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Lo stadio finale di Israele: tra autarchia e capitalismo di rapina

L’immagine di invincibilità che lo stato sionista sta cercando di ristabilire sul piano militare non può nascondere i segni della sua corsa, irreversibile, verso un capitalismo di rapina.

Cyril Lionel Robert James, teorico marxista e militante anticoloniale dei Caraibi, ragionando su “Il 18 Brumaio di Napoleone Bonaparte” di Marx, sottolinea una semplice differenza tra gli stati autoritari e quelli dittatoriali: nelle dittature come il fascismo ed il nazismo ci sono le camice nere o quelle brune, dei corpi paramilitari che svolgono il lavoro sporco per conto del partito al potere e che progressivamente si installano all’interno dello Stato conquistando ruoli preminenti. Mentre i regimi autoritari utilizzano gli strumenti statuali per restringere le libertà, le dittature fasciste sottraggono il monopolio della violenza allo stato mettendolo direttamente nelle mani del partito. Questo era vero per Napoleone III, per Hitler e per Mussolini e oggi è altrettanto vero per quella che qualcuno si ostina a chiamare “l’unica democrazia del Medioriente”. Il ruolo che hanno svolto le milizie dei coloni in Cisgiordania da decenni a questa parte è indicativo: essi hanno operato pressoché impuniti al di fuori di ogni legge, finché alcuni dei loro capi sono giunti ad occupare posizioni centrali nel governo israeliano. Certo, formalmente lo stato sionista tutela la libertà di stampa, la separazione dei poteri e altre dimensioni formali del diritto che interessano ai pensatori liberali, ma a livello sostanziale tutte queste dimensioni sono svuotate dal fatto concreto dell’occupazione e dell’apartheid. Magistrati, giornalisti, opposizione e la ridotta parte di opinione pubblica che pone qualche critica al regime sono dei suppellettili posti sulle mensole per gratificare le coscienze occidentali.

Non ci lanceremo in spericolati paralleli con il nazismo ed il fascismo, ma ci interessa provare a sottolineare le forme che assume nel suo stadio attuale il regime sionista. Una delle spiegazioni più interessanti della guerra totale portata dal nazismo in Europa e nel Mediterraneo è quella che introduce la nozione di “capitalismo di rapina”. La Germania di Hitler non poteva fermarsi dall’aprire nuovi fronti, conquistare nuove terre e imporre il proprio controllo sulle risorse dei paesi invasi perché altrimenti sarebbe semplicemente collassata sotto i costi dello sforzo bellico. Il complesso militare-industriale andava alimentato ad ogni costo per evitare la sconfitta, ma per alimentarlo andavano rapinati capitali, risorse e forza-lavoro dai paesi occupati. Dunque si formava un loop, in cui la velocità logistica della macchina bellica nazista, la sua apparente invincibilità almeno nelle prime fasi del conflitto avevano un ruolo fondamentale.

Nella foto una patch apparsa sulle divise dei militari israeliani che mostra le dimensioni del “Grande Israele”, dal fiume Nilo all’Eufrate. In questa configurazione comprenderebbe parti di Egitto, Iraq, Siria, Arabia Saudita, l’intero Libano e l’intera Giordania.

Sembra abbastanza evidente che la strada verso cui si sta imbarcando lo stato sionista sia proprio questa. Nonostante la sicurezza che il governo israeliano mostra in pubblico, le condizioni economiche in cui versa il paese sono tutt’altro che rosee: vi è una crisi economica iniziata ben prima del 7 ottobre e la guerra ha contribuito ad esacerbarne la portata. Tanto che abbiamo sentito Netanyahu pronunciare la parola magica: “autarchia”. L’autarchia è sempre stata il sogno impossibile del fascismo, cioè la speranza, vana, di poter costruire un’economia totalmente autosufficiente dal punto di vista della produzione delle merci. E’ implicito, per quanto possa sembrare paradossale, che l’autarchia ed il capitalismo di rapina sono due facce della stessa medaglia. Infatti per tendere verso l’autosufficienza serve un progetto espansionista che sia in grado di fornire materie prime, forza lavoro, terre e capitali. Il famoso Grande Israele, insomma.

D’altronde l’economia ha mostrato segni di cedimento nel secondo trimestre del 2025 con un calo del 4% del PIL. Il consumo privato sta vivendo una lunga fase di contrazione ed uno dei settori che sta trascinando l’economia israeliana è, guarda caso, quello delle costruzioni residenziali. Non per niente il ministro delle finanze di ultra-destra Bezalel Smotrich ha definito Gaza “una miniera d’oro” per gli affari immobiliari.

Non bisogna poi dimenticare che l’economia israeliana è in realtà relativamente piccola e fortemente terziarizzata (quasi per l’80%), anche se i settori strategici della difesa e dell’high tech rappresentano ancora delle nicchie importanti. Dunque di fatto esiste un problema di base industriale per sostenere la guerra, tanto più nel caso in cui gli alleati si mostrassero via via meno disponibili a rifornire di armi l’IDF per il genocidio o/e il ridisegno del Medioriente secondo la visione di Netanyahu.

Forse è in questo quadro che si può spiegare l’attacco israeliano sul Qatar: la presa d’atto che gli Accordi di Abramo non sono compatibili con le mire espansioniste e dunque possono essere sacrificati in barba ai mal di pancia statunitensi.

Il loop si è innescato già da tempo ed è irreversibile, per continuare ad esistere in queste forme lo stato sionista dovrà portare la guerra ben al di fuori dei confini della Palestina. Chi sta girando la testa dall’altra parte rispetto al genocidio di Gaza dovrà prenderne atto obtorto collo e trarne le conseguenze.

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