Tastiere, bastoni, passioni
Il concerto dei 99 Posse a Cremona, in solidarietà a Emilio, ha seguito alcuni giorni in cui la band è stata al centro di polemiche per un suo status fb («più bastoni, meno tastiere»). Per questa frase il sindaco ha inutilmente tentato di far saltare il concerto, trovando di fronte a sé l’ormai proverbiale lucidità e determinazione de* compagn* di Cremona, e un imprevisto alleato, quanto meno ideologico, nel cantante Frankie hi-nrg. Vorremmo articolare una breve riflessione a partire dalle sue parole non perché egli rappresenti in sé qualcosa di particolarmente rilevante, ma perché i concetti che ha espresso sintetizzano bene un certo senso comune (molto malsano) che ha prodotto negli ultimi anni notevoli arretramenti dell’iniziativa e della cultura antifasciste. Ha dichiarato che ”le tastiere possono picchiare più dei bastoni, se usate con intelligenza e cultura” e “l’arte può tornare a riunire i cittadini e cancellare il fascismo con la bellezza”; per poi aggiungere che «inneggiare alle foibe e ai roghi non è troppo dissimile dall’invocare i forni dei fascisti».
Il riferimento alle tastiere e alla bellezza/arte/cultura può piacere a chi non si è mai posto il problema concreto di arginare minacce reali: alla prova della storia, infatti, simili affermazioni non hanno alcun senso. è evidente che una sconfitta esclusivamente «militare» del fascismo non sarebbe sostanziale, come mostra il fatto che un fascismo militarmente sconfitto abbia potuto rinascere, insinuarsi e riprodursi socialmente e culturalmente dalla Resistenza ad oggi; così come è evidente che un certo tipo di arte, cultura e scrittura abbia contribuito e contribuisca a combattere, decostruire o ridicolizzare i deliri o i progetti fascisti, esercitando un ruolo fondamentale, talvolta anche primario. Ciononostante, nessun movimento o potere fascista è stato mai fermato o sconfitto con questi mezzi soltanto. Il fascismo è un movimento violento, che pratica la forza non considerandola peraltro un mezzo, ma un valore. Contro imbecilli del genere non basteranno mai la penna, il microfono, la chitarra, la tastiera. Non sono mai bastati, purtroppo, neanche i bastoni.
Per quelli che la (ben)pensano come Frankie hi-nrg, però, il problema non sta in questi termini. L’antifascismo militante non è efficace perché, se usa i bastoni, non può più associarvi una cultura. Il «bastone», per loro, è fascista in sé; e attaccare i fascisti o bruciare le loro sedi equivale addirittura a mettere gli ebrei nei forni crematori. Indubbiamente il fascista ama la guerra e l’antifascista la pace, il fascista la morte e l’antifascista la vita; ma non si capisce perché, se per imporre una società radicalmente diversa da quella che i fascisti immaginano non potremmo in alcun modo usare la violenza, dovremmo considerare antifascisti i fucili, le bombe a mano e gli esplosivi usati dai partigiani durante la Resistenza; o perché dovremmo cantare Fischia il vento e Bella ciao, celebrare l’insurrezione del 25 aprile. Se la violenza come tale fosse fascista, lo sarebbe anche tutta la Resistenza, di oggi come di ieri.
In verità, anche l’antifascista «pacifista» ammette l’uso della violenza, e pure nell’oggi: quello della polizia, per esempio, che dovrebbe sanzionare e reprimere tanto i fascisti quanto gli antifascisti militanti. La questione per l’antifascista democratico non è quindi, come sembrerebbe, l’uso delle armi o della violenza (la contrapposizione tra bastoni e tastiere) ma chi è deputato a usarle. Sicuramente, non noi. Perché? La ragione principale, e più interessante, non è storica o ideologica: l’idea che attraversa tanti status e tweet di critici delle forme che ha assunto il corteo di Cremona è che fascisti e antifascisti militanti sono la stessa cosa perché accomunati da un’analoga passione per l’esibizione muscolare, per l’estetica della forza. È l’inconscio dell’antifascista, prima ancora del suo bastone, ad essere accusato: pieno di contraddizioni politicamente imbarazzanti, unirebbe in un abbraccio deleterio l’esigenza di autoaffermazione virile con una sorta di incontinenza narcisistica (pronta ad associare proprio bastoni e tastiere: si usa la violenza in piazza, poi tutti a condividere le foto sul web).
È, si noti, un’argomentazione che si manifesta ogni qual volta occorre condannare una violenza politica, sia essa «antifa», «black block» o «No Tav»: queste cose sono state dette e ripetute alla nausea (anche e soprattutto dentro i movimenti) tanto dopo i fatti del G8 di Genova quanto dopo quelli del 15 ottobre a Roma, fino a questi giorni in relazione a Cremona. Il «violento» non sarebbe una persona che sceglie di usare la forza contro una forza più grande e oppressiva, ma un frustrato e un machista, un uomo in cerca di emozioni forti o, se è una donna, una persona che abiura alla sua differenza di genere. La critica dell’antifascista legalitario ai comportamenti militanti, non riuscendo a condannare i comportamenti stessi (almeno senza cadere in contraddizione con il patrimonio storico dell’antifascismo), dirige la sua critica e il suo sospetto sull’intenzione che questi comportamenti avrebbero a fondamento, e al loro presunto sfondo psicologico. La critica è qui squisitamente morale: assume la forma della squalifica antropologica.
Il rischio di confondere la pratica del conflitto con la sua sublimazione narcisistica è sempre presente: è immanente, anzi, a qualsiasi contesto di scontro o insubordinazione. Ogni azione si compie attraverso gesti, e ogni gesto è anche un segno, un geroglifico corporeo che si presta alla decifrazione, alla trasmissione politica come alla contemplazione morbosa o al voyeurismo. Non c’è contemplazione, ben più radicalmente, che sia psicologicamente innocente. Ma l’innocenza – giuridica, politica, morale – non è in alcun modo il nostro obiettivo. Detestiamo, anzi, ogni proposta più o meno celata di disinfezione morale dell’intenzione umana, di applicazione di un metro universale del morbo e della colpa ai pensieri e alle volizioni, a prescindere dall’etichetta fascista, liberale, pacifista o rivoluzionaria che l’idea di una simile opera di disinfezione possa portare sul dorso. Per noi l’antifascismo è anche una barriera contro il fanatismo torvo di chi pensa che la passione per lo scontro, la rabbia o l’odio debbano scomparire dal ventaglio delle emozioni umane, prima ancora che dal novero di strumenti che possiamo usare per reagire alla brutalità fascista o per cambiare le cose.
Non crediamo che ogni vibrazione vitale nei nostri petti ci conduca all’aberrazione, e vogliamo tutelare la pluralità immensa delle ragioni per cui, in diversi esseri umani, i petti possono vibrare. Una vasta letteratura accademica ha inculcato alle ultime generazioni la convinzione che l’opposizione all’ingiustizia si giochi sulla condotta individuale e sulla sua rettitudine rispetto a un orizzonte nei fatti ascetico, in fin dei conti imparentato con l’orizzonte di sacrificio e costrizione dei corpi che ci impone il capitalismo. Non condividiamo questa visione. Per noi non avrebbe senso lottare e batterci se non per un mondo e per una vita dove le passioni abbiano spazio e possano esprimersi. Non lasciamo a nessuna «autorità» morale, a nessuno specialismo di questa o quella «teoria», stabilire distinzioni universali tra passioni lecite e tristi, o tra ciò che abbiamo dentro e ciò che immaginiamo di sentire. L’orizzonte è la liberazione dei rapporti, non una scolastica della liberazione – o una medicalizzazione del dissenso sotto mentite spoglie, proveniente da fuoco apparentemente amico.
Ogni volontà di uniformazione morale cela il baratro della separazione irrimediabile dei vissuti e delle intelligenze; e se nel desiderio e nelle pieghe psicologiche risiede un rischio irriducibile per qualcuno o qualcosa, lo assumeremo, tenteremo di dare anche a questo un senso, una direzione, un’organizzazione (consapevoli che se un tale rischio non lascia indenni le pose che qualcuno può assumere dietro un passamontagna o un bastone, lo stesso vale per chi degrada le tastiere a pulpiti o scranni, nella folle presunzione di poter liquidare con un luogo comune un legittimo modo di essere del politico). Priva di argomentazioni sostanziali sul piano storico e politico, la critica legalitaria, pacifista o democratica dell’antifascismo militante trova, in questa sintomatologia falsamente profonda, l’ultima spiaggia per la difesa dell’inazione; perché è in fondo questo che l’ideologia dominante ci consiglia: restare immobili, perché in ogni fibra del nostro essere possiamo essere pericolosi.
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