post sul Fatto Quotidiano è stata un minimo di coraggio da parte del rap italiano. Non dico che tutto il rap italiano debba essere compagno o militante, dico che il rap italiano dovrebbe avere il coraggio di dire: «Ok, noi la pensiamo in tanti modi diversi, ma come minimo comune denominatore siamo contrari al razzismo e al fascismo». Questo, incredibilmente, sembra essere un risultato difficile da ottenere. Dopo il mio post sul Fatto si è generato un dibattito, la qual cosa mi fa abbastanza piacere, anche perché è chiaro che in parte la mia era una provocazione. Ci sono state migliaia di condivisioni del post, diversi commenti sia positivi che negativi. C’era chi diceva che avevo ragione, chi diceva che non capivo niente e chi diceva che avevo scritto quel pezzo solo per farmi pubblicità, ma va bene, il mio scopo non era chiaramente convertire tutta la scena hip hop alla militanza da un giorno all’altro, era inserire questa questione nel dibattito. In modo che almeno la gente ammetta che qualcosa sta succedendo e cioè che l’hip hop sta diventando così mainstream che inevitabilmente c’è anche gente di destra che ascolta rap e quando si tratta di ragazzi molto giovani, soprattutto di studenti medi penso che il nostro ruolo come artisti sia anche quello di mettere in guardia questi ragazzi contro la deriva fascista e razzista. Se torniamo al discorso delle origini del rap che è musica afroamericana mi pare paradossale che possa colorarsi di razzismo.
Perchè è così difficile per la scena hip hop italiana esporsi su una questione del genere? Come mai la nostra scena nonostante si dichiari emittente della strada riesce raramente a cogliere le difficoltà di vita degli ultimi, degli oppressi e a narrarle e denunciarle?
Io penso che in parte ci sia un problema di coraggio da parte della scena italiana. Non credo francamente che tra i rapper italiani ci sia gente razzista. Il rischio non è che la scena diventi razzista, il rischio è che la scena diventi indifferente, che è una cosa quasi altrettanto grave. La mancanza di coraggio sta nel fatto che quando qualche artista si espone corre il rischio che qualcuno non vada più ai suoi concerti, che non venda più qualche disco e questo è un rischio che una parte della scena non è disposta a correre. Anche perché ci sono alcuni che possono dire: «però che palle questi discorsi, non mi interessano, ancora fascisti e comunisti nel 2015 ecc ecc…» e quindi anche i rapper italiani che – ripeto – non sono razzisti hanno spesso questo timore di esporsi. L’altro esempio che faccio è invece quello della scena statunitense che, salvo alcune eccezioni, si è invece schierata in modo abbastanza compatto con Occupy. Occupy Wall Street è forse addirittura un’esperienza più estrema del semplice dire io sono contrario al razzismo. Opporsi al razzismo per gente che fa musica di matrice afroamericana pensavo fosse scontato, evidentemente non è così, evidentemente ci poniamo ancora in posizione subalterna rispetto all’hip hop statunitense afroamericano, evidentemente non siamo capaci di prendere una posizione, non dico politica, ma autorevole, importante, seria rispetto ad un problema del genere. Questo non mi fa piacere, ma già il fatto che se ne inizi a parlare mi sembra un segnale positivo.
E’ molto interessante in effetti come nei casi di Occupy o delle più recenti vicende di Ferguson ci sia stata una capacità di prendere parola, di discutere nella scena rap americana anche da parte di degli artisti che tutto sommato sono mainstream. Nel nostro contesto risulta un po’ più difficile. Spesso nel rap nostrano gli eventi di attualità anche non direttamente politici hanno difficoltà a permeare la produzione artistica se non con espressioni sloganistiche e generaliste che non vanno in profondità. C’è in alcuni casi un comodo attestarsi in alcuni luoghi comuni?
La prima regola dell’hip hop è mantenerlo autentico, keep it real, per definizione il rap è musica che parte dalla realtà e alla realtà deve stare sempre vicino. Io penso molto semplicemente che ci sia una strada facile e una difficile. La strada difficile è quella di parlare anche, tra i vari argomenti, del conflitto sociale che indiscutibilmente la nostra Italia sta vivendo. E’ difficile dal punto di vista dei risultati immediati e del riscontro immediato, ma è quella più interessante dal punto di vista artistico, è quello che porterà veramente avanti il movimento. La strada facile è quella dei gruppi che durano sei mesi, quella dei dischi buttati fuori uno dietro l’altro proprio come un bene di consumo. Francamente la trovo una visione miope, perché è vero, il rap adesso fa girare un sacco di soldi, però credo che sia giusto non solo prendere da una cultura, ma investire anche in essa perché possa non solo durare ma diventare anche più autorevole, più importante, un vero punto di riferimento per i giovani.
L’hip hop in Italia ha visto la sua crescita e il suo sviluppo iniziale anche grazie al contributo delle posse e dei centri sociali. Verso la fine degli anni ’90 però c’è stata una cesura importante e per alcuni versi anche interessante, una cesura che non ha investito solo il mondo del rap, ma in generale le culture giovanili. Alcuni gruppi e membri della scena di allora rivendicavano un’indipendenza dal percorso delle posse e del rap militante. Da un lato questo discostarsi era il ricercare un’ulteriore autenticità e una diffusione di un messaggio più ampia che altrimenti sarebbe rimasto rinchiuso all’interno dei circuiti militanti, da un altro lato ha significato aprire la porta a tutta una serie di ambiguità. Secondo te di questa cesura quali sono gli aspetti da recuperare e invece quelli da mettere in discussione?
L’hip hop italiano alla sua nascita ha avuto un grandissimo contributo dai centri sociali, ma non c’è stato solo quello. Negli anni ’80 già a Torino c’era il Teatro Regio dove si è creata in modo seminale buona parte della scena hip-hop italiana e c’erano tante altre realtà in tante altre città. Quindi i centri sociali hanno avuto un ruolo determinante, ma già da allora non erano l’unica realtà. C’è stato effettivamente un momento negli anni novanta in cui gente dal movimento posse ha detto: «Ok, ma dobbiamo avere la possibilità di parlare anche di altro». Io questa cosa non la vedo in modo negativo pur rivendicando io stesso l’identità delle posse. La libertà di espressione è importante e preziosa in qualsiasi movimento artistico e poi eravamo arrivati alla situazione paradossale per cui sembrava, anche se in realtà non era così, che per fare rap dovevi essere compagno o militante, e questo ha portato anche gente che poi negli anni ha dimostrato di non essere nè compagno, nè militante a fingere per assimilarsi alla scena. Io preferisco che chi certe cose non le pensa non le dica affatto. Invito chi ci legge a vedere molti componenti delle posse di inizio anni ’90 che fine hanno fatto e cosa stanno facendo adesso anche per capire il percorso personale e politico. Dal mio punto di vista a me piace una scena ricca, che parla assolutamente di tutto, mantenendo vero e autentico quello che dice, mantenendo la consapevolezza di dove si trova e dove vive. Però mi piacerebbe una scena dove il rap militante, il rap di lotta avesse un peso maggiore di quello che ha adesso che già è significativo. Non a tutti può essere chiesta la coerenza e l’impegno degli Assalti Frontali. Sicuramente il mio punto di vista è che anche chi fa rap disimpegnato dovrebbe essere in grado di capire dove vive, dovrebbe essere in grado di scrivere una strofa, 8 rime, 16 barre che parlino di quello che sta succedendo in Italia e del perché la gente ha le palle girate. Mi pongo un obbiettivo minimo!
Il rischio di diventare testimoniale, in effetti, nell’hip hop militante oggi c’è. A parte alcuni virtuosi casi è difficile che il rap di matrice politica esca dai circuiti dei movimenti. Secondo te è connaturata come cosa o è possibile riuscire ad arrivare a fette più ampie di pubblico, come «continuazione con altri mezzi» del lavoro che ogni giorno fanno i compagni nei quartieri, nelle scuole e sui posti di lavoro?
Rispolverando le parole di una volta, io penso che dobbiamo fare critica e autocritica. Critica al mercato musicale che è spersonalizzante, è inumano, è servo del capitale. Dobbiamo fare autocritica nel momento in cui ci chiediamo se la nostra musica la facciamo per cantarcela e suonarcela tra di noi. Usiamo parole adeguate per diffondere il nostro discorso? Qual è il ruolo politico? Siamo capaci di scrivere? Siamo gente capace di fare poesia, nel migliore dei mondi possibile? Oppure facciamo degli slogan? Uno dei pezzi che mi ha fatto innamorare del rap si chiamava Fuck the police degli NWA. Trent’anni dopo cosa stiamo dicendo? Stiamo elaborando, stiamo dando del contesto a questo messaggio, stiamo spiegando il nostro punto di vista alla gente?
Io penso che non è detto che la musica militante debba essere musica noiosa, debba essere poco curata dal punto di vista del suono, debba essere votata al cento per cento sul contenuto, sul concetto e zero per cento sul sound. Se noi pensiamo alla grande, alla storia della musica, agli artisti e ai movimenti musicali che veramente hanno avuto un forte impatto politico nei confronti della realtà, penso ovviamente sopratutto al secolo scorso, è tutta musica fortissima a livello di contenuto ma anche bella a livello musicale. Penso al rock, al reggae, anche al nostro cantautorato italiano in fin dei conti. Ricapitolando critica, ma anche autocritica. Io vedo un livello della scena hip-hop italiana che non è alto, ma mi aspetterei anche dal rap militante di più. A volte sento solo slogan, e non mi piace.
Cosa consiglieresti a chi si vuole avvicinare al rap militante?
Adesso attraverso la rete è più facile scoprire questi artisti. Il mio consiglio è sempre quello di andare a cercarsi le radici, partire dai Public Enemy che sono il gruppo da cui abbiamo imparato un po’ tutti e che adesso dopo 30 anni di carriera continuano ad avere un peso politico importante. Immortal Technique è un altro rapper peruviano di Harlem di cui consiglio l’ascolto. Per quanto riguarda l’Italia ci sono tante realtà importanti, il mio consiglio è non solo di andare a cercarseli in rete, ma di supportare gli eventi che per fortuna ci sono in molte città. Di contribuire lì dove possibile anche economicamente a questi progetti comprando i dischi autoprodotti e indipendenti. Il supporto è importante nel momento in cui il mercato musicale spinge di meno questo tipo di musica. Se ci legge qualche ragazzo o ragazza giovane mi sento assolutamente di consigliare di andare su internet, caricare una base e iniziare a scrivere!
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