Chi non danza non sa cosa succede. Reportage ragionato e ritardatario sul Festival Alta Felicità
Nella spianata di Venaus, in borgata 8 dicembre, quest’anno si respirava un’aria diversa dagli scorsi anni. Chiunque avesse passeggiato brevemente tra le tende del campeggio del Festival Alta Felicità si sarebbe reso conto che aleggiavano dei sentimenti di curiosità e attesa che, negli anni passati, erano un po’ meno evidenti. Era chiaro che la lunga esposizione mediatica dell’ultimo anno sulla questione del treno ad alta velocità Torino – Lione aveva portato le persone ad interessarsi maggiormente della battaglia della valle e a provare a farsi un proprio punto di vista, da misurare con l’esperienza del festival.
Si può affermare che dopo le dichiarazioni di Conte il movimento No Tav è entrato a tutti gli effetti in una nuova fase, e bastava fare due chiacchiere davanti ai bar o ascoltare gli interventi ad un dibattito qualsiasi per accorgersene. Volendo collocare l’inizio di questa transizione si dovrebbe risalire a qualche mese fa con l’apparizione sulla scena delle madamine SI TAV che diventano rappresentazione incarnata del partito del PIL, partito che fino ad allora si era mosso in maniera mimetica senza esporsi su un piano immediatamente politico. In quell’occasione si è materializzato l’utilizzo della piazza in chiave reazionaria con una mobilitazione borghese che ha coinvolto all’incirca tutto l’arco dei partiti istituzionali (a eccezione dei 5 Stelle) e i suoi apparati territoriali. Però, la politicizzazione della vicenda da parte delle compagini politiche ed imprenditoriali ha portato a una polarizzazione dei fronti sciogliendo definitivamente la mistificazione che avrebbe descritto il TAV come un fatto solo tecnico, ma dimostrando che il tema della contesa erano delle visioni antagoniste dell’organizzazione della società, del lavoro in città e della distribuzione delle risorse. In qualche modo gli interessi venivano esplicitati e messi sul tavolo chiarendo la dinamica di classe a cui il movimento No Tav ha sempre alluso.
Leggendo i quotidiani prima e passeggiando per piazza castello poi, ciò che risaltava subito agli occhi era l’afflato identitario che ha caratterizzato la mobilitazione. La condiscendenza compiaciuta verso le madamin dell’alta borghesia torinese alla base dell’iniziativa (una è la presidente del rotary club di Crocetta…), il metterci la faccia da parte di manager, dirigenti bancari e di tutta l’aristocrazia cittadina, soprattutto il disgusto profondo per i brutti, sporchi e cattivi saliti dalle fogne del web e arrivati fino al governo del paese. Quelli che non sanno usare le H, gli idioti che non capiscono il Progresso e lo Sviluppo, i montanari che insistono contro le Grandi Opere Per Rilanciare il Paese. La TAV era quasi assente, e i partecipanti poco o nulla sapevano della Torino-Lione per loro stessa ammissione. C’era voglia innanzitutto di ri-cementare un’identità soggettiva dopo un decennio di erosione di egemonia della forma impresa come garante della miglior organizzazione sociale, della crescita dell’economia come misura del benessere e del mercato come orizzonte invalicabile della politica. C’era il piacere complice del riconoscersi, dopo tanti mesi di disorientamento, negli editoriali delle principali firme dei quotidiani torinesi. Ceto medio progressista e borghesia cittadina finalmente, di nuovo, insieme.[1].
La risposta di chi lotta contro il treno veloce non si è fatta attendere e in questo scontro esplicito ha portato in piazza l’8 dicembre 80mila persone, la più grande manifestazione No Tav a Torino, una delle più grandi in generale. Ma soprattutto ad esplicare l’ulteriore politicità di quella manifestazione era la composizione in parte innovativa rispetto al passato: moltissimi giovani, tanti dalla cintura di Torino e dalle zone limitrofe alla città, molti pendolari e una grossa fetta di valligiani tendenzialmente restii a scendere in città. Molte di queste persone che hanno affollato quella piazza le abbiamo incontrate nuovamente al Festival: sono persone spesso che non hanno vissuto e non vivono la quotidianità del movimento o la sua storia meno recente, ma che vogliono esserci nei momenti in cui è importante, nelle svolte cruciali.
Anche le motivazioni, i bisogni e le pulsioni che sottostavano al grande NO, erano significativamente composite. Queste probabilmente da situare in due archi temporali differenti: quello dei NO TAV “storici”, che hanno partecipato con differenti intensità alle varie vicissitudini dei trent’anni di lotta, e quello dei “nuovi” NO TAV, da non intendere solo in termini generazionali, forse di numero più esiguo, magari precedentemente simpatizzanti del movimento ma non attori diretti, attivati principalmente dalla contrapposizione che si è generata a partire dalla piazza del 10 novembre convocata dalle madamin. Va premesso che in tutte queste figure, come dimostrano le dirette facebook pubblicate dal corteo, vi era una certa dimestichezza, per alcuni versi inaspettata, con le motivazioni tecniche dell’opposizione al TAV, segnale che nella polarizzazione è stata forte la volontà di informarsi sulla vicenda in maniera individuale e indipendente[2].
Ci piace ricordare la veduta dall’alto di quel corteo
Nota di Metodo
Ciò che segue è il tentativo di mettere nero su bianco, tra immagini e parole, ciò che abbiamo potuto vedere, rielaborare, costruire durante i giorni del Festival Alta Felicità di questa estate. Il lavoro che ci ha permesso di buttare giù qualche riga di riflessione è nato dalla voglia di incontrare le persone che erano lì presenti, tra una tenda e l’altra, facendo quattro chiacchiere con una videocamera in mano e un bicchiere di vino offerto nell’altra. La ricchezza dei dibattiti e dei momenti di approfondimento che hanno costellato il Festival sono stati un altro importante spunto per sostanziare la riflessione. Così come la realtà di come sono andate le cose, perchè niente è qualcosa di già dato ma è tutto un processo che si avvera nel presente. Ed è andata così, che sabato 27 luglio eravamo migliaia a raggiungere il cantiere dando forma ad una marcia determinata, forte, piena di volti vecchi e nuovi, spartiacque tra un prima e un dopo. È un po’ quello che vorremmo raccontare in queste pagine, ciò che eravamo, ciò che siamo e ciò che si trasforma per renderci ancora più forti e l’incarnazione di una vera possibilità per l’avvenire.
Senza alcuna pretesa di esaustività nè di previsione ci teniamo a sottolineare che il lavoro di inchiesta che proviamo a riportare qui è il risultato di una ricerca spinta dalla voglia di conoscere e spinta anche un po’ dal caso, per quanto ci avessimo provato a darci delle indicazioni su chi volessimo intervistare. Non è sicuramente un campione sociologico quantitativo che ci interessa indagare, ma la peculiarità e la specificità di ogni persona, l’incrocio dei destini e delle storie, la volontà di lottare – nei modi più disparati – che accomuna chi decide di attraversare i luoghi della Val Susa, luoghi che la storia racconterà in un certo modo, ma che noi teniamo a raccontare così. Così come la viviamo, con tutta la soggettività del punto di vista, con tutta la consapevolezza dell’essere parte e non tutto, con tutta la giustezza dell’essere parte di un tutto che si vuole cambiare, lottando.
“L’unico compito di una mente pensante e amante della verità di fronte a una prima esplosione della rivolta degli operai slesiani, non consisteva nel sostenere il ruolo del pedagogo di questo avvenimento, ma piuttosto nel studiarne il peculiare carattere. A ciò si richiede soprattutto una certa perspicacia scientifica e un certo amore per l’umanità, mentre per l’altra operazione è più che sufficiente una fraseologia spedita intinta di una vuota compiacenza[3]”
Si tratta sicuramente di un certo amore per l’umanità a muoverci.
Capitolo Primo
Di fatto, come affermavamo allora, la mobilitazione delle madamine, della Confindustria e dei residuati bellici della sinistra lavorista, nel suo carattere reazionario, ha aperto la via alla più conseguente opzione leghista che si è intestata completamente la battaglia Si Tav, Si PIL, utilizzando come elementi di complemento il corredo di trombati dalla politica che affollava le schiere progressiste. Oggi, a ragion veduta, possiamo dire che la crisi di governo inscenata da Salvini si regge proprio su questa retorica e questo campo messogli a disposizione dalle mobilitazioni dei radical chic torinesi SI TAV che magari oggi lamentano il fascismo alle porte. Una dinamica tutt’altro che inconsueta: gli stessi che hanno le bandiere dell’Europa appese al balcone spianano la strada al sovranismo salviniano, se si guardasse oltreoceano si potrebbe leggere lo stesso processo nell’avvicendarsi dei democratici liberal di Obama con il trumpismo.
Lo scontro dunque, a questo punto, è stato completamente interiorizzato nella compagine governativa, rendendo anche più complessa l’iniziativa diretta del Movimento No Tav in cui molti nutrivano delle attese rispetto ai grillini e vedevano più vicino un possibile stop all’opera. Di fatto, dal punto di vista istituzionale, il No Tav è stato al massimo delle sue possibilità di incisione su un livello formale. Molti hanno creduto, prendendo atto di questo dato, che fosse possibile fermare l’opera su questo piano e dunque delegando ai 5 Stelle lo stop, complice anche una certa fatica fisiologica determinata da anni di resistenza sul territorio senza che nuovi cantieri venissero aperti e che dunque nuovi fronti di lotta potessero essere praticati. Il Movimento Cinque Stelle, incapace di comprendere la portata politica della lotta contro le grandi opere, ha tentato di spoliticizzare la contesa attraverso una “tecnicizzazione” dell’opposizione all’opera. Tralasciando l’aspetto di scarsa competenza del personale politico grillino, si può affermare che l’analisi costi benefici abbia avuto come genesi la volontà di far contare i numeri di una presunta razionalità capitalista del No, ma ha avuto come effetto la conferma che non conta alcuna razionalità, ma solo gli interessi di classe della borghesia parassitaria italiana.
L’arco della transizione si completa con la resa dei grillini al partito delle grandi opere e il pallino ritorna al movimento No Tav. Molti davano per scontato che l’eventuale approvazione del progetto Torino-Lione da parte del governo giallo-verde avrebbe definitivamente sancito la sconfitta di chi si oppone alla grande opera, ma la marcia del 27 luglio ha dimostrato che il movimento è vivo e vegeto e che ancora una volta sta mutando per adeguarsi alla fase e alle nuove sfide che impone. L’incrocio di contraddizioni che sono intrinseche della fase sovranista e della crisi climatica rispingono in alto l’attualità politica dei movimenti contro le grandi opere. Di fatto la più forte proposta contrappositiva sulle vie di uscita dalla crisi al modello salviniano è attualmente quella dei movimenti contro le grandi opere. Il keynesismo finanziario di cui Salvini si fa promotore affianca almeno tre elementi: un’integrazione differenziale e gerarchizzata della forza lavoro, una definizione dello spazio nazionale come luogo della competizione intercapitalistica e dal lato dell’impresa una distribuzione delle risorse pubbliche alle grandi multinazionali autoctone e ai piccoli e medi imprenditori parassitari. Il movimento No Tav congenitamente contiene la critica a tutte queste proposte.
La centralità di questa contraddizione, quella tra l’accumulazione e l’estrattivismo indiscriminato da un lato e la dignità della vita dall’altro attraversa confusamente tutta la frattura neopopulista e le sue ambivalenze. Le forme di organizzazione della distribuzione delle risorse nella società capitalistica vanno sempre di più distruggendo possibilità umane invece che (con comunque immani costi) potenziarle. Questo è l’enorme elefante sotto il tappeto, di cui tutti sono consapevoli, ma che nessuno ha il coraggio di nominare. Salvini riconosce questa contraddizione come centrale, come sistemica a tal punto da scegliere simbolicamente di iniziare la crisi di governo su questo terreno: sa che il pericolo peggiore per l’ideologia di rinnovamento capitalistico del sovranismo viene proprio da questa insopprimibile verità. Come provavano a riassumere i compagni della ZAD durante un’intervista che abbiamo fatto al Festival:
“Ogni volta che si generano delle separazioni nelle sedi amministrative, noi ne approfittiamo e vale anche l’inverso, cioè che loro ne approfittano dei nostri dissensi interni. Allora può darsi che l’attuale dissenso entro l’istituzione possa risultare utile alla lotta No Tav. In un certo senso, le rotture che si generano dentro l’amministrazione non siamo noi a crearle, ma per un altro verso sì: l’ampiezza del movimento, la sua celebrità, l’importanza data all’ecologia sono cose che toccano tutti quanti.”
Il No Tav in questo senso rappresenta per l’Italia il punto in cui questa contraddizione ha scavato più a fondo ed si è fatta “politico”. In qualche modo il Capitone fa sua tanto l’ideologia lavorista e crescitista del PCI, quanto la reazione neoliberista, finanziarizzata alle lotte di classe degli anni sessanta e settanta. Un minestrone del peggio.
Dall’inizio del governo giallo-verde il No Tav è stato uno dei pochi conflitti di classe che non sono riusciti ad incorporare e neutralizzare malgrado i tentativi, riconsegnandolo a un campo anti istituzionale e quindi di opposizione sociale. Nonostante ciò non bisogna pensare che si tratti di un ritorno al passato per due motivi: innanzitutto è una prima contraddizione evidente nel campo populista istituzionale che ha una sua materialità sociale e che ne è insieme anticipatore delle composizioni sociali neopopuliste e rivelatore delle sue inconsequenzialità, in secondo luogo per quanto il conflitto in Val Susa sia sempre stato locale, ma non localizzato, non ritornerà ad essere semplicemente il villaggetto dei ribelli, ma starà sempre di più sul piano del politico, praticato però nel sociale. Perché questo processo abbia seguito e venga potenziato centrale è il ruolo della soggettività e del riconoscere le linee di generalizzazioni possibili che aprano spazi che vanno oltre le lotte territoriali. In questo senso non si può pensare più che il No Tav possa essere autosufficiente, come non può esserlo nessuna lotta territoriale contro la devastazione ambientale[4].
Di fatto i conflitti contro le grandi opere, l’estrattivismo e l’inquinamento si moltiplicheranno esponenzialmente nei prossimi anni a causa del cambiamento climatico e delle ipotesi di risposta capitalista a questa sfida, tanto nel campo del negazionismo sovranista, quanto in quello del green new deal. Come si ripresenterà la composizione neopopulista che in controluce abbiamo visto tanto nel No Tav quanto nei Gilet Gialli di fronte a questa sfida? Come e se emergeranno delle linee di classe più chiare nei conflitti ambientali? Quali tendenze possono aprire a delle generalizzazioni e ricomposizioni di questi conflitti prima su un piano politico e poi sociale? Crediamo che questa sia una tendenza su cui scommettere, ben più di una semplice congiuntura, ma per fare questo è necessario uno sforzo delle soggettività organizzate che provino ad intuire i terreni di possibilità, le ipotesi di generalizzazione, le anticipazioni necessarie, le forme di autorganizzazione che già esistono e vanno valorizzate.
Il progetto di Salvini potrebbe essere messo in crisi dal presentarsi di un popolo reale e non solo virtuale, da un cortocircuito della delega populista deintermediata. Il Capitone si accorge di questo rischio e dunque prova a rilegittimare quei corpi intermedi che nelle prime fasi della crisi erano al centro della critica dei settori proletari: i sindacati e confindustria. Ma in questo c’è una certa dose di miopia, nessun patto sociale basato su questi soggetti è possibile oggi. Quello che è possibile è un’articolarsi ulteriore della contrapposizione tra questa compagine che forma il partito del PIL e chi invece coglie e sperimenta sulla propria pelle l’insostenibilità e i costi della crescita capitalista indiscriminata. E’ molto probabile che la crisi di governo non si risolva a favore di Salvini a questo punto, ma che veda un tentativo di mediazione a partire da un nuovo Green New Deal tra il Movimento Cinque Stelle ormai disinnescato dalla sua propulsione contrappositiva (almeno immaginaria) e ciò che resta della socialdemocrazia italiana (Di Maio dopo consultazioni Mattarella).
Una parodistica anticipazione del pensiero su cui si sta riarticolando il fronte liberal-progressista internazionale per fare da contraltare al sovranismo e un tentavo di salvare il capitalismo dalla sua stessa tragedia. Se abbiamo una certezza, però, è che nessuna soluzione alla crisi climatica potrà essere prodotta senza passare per la rimessa in discussione del mercato, dei flussi, della crescita, della rendita e dell’accumulazione, in parole povere del capitalismo! Ci dovremo far trovare pronti di fronte alle retoriche che abbiamo già sperimentato negli ultimi anni. Esercizi retorici e semplificazioni come “il treno è più ecologico dei camion” si moltiplicheranno e affineranno pur di mascherare che di fatto il problema non è come le merci vengono trasportate, ma l’essenza stessa di esse e della loro logistica. Ci troveremo a dover continuare a costruire un pensiero della complessità che sfidi l’ideologia della crescita ad ogni costo e che assuma una propria materialità ben al di là dei territori che sperimentano il rovescio di questa crescita.
“il rapporto tra la società e la natura non sia immediato e che il dato ambientale da solo non dica molto: trova una ricchezza di significato invece se messo in relazione alle modalità attraverso le quali le comunità umane e non umane si organizzano per garantire la propria riproduzione attraverso un modo di produzione. Il filtro tra quello che le società danno e ricevono dalla natura è legato al modo di produzione e agli usi e costumi delle società”[5]
Capitolo Secondo
Vedere ciò che sono stati quei cinque giorni di festival attraverso la lente della composizione ci permette di non fermarci all’analisi quantitativa che ha denunciato una partecipazione massiccia, quanto piuttosto di provare ad intuire in quali soggettività si annidi quel potenziale di forza che nell’anno a venire promette di non farla passare liscia ad una classe politica che con la salvaguardia ambientale si riempie solo la bocca e con le grandi opere il bacino elettorale. Vista la ricchezza di presenze, come redazione abbiamo deciso durante quei giorni di intermezzare le attività, i panini con la porchetta e le chiacchiere in politichese con una serie di interviste di campo semistrutturate [1] a persone che fossero un po’ random (perché il caso è un grande specchio di verità) e un po’ scelte (così da restituire la mescolanza generazionale, di genere, di provenienza geografica che ha animato la partecipazione al festival).
Sotto quel palco c’eravamo tutti…
Ciò ci ha permesso una valutazione dell’evento di più ampio spettro rispetto a quella che si sarebbe basata sull’esclusiva sintesi di punti di vista relativa alle proprie reti sociali o all’ambito dell’organizzazione. Le dimensioni attenzionate sono state principalmente due: quella più classica da festival, di partecipazione alle attività organizzate e svago personale, quella della marcia di sabato che invece si pone su tutt’altro registro. Rispetto a quest’ultima, è interessante cercare di leggere la composizione attraverso le analogie riscontrabili non solo in una fotografia statica dell’evento, ma nella processualità in cui la soggettività si crea e si riproduce; tentando quindi di capire genesi e la futuribilità del sentimento di protesta che si è manifestato sabato, allo scopo di intuire potenziali vettori di conflitto.
Oltre la zona rossa c’eravamo tutti..
La partecipazione è stata ampia ed eterogenea, con una rilevante presenza giovanile. Soggetti provenienti da tutta Italia e una parte dall’estero: reti di compagn*, giri più o meno larghi di movimenti per la salvagurdia dei territori e contro le grandi opere, una fetta sempre più consistente di persone sensibili alle tematiche ambientali, nonché gruppi giovanili di interesse e affinità da anni presenti all’Alta Felicità o per la prima volta attratti dall’offerta di un festival gratuito e autorganizzato. In questa fascia si distingueva una parte consistente di cognitariato torinese, in prevalenza giri di studenti. Mentre alla marcia, era presente anche una fetta proveniente da quella che si può definire “cintura estesa torinese” o dalla provincia. Giovani e meno giovani di Nichelino, Rivalta, Pinerolo, fuori dalle reti studentesche e dunque fuori dalla rete d’influenza di discorsi e pratiche che nel corso dell’anno si sono visti attraversare scuole cittadine, università, centri sociali e quartieri del centro. Ciò si può leggere come una dimostrazione della trasversalità e del potenziale di attivazione che la questione del TAV ha maturato negli anni in quei contesti urbani e peri-urbani che si trovano non scontatamente esposti alle retoriche di movimento.
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Un elemento fondamentale da rilevare è stata la permanenza dei NO TAV di lungo corso, presenti in prima fila alla marcia di sabato. L’abbiamo interpretata come l’inveramento di un’ipotesi politica già sostenuta da numerose dichiarazioni pubbliche nonché dall’esito della marcia stessa: il fatto che larga parte della dimensione storica NO TAV non si sia vissuta il rimangiamento della promessa dei 5Stelle come un tradimento e una conseguente sconfitta della battaglia contro il mostro. Ciò mantiene una sua logica considerando che storicamente i 5Stelle hanno condotto la loro campagna elettorale affidandosi in maniera consistente ai NO TAV e non viceversa, come poteva apparire in abbaglio nel momento in cui i pentastellati hanno varcato le sedi istituzionali ergendosi fittiziamente a portavoci dell’antagonismo all’opera.
Incrociare osservazione, scambi informali e interviste ha mostrato come il festival sia stato occasione di un disvelamento nella pratica di una dimensione del consumo e del desiderio che si teorizza connaturata alla politicità del soggetto. Lì le persone erano coscienti di poter godere di una socialità differente da quella connotata dalle forme di delega e di abbandono a chi organizza gli spazi dell’intrattenimento istituzionali, i quali per la maggior parte vengono assegnati a scopo di profitto ai privati. Gli effetti di questa fabbrica dell’intrattenimento sono tristemente noti a chi li attraversa e nel corso dell’anno deve confrontare il proprio bisogno di una vita sociale con l’ingiustizia di interi quartieri stravolti e adibiti a imprese di consumo, per non parlare dell’impatto di quelle macchine da soldi e di usura territoriale che sono i locali, lidi e festival estivi. Da chi di norma si vive questo conflitto (essere partecipanti passivi di un processo che genera ingiustizia) è scaturita invece una certa solidarietà ed entusiasmo nel riconoscere la natura auto-organizzata dell’Alta Felicità. Non di rado è capitato che persone fuori dall’organizzazione si interessassero al suo funzionamento, fino magari ad arrivare ad auto-proporsi come volontarie per la prossima edizione del festival. Uno slancio partecipativo diffuso che ha saltuariamente visto una collaborazione logistica ed emotiva.
Con ciò non si vuol dire che il festival nel suo format non mantenga una distinzione tra forze organizzative e partecipanti (la partecipazione è così ampia ed estesa ad ogni fascia di età proprio perché ogni anno si riesce ad assicurare un certo numero di servizi), ma che dall’interazione anche solo virtuale delle due parti si sono posti gli elementi per cui risultasse chiaro come a condizione dell’ozio, della socialità e delle forme di intrattenimento vissute vi fosse l’appropriazione collettiva di uno spazio abitabile in mezzo alla natura.
E nel momento in cui si riconosce in quello spazio un terreno che va difeso affinché il benessere proprio e altrui possa perpetuarsi, la presenza richiede l’appropriazione consapevole di una postazione di lotta territoriale. Il fatto che come organizzazione quest’anno si sia scelto di di conferire un certo peso alle ragioni politiche dell’evento, ha denunciato che alla base di quelle cinque giornate vi fosse un movimento di lotta di cui i nuovi partecipanti non hanno memoria storica, ma riconoscibile come la condizione essenziale della forma di socialità ed entusiasmo sperimentata durante il campeggio.
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Entrando nel merito della marcia di sabato: la maggioranza dei partecipanti mostrava un entusiasmo spontaneo, manifestando al contempo una certa fiducia nell’organizzazione (notare una continuità tra i volti visti al campeggio e quelli che guidavano sui sentieri ha sicuramente favorito). Vi è stata una certa perseveranza generale nell’affrontare i momenti di tensione. Dai primi agli ultimi lacrimogeni si arretrava, ma senza fuggire, per poi ricompattarsi e rinnovare la propria presenza, talvolta anche attraverso cori e slogan. In generale, anche se la tensione non ha mai raggiunto picchi molto alti (non vi è stato alcuno scontro diretto), si avvertiva una certa tendenza delle persone a viversi la violenza in maniera pacifica, ma non pacifista. Alcuni intervistati, mentre si era sotto al cantiere e allo sguardo degli sbirri, hanno dichiarato la loro determinazione nell’arrivare fin lì, accompagnandola con delle osservazioni sull’atmosfera di gioia e di trasporto che si respirava (sì, anche tra i gas).
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Vi è un legame stretto tra delle istanze circostanziali di lotta e le necessità che la composizione esprime, prima tra tutti il desiderio di manifestare la propria disistima nei confronti del ceto politico. La potenza della giornata di sabato, a pochi giorni dalle dichiarazioni dei pentastellati, è stata infatti l’ennesima dimostrazione di una frattura profonda tra rappresentanza istituzionale e rivendicazioni popolari, ma da questa crepa erano già uscite, nel corso dell’ultimo anno, molte voci e manifestazioni di rabbia. Chi ha riempito le piazze durante l’8 dicembre e il primo maggio, chi ha inforcato la bicicletta insieme ai riders, chi si è ripreso le strade in risposta all’ennesima prova di forza della contro-parte repressiva, non sembra disposto a cedere sulle proprie rimostranze. E anche la narrazione mainstream della violenza come caratteristica di chi in politica parteggia per il caos, inizia a dare segni di cedimento. Nel momento in cui è lo Stato o chi per lui a mostrare subdolamente o manifestamente il carattere del violento, pur di sotterrare le ragioni di chi accusa sulla propria pelle gli effetti deleteri di politiche volte a riprodurre una logica di profitto sullo sfruttamento, di estrattivismo incondizionato e di emarginazione sociale (se non di vera e propria stigmatizzazione), la resistenza e l’azione di chi ne riconosce l’ingiustizia acquistano un orizzonte di senso.”Le menzogne vanno ben protette, lo sappiamo bene, ma così è veramente troppo! Siamo felici della scelta che abbiamo fatto, e siamo ancora più consapevoli di chi sono i nostri avversari”[6].
È positivo che nel corso di quelle giornate di fine luglio si sia espressa la volontà di costruire una propria narrazione collettiva all’interno del movimento, in quanto ciò manifesta la necessità di tenere unito il fronte di lotta. La sfida adesso è quella di una costruzione più a lungo termine di questo fronte, che faccia degli spazi discorsivi e fisici una risorsa sia per guadagnare terreno sia per fornire alle soggettività lo attraversano gli strumenti per un riscatto esistenziale che nell’agire comune trova la propria forza.
[1] Le interviste si sono (semi)strutturate così: dicci cosa ti viene in mente quando diciamo le parole SVILUPPO-NOTAV-CORRUZIONE-AMBIENTE
Capitolo Terzo
Venaus. Borgata 8 dicembre. Festival Alta Felicità 2019. Esiste in altro luogo un toponimo che prende il nome da una battaglia del nostro secolo, ci si chiede dal palco dell’Arena durante il dibattito sulle ragioni del NO al Tav. Si snocciolano le ragioni tecniche, perchè un movimento che dura da 30 anni ha studiato per 30 anni tutto quello che serve per avere una ferra logica del NO. Inoppugnabile, nonostante i difensori del sì provino a smontare argomentazioni supportate da studi scientifici e tecnici, ma ciò che rende il movimento NO TAV qualcosa di unico nel suo essere coerente è l’aver costruito una lotta reale su tutti i fronti. Una lotta che si radica in un territorio ben preciso, che racconta la sua storia di resistenza, che si identifica in pratiche di occupazione, di volontà di vivere in altro modo. Una lotta che si sviluppa su uno spazio geografico dove si combattono battaglie, dove ci sono terre da difendere, dove si riprendono pezzettini invasi dalla controparte e che lo trasforma in spazio politico. Perchè è lì che si intrecciano legami nuovi, fuori dalla logica individualizzante del modello di società in cui viviamo e perchè è lì che si colpisce laddove il potere si rappresenta, nei flussi economici e nelle contese militari. Il conflitto si muove su piani alti, il cantiere, le autostrade, la città. È lì che il movimento NOTAV ha capito che bisogna incidere, dare un segnale forte e determinato, da 30 anni fino a quando non avrà vinto.
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Qualche mese fa. Inverno. In viaggio per Parigi. Stava succedendo qualcosa di grande da quelle parti, le rotonde delle strade provinciali si erano affollate di cittadini della République Française che indossavano gilet gialli non per segnalare un incidente in autostrada ma per segnalare che qualcosa doveva cambiare radicalmente.
Attorno a un falò fatto da pallet di recupero una signora racconta che ogni giorno fa 20 chilometri per raggiungere il presidio, vorrebbe starci giorno e notte ma la sera è obbligata a tornare a casa per accudire il marito malato. È preoccupata per il futuro dei suoi figli, di quanto si debba pagare per affittare una casa, per mangiare. E intanto, da settimane, l’obiettivo è incidere su un piano che è direttamente fastidioso per la controparte : riprendersi degli spazi, ricostruire legami ma soprattutto colpire i flussi economici, bloccare e paralizzare un Paese, che significa mettere in crisi un meccanismo, colpire gli ingranaggi del sistema capitalista.
La certezza, da una parte all’altra delle Alpi, è che si debba agire a partire dal fatto che il territorio in cui si vive, si lavora e si consuma debba ritornare ad essere un bene comune attraverso la ripartizione della ricchezza sociale. Ciò può diventare possibile perchè lo si intende come lo spazio reale in cui si sviluppano relazioni sociali, economiche e politiche, e dove si intrecciano interessi e nodi fondamentali della produzione. È in quello spazio reale che si tracciano le linee tra amici e nemici, altra certezza da sempre presente nel movimento NOTAV e che oggi permette di ritrovarsi in una posizione privilegiata rispetto alla crisi della rappresentanza politica in Italia e del fallimento dei partiti. Perchè ha permesso al movimento NOTAV di sapere sempre da che parte stare diventando l’incarnazione stessa di questa possibilità. Per i gilet gialli è evidente come bloccare i caselli autostradali, presidiare, interrompere flussi economici, riprendersi il territorio significasse anche questo : un frapporsi negli ingranaggi del sistema di produzione per impedire che proceda indisturbato grazie a chi paga e non viene pagato andando a ingrossare le tasche altrui.
Pedaggio gratis…
Si può seguire una mappa di google maps che indica tutte le rotonde occupate attraverso il simbolo di un gilet, è una macchia gialla sull’esagono che ha come forza attrattiva la capitale. È successo sin da subito, in parallelo alla diffusione delle pratiche di lotta dei gilet gialli su tutto il territorio francese su nodi più o meno grandi, la volontà di bloccare e di arrivare alla punta più alta della rappresentazione dei poteri politico-economici, si è tradotta in manifestazioni settimanali a Parigi e in tutte le grandi città. In questo modo la lotta ha immediatamente puntato in alto, nel vero senso della parola: invadere gli Champs Elysées, vialoni tempestati di opulenza e sfacciataggine mai più attraversati dal Sessantotto in poi, colpirne Louis Vuitton e Jaguar, ribaltare le certezze di ricchezza dell’alta borghesia. Immediatamente, per contenere le conseguenze senza precedenti, la controparte sentendosi messa alle strette ha risposto con una strategia di ingabbiamento fatta di armi, griglie, perquisizioni, ripercussioni giuridiche trasformando la città in un flipper senza via d’uscita.
“Hanno pensato di poterci sotterrare, ma non sapevano che eravamo semi.”[7]
Oggi, Val Susa, estate di lotta 2019, le dichiarazioni di Conte cambiano la rotta, già di per sè poco credibile, e il M5S, che ha usato le ragioni tecniche notav per depoliticizzare la lotta, si liquefa nelle solite dinamiche di palazzo. Alla tavola rotonda NOTAV, assemblea conclusiva dei quattro giorni del festival, si percepisce una nuova consapevolezza, un vento nuovo che chiude definitivamente con gli spifferi lasciati aperti ai 5 stelle e che ribadisce l’assenza di delega e la volontà di guardare avanti. Con la potenza della marcia al cantiere di sabato 27 luglio, con la potenza delle parole di Nicoletta che ringrazia tutti quei giovani per farla sentire giovane, si respira aria di lotta. Si intravvede dunque la possibilità di una nuova fase del movimento che, come alla moda sua, non guarda indietro per un insano spirito di conservatorismo, ma sta per fare un nuovo salto nel futuro.
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“a volte la storia ha bisogno di una spinta, e quella spinta bisogna darla sul serio”[8]
Lele Rizzo, nel suo intervento, sottolinea come il movimento NOTAV sia ancora in vita proprio perchè è difficilmente definibile, perchè il movimento è fatto dal popolo e la sua vera forza è la capacità di tenere insieme tutti. È importante soffermarsi su cosa significhi che dentro il movimento ci sia il popolo reale. Un popolo che marca una differenza, che offre una possibilità, ossia quella della lotta e di una prospettiva che mette come posta in palio il “costituirsi come comunità umana di individui sociali non basata sulla competizione”[1]. In un mondo in cui la comunità che ci resta si aggrega attorno a sentimenti di rancore e appartenenza nazionale, come tendenza che va verso la disgregazione del proletariato, il movimento notav così come, in maniere e tempi differenti, il movimento dei gilet gialli dà una possibilità. Fino ad ora si è concretizzata nella costruzione di legami sociali altri e nell’opposizione metro per metro all’opera, oggi la riprende in mano, forte di tutto quel pregresso e capace di ripartire da quelle basi, andando nella direzione di verticalizzare la lotta. Lo dice bene Lele Rizzo, oggi si chiude una fase in cui chi più e chi meno si era affidato al M5S ma che allo stesso tempo, durante questo anno, si sono date delle riposte politiche importanti, a partire dall’8 dicembre a Torino in risposta al fasullo e temporaneo fronte del SI delle madamine, passando per il corteo del 23 marzo a Roma in cui si sono dati nuovi stimoli e linguaggi alle lotte territoriali, arrivando alla manifestazione di sabato 27 luglio in cui si è riusciti a praticare l’obiettivo che ci si era prefigurati. Questo significa che il percorso di delega si chiude definitivamente e che si apre una nuova fase in cui, con la serenità che contraddistingue il movimento notav, si ragiona su come andare avanti con maturità.
Resta fondamentale individuare come si produce e come si è prodotta questa possibilità che il movimento ci regala. Si è parlato di popolo reale e da sempre la definizione che viene assunta quando si parla della lotta notav è di movimento popolare. Come si ricordava anche prima, la garanzia di tenuta del movimento si può individuare proprio in questo: il fatto che sia composto da soggetti reali, dalla capacità di tenere insieme tutte le sue anime ossia la consapevolezza che tutte le forme di lotta praticate siano importanti ma nessuna di esse sia esaustiva in sè. Un altro elemento da tenere in conto è il fatto che non si sia sentito mai il bisogno di formalizzarsi all’interno di canali istituzionali. In questo senso, organizzazioni come partiti e sindacati sono state oggetto di una critica che se da un lato sta nella crisi della rappresentanza politica generale, dall’altro fa il passaggio ulteriore di non avere paura di organizzarsi in forme considerate al di fuori di una legalità e quindi non riconosciute come legittime e anzi, sempre represse. Anche i gilet gialli in Francia marcano oggi questa differenza perchè hanno avuto la capacità di svelare il ruolo dei sindacati facendolo in maniera tempestiva e immediata, portando avanti la lotta autonomamente.
Place de la République 21 mars 2019
Un impercettibile ma fondativo filo unisce questi due movimenti ed è il superamento dell’inganno che l’unico senso possibile di appartenenza a una comunità passi attraverso il rancore e all’attacamento a quel poco che ancora si possiede. Il nucleo attorno al quale ci si stringe per agire un obiettivo di trasformazione comune è l’esistenza stessa e come la si conduce. Non c’è differenza identitaria tra chi appartiene al movimento no tav o tra un “gilet giallo” e un individuo qualsiasi della società, la sola differenza è che si è scelto di lottare. Facendosi aiutare da un libro, già citato precedentemente, scritto da Raffaele Sciortino si può provare a fare una riflessione su chi sia il nuovo proletariato oggi. Secondo Sciortino, il soggetto proletario non si colloca più al di fuori del capitale mantenendo una sua identità operaia forte ma ne è del tutto dentro, nell’esserne all’interno si pone comunque in una posizione di cittadino arrabbiato, perchè inascoltato, e deluso perchè le promesse non vengono mai mantenute. I cosiddetti neopopulismi oggi portano a compimento questo processo di fine della classe lavoratrice che si trova quindi sciolta nella società ma che non è priva di reazioni alla crisi: a (s)comporla si incontrano e si sovrappongono quindi due tendenze quella cittadinista democratica e la reazione sovranista.
“il terreno [della reazione] non è esclusivamente quello della denuncia delle condizioni di vita peggiorate, ma direttamente della politica, giocato sul piano costitutivamente scivoloso di noi contro di loro[2] . La radice profonda di questa ambivalenza sta nella collocazione oggettiva del proletariato e dei ceti medi all’interno dell’odierno sistema di produzione che ha distrutto o sussunto gli spazi ancora autonomi di riproduzione materiale e simbolica della vita sociale. Tale internità combinata con un relativo margine di riserve economiche pur a fronte di un futuro sempre più nero, dà luogo a una situazione contraddittoria : le soluzioni ricercate per uscire dalla crisi che non è solo economica ma di senso, vanno nella direzione di una comunità che, se è già un primo tentativo di andare oltre l’individualismo neoliberista, è però ancora tutta interna a questo sistema di vita e di produzione, ciò che lo rende foriero di rischiose contrapposizioni tra un noi e un voi secondo linee non di classe ma di altro tipo: nazionali, etniche, territoriali e di genere.”[3]
In questo contesto se si guarda a chi sono quelle persone che indossano il gilet giallo ogni settimana da quasi un anno a questa parte, ci si accorge che sono normali individui, integrati nel sistema capitalistico come tutti, sono e si autodefiniscono i cittadini della repubblica francese. Essi portano istanze sociali che potrebbero svilupparsi sulle direttrici delle due tendenze accennate prima, ma che invece avanzano altre reazioni che vanno nella direzione di oltrepassare la contrapposizione tra un noi e un loro che rischia di tradursi su linee di genere, razza e di confine nazionale ma che si pongono su un piano più alto che è quello del conflitto, individuando chiaramente di chi sono le responsabilità. Sono dunque in grado di andare a ribaltare quelle dinamiche alienanti e disgregatrici proprie delle relazioni tra individui sociali che stanno nella società capitalistica “formando una comunità che nulla o poco ha di presupposto, e quasi tutto da costruire”[4]. È ciò che da sempre ha fatto il movimento notav, attraverso le pratiche e le forme che si è dato, attraverso la capacità di tenere insieme tutte le anime del movimento, composto da persone normali che producono e consumano ma che aspirano a un qualcosa di altro. Il rovescio dunque dell’individuo sociale è una tendenza che permane e che è stata anticipata dal movimento notav e che oggi potrebbe essere spinta ancora un po’ più in là.
Cartoline dall’8 Dicembre NoTav a Torino
È quindi attraverso la lotta che si articola nella contrapposizione al sistema capitalistico e chi paga i costi di questa crescita, che il movimento notav e i più recenti gilet gialli indicano uno spiraglio nelle maglie del capitalismo. Perchè si ha la lucidità di individuare e colpire i nervi scoperti del sistema di produzione, incarnando una parte reale che non gioca per posizionamenti politici ma che lotta per le condizioni di esistenza di sè e del mondo. Il fatto che la critica che fa il movimento notav alla grande opera non si limiti ad essa ma che tenga insieme una più larga critica a un sistema e a un concetto di sviluppo e di progresso da rifiutare ed arrestare ne è la garanzia.
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Ma è anche il fatto che da sempre si vogliano denunciare la questione della spesa statale e del debito pubblico, delle inflitrazioni mafiose negli appalti, della corruzione, della finta creazione di posti di lavoro, degli interessi delle istituzioni e dell’assenza di guadagni per i cittadini che si elabora “una forma situata di critica di quello che è diventato il capitalismo finanziarizzato a partire dai suoi effetti percepiti come distruttivi sull’insieme di un territorio”[5]
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Tutto questo delinea un orizzonte al quale guardare. Queste lotte si collocano in un panorama polarizzato tra blocchi sociali completamente integrati anche nelle loro reazioni al sistema capitalista tracciandone un solco, una linea di demarcazione, spingendo per uscire da questa dinamica. Il movimento NOTAV ha mostrato questa differenza latentemente da sempre e oggi tocca a noi guardarlo con queste lenti che ci permettono di leggere questo momento come un possibile passaggio a una nuova fase cominciata quest’anno e che gioca una partita su un piano più alto del politico. Per i gilet gialli questo passaggio è avvenuto più in fretta, alcune spiegazioni si possono trovare nella differenza dei territori, nella diversa conformazione dei rapporti tra centro e periferia, nei giochi geopolitici che si consumano a livelli diversi rispettivamente in Italia e in Francia e nel posizionamento dei due Paesi a livello europeo e mondiale, nei modelli statali e nella loro specifica organizzazione della riproduzione sociale, del controllo e del disciplinamento. E probabilmente in molto altro.
Nell’esasperazione di violenza e perdita totale di umanità come unica forma che potrebbe assumere il nostro mondo e che evidentemente già ci travolge con i primi segnali irreversibili, dallo scioglimento dei ghiacciai agli incendi in Siberia, dalle ondate di uomini e donne violati nei loro diritti allo sfruttamento devastante di umano e natura, dall’estrazione di valore fino all’ultima goccia all’assenza di redistribuzione equa, guardare avanti con lucidità scegliendo sempre la parte giusta dove stare non può che essere l’unica possibilità.
[1] Sciortino, Raffaele, I dieci anni che sconvolsero il mondo. Crisi globale e geopolitica dei neopopulismi, Asterios Editore Abiblio, 2018.
[2] V. Ian Bremmer, Noi contro di loro. Il fallimento del globalismo, 2018 in Sciortino R., I dieci anni che sconvolsero il mondo, op. Cit.
[3] Sciortino R., ivi, pp. 222-223.
[4] Ivi, p. 201.
[5] Ivi, p. 200.
Conclusioni sconclusionate
Terminiamo di scrivere queste pagine in una fine di estate in cui già molte cose sono cambiate. Dalla fine del Festival è passato un mese ma intanto ai piani alti si sono divertiti facendo cadere un governo per farne un altro all’ombra della calura agostana. Ci rendiamo conto che in un momento in cui il vento cambia, pur non cambiando mai niente, qualsiasi cosa che si provi ad esprimere rischi di essere già sorpassato, quasi anacronistico. Pensiamo però che ci siano alcune suggestioni che non passeranno mai di moda. Alcune certezze che vogliamo custodire e che, se non altro, possano servire di buon auspicio. I volti, il sudore, le parole di tutti coloro che hanno preso parte a questi quattro giorni di festival, che altro non sono che l’espressione di un popolo in rivolta che scrive la storia, valgono. La sensazione di apertura di una nuova fase del movimento NO TAV, così come abbiamo provato a raccontare, che si allinea sugli animi in subbuglio che vanno oltre il nostro territorio nazionale, trova conferma nel fatto che cambia un colore al governo ma non significa affatto che per noi sarà in discesa.
In ultima battuta è importante segnalare il crescente protagonismo della parte giovanile del movimento, che negli ultimi anni ha ritrovato protagonismo e iniziativa. Pur lontana dalla sua potenziale espansione massiva, questa nuova partecipazione, apre al movimento nuove e inedite possibilità. Soprattutto nel campo della riproduzione della militanza, con l’avvicendarsi delle generazioni, in un normale contesto di invecchiamento biologico anagrafico più che politico, di un movimento trentennale. Cresce l’interesse e l’attenzione per la questione del global worming e delle ricadute generali del cambiamento climatico, trovando però una soggettività giovanile situata geograficamente e storicamente, in un territorio in cui l’ecologia politica è stata praticata come dinamica di massa per decenni, e in cui le ricadute del capitalismo predatorio e distruttivo sono tangibili come fatti materiali che coinvolgono le vite di moltissimi giovani. Dagli incendi dei boschi e delle frazioni della media valle, alle inondazioni, le catastrofi evocate dagli efficaci discorsi di Greta e della mobilitazione globale di Friday For Future, non sono un dato posticipato al comunque vicinissimo 2050, ma sono fatti sociali, che hanno plasmato le giovani generazioni della Val di Susa.
Non saremo annoverati tra le fila di chi tira un sospiro di sollievo per il fascismo sventato, ricordiamo bene chi sono i nostri nemici. Forse sarà più difficile additarli, forse saranno più subdoli e meno sfacciati. Ma purtroppo li conosciamo da anni. In ogni caso, è ancora più importante oggi tenere bene a mente le possibilità che abbiamo per fuoriuscire e ribaltare il gioco di polarizzazione che prima sembra pendere da una parte e poi esulta per aver fatto vincere la democrazia, l’umanesimo, dall’altra. Certo è che c’eravamo, ci siamo e ci saremo sempre e come sempre A sarà dura !
Bonne Année
[1] Come scrivevamo qui https://www.infoaut.org/editoriale/da-torino-alla-val-susa-finalmente-un-po-di-lotta-di-classe
[2] Approfondimento “Chi c’era in piazza l’8 dicembre ?” https://www.infoaut.org/approfondimenti/8-dicembre-notav-chi-c-era-in-piazza
[3] Karl Marx, Glosse marginali di critica all’articolo “ Il re di Prussia e la riforma sociale, firmato : un Prussiano”, 1844. Grazie Raffaele Sciortino per averlo citato nelle tue pagine.
[4] Su ecologia politica e riproduzione sociale Intervista a Emanuele Leonardi https://www.infoaut.org/approfondimenti/l-ecologia-politica-sta-nelle-lotte-della-riproduzione-sociale
[5] Emanuele Leonardi, durante l’intervista su ecologia politica al Festival Alta Felicità
[6] https://www.infoaut.org/no-tavbeni-comuni/ed-e-stato-primo-maggio-notav Il nostro racconto del primo maggio NOTAV
[7] Guido, No Tav, alla Tavola Rotonda del Festival.
[8] Intervento di Lele Rizzo.
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