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Tamburini di guerra

Mentre gli stati continuano ad ammassare armamenti il tentativo di condizionamento dell’opinione pubblica sull’inevitabilità della guerra raggiunge nuove vette, tra giornalisti che lodano i benefici per l’economia dell’industria delle armi, propaganda nelle scuole e proposte politiche scellerate.

La spesa militare mondiale ha raggiunto nel 2023 il record storico di 2.443 miliardi di dollari con una crescita del 6.8% in termini reali rispetto all’anno precedente. Lo rivelano le stime diffuse dal SIPRI di Stoccolma che registrano un aumento netto annuale di oltre 200 miliardi, che da solo raggiunge quasi il totale dall’Aiuto pubblico allo sviluppo mondiale (Official development assistance – ODA) sempre nel 2023 (stimato a meno di 224 miliardi di dollari).

In testa alla classifica vi sono naturalmente gli Stati Uniti la cui spesa militare è aumentata dello 2,3%, superando i 900 miliardi di dollari: con un totale di 916 gli Stati Uniti restano di gran lunga al vertice con il 37% della spesa militare globale (oltre 3 volte in più della Cina al secondo posto). Pechino ha comunque aumentato sensibilmente (e per il 29° anno consecutivo) la propria spesa militare con un +6,0% che la porta a 296 miliardi di dollari (12% della quota globale). La spesa militare della Russia di Putin ha registrato nel 2023 un balzo enorme: +24% per un totale di 109 miliardi di dollari (terzo Stato al mondo).

Particolarmente indicativo è il dato aggregato dei paesi NATO che si attesta su 1.341 miliardi di dollari pari al 55% del totale.

Come si può notare in questo grafico elaborato dalla Rete Pace e Disarmo la sproporzione tra la spesa per il riarmo nei paesi che aderiscono all’alleanza occidentale e quelli che sono considerati i principali competitors globali è impressionante.

La spesa militare israeliana, la seconda più grande in Medio Oriente dopo l’Arabia Saudita: è cresciuta, dice il Sipri, del 24% per raggiungere i 27,5 miliardi di dollari nel 2023.

Il maggiore aumento percentuale della spesa militare di qualsiasi Paese nel 2023 è stato invece registrato in Africa, nella Repubblica Democratica del Congo (+105%), dove è in corso un conflitto di lunga durata tra il governo centrale e gruppi armati non statali. Il Sud Sudan ha per altro registrato il secondo aumento percentuale maggiore (+78%) a causa della violenza interna e delle conseguenze della guerra civile sudanese.

L’Italia secondo le stime del Sipri sarebbe in controtendenza, ma come fa notare ancora la Rete Pace e Disarmo:

Il SIPRI evidenzia un calo di oltre il 5% nella spesa militare italiana che non appare invece nelle cifre di Bilancio ufficiali e che probabilmente deriva da trasformazioni relative al cambio di valuta e all’inflazione. E’ vero che il cambio di Governo a fine, con l’avvento dell’Esecutivo Meloni, ha forse impedito il concretizzarsi di alcune decisioni di aumento. Ma è altrettanto vero che le stime per il 2024 (sempre tratte dai Bilanci ufficiali dello Stato) già raccontano di un balzo simile a quello in corso in tutto il mondo: la spesa militare italiana complessiva “diretta” per il 2024 sarà di circa 28,1 miliardi di euro, con un aumento di oltre 1400 milioni rispetto alle medesime valutazioni effettuate sul 2023. Una crescita derivante soprattutto dagli investimenti in nuovi sistemi d’arma: sommando i fondi della Difesa destinati a tale scopo con quelli di altri Dicasteri nel 2024 per la prima volta l’Italia destinerà una cifra di circa 10 miliardi di euro agli investimenti sugli armamenti.

Il campanello d’allarme per l’Italia rispetto all’aumento della spesa militare per adeguarsi ai parametri Nato viene da un’istituzione finanziaria che di certo non nutre antipatia per l’industria militare. Infatti l’avvertimento lo lancia l’agenzia di rating Moody’s: se l’Italia dovesse inseguire l’obiettivo di investire almeno il 2% del Pil nel comparto difesa, rischierebbe di compromettere il lungo e faticoso percorso di riduzione del debito intrapreso ormai da anni.

I Paesi più esposti ai costi del riarmo sarebbero l’Italia e la Spagna, stando a questa analisi, considerando che sono quelli su cui pesa un maggior “gap nella spesa per difesa” rispetto all’obiettivo Nato di raggiungere il 2% del Pil. Inoltre Italia e Spagna sono i due Paesi in cui si registrano “i livelli più bassi di sostegno popolare a ulteriori aumenti di spesa militare”. Nello scenario base, secondo questa analisi, il debito italiano salirebbe al 144% del Pil nel 2030, ma in caso di raggiungimento del 2% di spesa per la difesa questa quota salirebbe al 147%. In sostanza per sostenere la spesa militare l’Italia sarebbe costretta a tagliare in maniera significativa su altri capitoli di spesa pubblica applicando dunque un’austerity ancora più rigida di quella attuale. 

L’avvertimento si allarga anche a Gran Bretagna, Francia e Polonia (che in queste ore si è detta disposta ad ospitare testate nucleari sul proprio territorio, scenario che inevitabilmente porterebbe ad un ulteriore salto di qualità del conflitto con la Russia), in quanto “il debito di Germania, Italia e Spagna si avvicinerebbe ai picchi visti durante la pandemia, e li supererebbe in Gran Bretagna, Francia e Polonia”. In altre parole, la corsa al riarmo europea implicherebbe gli stessi scenari finanziari con cui l’Europa ha dovuto fare i conti durante gli anni della pandemia. Nel documento si legge che il massiccio riarmo dei Paesi NATO “complicherà gli sforzi di riduzione del debito e potrebbe indebolire il loro profilo di credito”, esacerbando il conflitto sociale.

In questo scenario i governi europei stanno aumentando gli investimenti militari ed i produttori di armi festeggiano. I nuovi ordini delle sette principali aziende del settore, tra cui Bae Systems, Saab, Rheinmetall e l’italiana Leonardo, hanno raggiunto la cifra quasi record di oltre 300 miliardi di euro.

Il problema dell’indebitamento a causa della corsa alla militarizzazione assilla non poco le elites europee che si trovano davanti un’opinione pubblica recalcitrante a farsi intruppare e che in più si dovrebbe sottoporre ad una “cura” a base di economia di guerra senza precedenti recenti. Il Draghi celebrato ad ogni tornata come il curatore di tutti i mali vorrebbe porre rimedio a questa situazione creando debito comune europeo per finanziare il riarmo. Una parte della partita che si giocherà alle prossime europee è proprio su questo tema: lasciare che siano i singoli paesi dell’UE a sbrogliarsela per raggiungere gli obiettivi di spesa militare, o, in varie sfumature, costruire un meccanismo comune? Nessuna opzione sul campo ad oggi con una minima capacità di incidere si pone il problema di interrompere questa corsa verso il precipizio. Scenari che chi ha studiato anche solo un po’ di storia alle superiori ha facilità ad accostare a quelli che portarono all’esplosione della prima guerra mondiale.

Nonostante i costi sociali e umani del riarmo, ancor prima della guerra, siano stigmatizzati persino da un’agenzia di rating che ragiona solo in termini di efficienza capitalista, dalle nostre parti assistiamo a cantori dell’industria delle armi. Molto scalpore ha fatto il dibattito su  “Il ruolo della ricerca militare nello sviluppo economico italiano” organizzato dal Gruppo Gedi e dalla società di consulenza fiscale PwC Italia, con il Direttore di Repubblica Maurizio Molinari, il ministro della Difesa Guido Crosetto, un paio di imprenditori delle armi. Lanciato da un “dossier” sul giornale.

Naturalmente tutto ciò accade mentre in televisione assistiamo quotidianamente a giornalisti da talk show che attaccano gli studenti e le studentesse che contestano gli accordi di collaborazione sulle tecnologie militari o dual-use con Israele tacciandoli a seconda delle sfumature dell’arco politico reazionario e liberale di ingenuità, ribellismo, di essere delinquenti o squadristi. E’ evidente che queste contestazioni toccano un nervo scoperto più esteso: è giusto che il sapere universitario venga messo a disposizione delle fabbriche di morte?

Intanto la propaganda di guerra ha sempre più spazio anche nelle scuole dove si assiste a volantinaggi per l’arruolamento nelle forze militari, ad incontri e gite come quella alla base di Ghedi.

Qui non si tratta più di sonnambulismo della classe dirigente europea, ma di una vera e propria volontà di preparare il terreno ad uno scontro globale. E’ necessario rafforzare e trovare delle forme di espressione politica del rifiuto della guerra che percorre le popolazioni europee, implementare strategie di diserzione dei progetti guerrafondai e trovare parole d’ordine chiare, comprensibili.

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