Dire NO ai nuovi lager è dire NO allo sfruttamento!
I turni di lavoro da 12 ore, 7 giorni su 7, 10 minuti di pausa e senza strumenti per lavorare. Gli operai pakistani erano stati assunti dalla Emmedue, e poi dalla DP Gomma di Castel d’Argine in provincia di Bologna tramite una catena di subappalti nella lavorazione delle componenti di gomma per automobili per conto di una grande azienda, la Agt, controllata da un gruppo austriaco.
Costretti a dormire in 40 dentro alloggi fatiscenti insieme a ratti, e obbligati a versare almeno 600 euro dallo stipendio di 1200 o 1300 euro ai caporali. Il salario è a cottimo: il caporale annota i pezzi di semilavorati da sbavare e rifinire preparati dagli operai e poi stabilisce la somma di denaro da corrispondere, trattenendone grossomodo la metà.
Nessuno otteneva mai una copia del contratto di lavoro e uscire dalle “grazie” del caporale significava quindi pregiudicare la propria regolarità nel territorio nazionale e avere grossi problemi con la cittadinanza, visto che molti sono richiedenti asilo o con permesso umanitario.
Questa storia di sfruttamento è emersa alle cronache su iniziativa del Sicobas di Bologna e denuncia tramite studio legale. Oggi sulla cronaca locale di Repubblica è stata pubblicata l’imbarazzante e imbarazzata intervista al presidente del sindacato dei prefetti nonché presidente della commissione territoriale per i richiedenti asilo di Bologna che ammette l’esistenza del caporalato anche in regione.
La questione, per niente eccezionale nelle regioni del Nord Italia, come segnalato dalle lotte contro le forme di caporalato nel settore della movimentazione merci, ha grosse e numerose implicazioni politiche e ci parla degli strumenti legali e illegali di cui lo sfruttamento dispone per piegare migliaia e migliaia di operai alle esigenze di profitto dei padroni: dal livello più basso, esplicitamente violento e brutale dal caporale, fino ad arrivare al vertice della catena dove la forza lavoro atrocemente estratta si “volatilizza” nelle operazioni finanziarie di multinazionali e banche d’affari.
Da questo punto di vista non possiamo però non legare a storie come questa la vera e propria ossessione che ha spinto negli ultimi anni i governi ad allestire ogni sorta di strumento utile a spezzare la forza politica dei settori di classe largamente impiegati nell’industria agricola, manifatturiera e logistica, uno tra tutti la riapertura e/o la maggiore diffusione sul territorio nazionale dei CPR, l’attuale sigla con cui prima Minniti ed oggi Salvini chiamano le strutture di internamento ed espulsione per migranti privi di permesso di soggiorno.
Tutte le forme istituzionali di contenimento e regolazione del movimento della forza lavoro sono nella civiltà capitalistica provvedimenti che si adeguano alle esigenze di profitto e sviluppo del capitale.
Tra le più estreme, e allo stesso tempo sempre impiegate e perfezionate, c’è la prassi dell’internamento di ampli settori di classe a seconda dei contesti e delle necessità dettati dall’accumulazione di quattrini.
Nella specifica situazione italiana d’oggi non stupisce che sia Minniti che Salvini abbiano rilanciato in pompa magna l’allestimento di edifici di internamento per migranti senza permesso di soggiorno: al capitale in Italia nel contesto della crisi globale non piace giocare la carta dell’innovazione tecnologica, preferisce più prosaicamente scaraventarsi sui livelli più bassi della classe e succhiare più vita possibile per trasformarla in valore.
Alla faccia della retorica del futuro smart e cool con cui ci tartassano le chiacchiere dei politicanti e le pubblicità delle multinazionali. I CPR sono quindi strumenti d’attacco contro quei segmenti di classe più sfruttati ma anche più pericolosi per il padrone che ha visto emergere soprattutto nell’ultimo decennio un circuito di lotte, agite soprattutto da operai migranti, capaci di “mettergli le mani nelle tasche e nel portafoglio” e a volte anche a incidere, con rigidità e conflitti, nella relazioni industriali, a partire soprattutto dal settore logistico.
Da questo punto di vista lottare per la libertà di movimento e scagliarsi contro l’apertura di nuovi lager per migranti è lotta di classe e solidarietà operaia. Significa prendere parte all’accumulazione di potere politico della nostra gente contro la spietata e vorace estrazione di valore (quattrini) da parte del padrone.
Tutte le chiacchiere e le oscenità che ci tocca sorbirci anche da quella sinistra che si riscopre nazionalista e che ormai non ha manco più pudore nel plagiare a suo uso, e banale, consumo il famigerato “esercito di riserva” dell’oltraggiato Marx, davanti agli operai pakistani di Castel d’Argine e alla loro condizione, comune a migliaia e migliaia di operai nel nostro paese, appare per quello che è: l’utile idiota della situazione che al posto di prendere il punto di vista della classe, prende quello dello Stato, sovrano, strumento e comitato d’affari del capitale.
Lottare contro i lager per migranti e per la libertà di movimento deriva certamente da una precisa intransigenza etica, ma il suo fondamento politico è nella classe, nelle sue esigenze e movimenti, nelle sue forma esplicite e più nascoste di rifiuto allo sfruttamento, è odio contro il padrone.
Da qui deriva la necessità per chi vuole prendere parte alla battaglia di una comunicazione polita ostile alla ragione umanitarista che scompone la nostra gente sulla linea della razza, del genere e nei risvolti dell’interesse politico e amministrativo come nel caso della coppia rifugiato-migrante economico, e adeguata a fare spazio politico ad alcuni dei segmenti della classe più incendiari e carichi di potenzialità antagoniste.
Abolire le strutture di internamento per migranti è lotta di classe, è dare più forza a tutti gli operai che si trovano nelle condizioni dei ragazzi pakistani della provincia bolognese di ribellarsi al caporale, e nello sciopero e nella vita di tutti i giorni esprimere con più forza politica il grande amore che muove la nostra gente: l’odio per il padrone.
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