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Ciò che non siamo, ciò che non vogliamo

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Può sembrare ripetitivo e un po’ retorico insistere sulla forza del NO, ma tanto più in questa fase storica è importante considerarne il valore. In un momento in cui tutto è apparentemente relativizzato, ambiguo, uno spazio grigio, il NO fa chiarezza. Segna senza esitazioni dove sta il limite, cosa è inderogabile, a cosa non si può cedere.

Il popolo della Val Susa, nella sua trentennale esperienza del No, ha costruito una sua storia, una sua epica, una incarnazione del conflitto che ha date da festeggiare sul calendario e luoghi da visitare per comprendere cosa è successo, cosa succede e cosa potrebbe accadere. Due semplici lettere, praticate con coerenza e intelligenza e assumendosene le conseguenze, hanno trasformato un territorio periferico, devastato e disgregato in un esempio di dignità per tutto il paese e oggi in un cuneo indigesto, una contraddizione insolvibile nel governo giallo-verde. Se è no, è no! Niente forse, niente magari, niente potremmo…

E così da quel No originario ne sono scaturiti altri, che erano derivazione diretta o indiretta del rifiuto che un’intera popolazione esperiva della devastazione ambientale, della violenza dello Stato e della politica come messa in campo di interessi contrapposti. Una serie di No che hanno scalato tutta la morfologia del sistema delle grandi opere, dai livelli più intuitivi, ma comunque centrali, come il No alla mafia, alla corruzione a quelli più complessi, articolati come il No al debito, al lavoro indegno, in poche parole al capitalismo predatorio. Questi no, sistematizzati e generalizzati, definiscono il quadro di alcune delle principali contraddizioni dei nostri tempi, e riemergono qui e lì, nelle ambivalenze, in altri conflitti come quello dei Gilet Gialli in Francia o le lotte contro il cambiamento climatico in giro per il mondo. In questo senso il movimento No Tav è anticipazione e permanenza, è passato prossimo, presente in lotta e futuro anteriore.

La questione del cambiamento climatico e della devastazione ambientale si fa oggi, quotidianamente, generalizzata e globale. Non è più una vicenda localistica con sue specifiche caratteristiche e dimensioni. Basta guardare gli eventi metereologici estremi che stanno colpendo la nostra penisola in questi ultimi mesi e che hanno già mietuto vittime e distruzione. Crocevia simbolico di questa materialità è Taranto dove la combinazione tra lo sfruttamento sul lavoro, l’inquinamento mortifero e il cambiamento climatico si incontrano e costituiscono la tempesta perfetta. La persistenza dei movimenti del no, la loro composizione di classe, sono destinati a rimbombare su scale sempre più grandi. Un nuovo universale? Difficile da dirsi, difficile da credersi, manca la forza, la capacità di riconoscersi, la potenza, per ora. Quello che ci pare di intravedere è che una dura battaglia si giocherà su questo campo e che le composizioni che oggi vediamo spuntare in questi movimenti del no domani saranno la dorsale di un discorso di classe che si opponga al Green New Deal capitalistico e alla (impossibile) fuoriuscita dalla crisi climatica per la via del libero mercato. Molto dipenderà anche da come la somma di quei No potrà divenire un No generalizzato. Un No alla retorica della “crescita ad ogni costo”, un no alla trappola del PIL, un No allo sviluppo selvaggio inteso come accumulazione, inevitabilmente violenta, di capitali e risorse e conversione di questi capitali e risorse in sfruttamento del lavoro umano. Non c’è da illudersi, questa battaglia sarà dura e senza sconti, bisogna discutere molto, riflettere altrettanto, ritrovarsi e andare a cercare i propri simili.

Anche in questa fase oggettivamente difficile, però, alcune certezze le abbiamo. Il rifiuto dei movimenti del no ad una cooptazione istituzionale, ma al massimo un uso tattico delle tornate elettorali ha fatto sì che queste lotte siano uno dei pochi bacini di opposizione di classe credibile al salvinismo e al suo combinato disposto di negazionismo climatico e dogma della crescita. Mentre gli obbiettivi dei media sono puntati sui barconi che arrivano dal mare, i feudi storicamente leghisti si scoprono (a mo di segreto di pulcinella) contaminati dal malaffare, dalla corruzione, dall’inquinamento e dalla devastazione dei territori e delle vite. La pianura padana pezzo a pezzo si svelerà come un’enorme terra dei fuochi e casi come quelli della Pedemontana veneta continueranno a moltiplicarsi. Le trame sono evidenti e il conto da pagare molto salato.

Da questo tocca ripartire, tocca assumersi la responsabilità della resistenza e immaginare e praticare i semi di un’anticipazione. Per collettivizzare la nostra immaginazione sarà importante incontrarsi, discutere, lottare assieme e fare festa in pieno stile No Tav nella seconda metà di luglio prima al campeggio studentesco e poi al Festival Alta Felicità a Venaus.

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