Un passo avanti
Partiamo dai dati. Per Confindustria sono circa 291.000 i posti di lavoro a rischio nel 2012, a fronte di circa 100 tavoli principali da aprire di fronte al Ministero dello Sviluppo per salvaguardare i posti di lavoro in alcune delle principali aziende finite sotto i riflettori (Fincantieri, Irisbus, Eutelia per fare alcuni nomi). D’altra parte ci sono 357 suicidi dovuti alla crisi solo per quanto riguarda il 2009, secondo una recentissima indagine Eures, e la prospettiva di una nuova ondata recessiva globale.
In questo clima in cui la questione del lavoro è la principale nell’agenda del mainstream, le istituzioni parlano in diversi modi. Napolitano parla di ritornare al fondamentale accordo del 28 giugno, mentre tra le proposte del suo governo Monti c’è l’idea di “ammodernare” il sistema delle relazioni industriali italiano applicando la dottrina presente in gran parte dell’Europa, soprattutto di quella settentrionale.
Ovvero maggior potere alla contrattazione aziendale, in linea appunto con il famigerato accordo del 28 giugno, licenziamenti più facili e conseguente riforma degli ammortizzatori sociali. Una proposta che dovrebbe nelle intenzioni del legislatore favorire la crescita, ma che in realtà, deprimendo il potere d’acquisto e la fiducia del “cittadino-consumatore” non farà che alimentare spirali recessive.
Ma non c’è ammortizzatore sociale che possa sovvertire il trend attuale in cui si utilizza la crisi per imporre un fortissimo ribasso dei margini di potere contrattuale rimasto ai lavoratori. O meglio, non c’è ammortizzatore sociale capace di rilanciare una politica di stampo keynesista senza mettere a repentaglio i profitti e il controllo sociale sulla popolazione. La governance della crisi ha il solo obiettivo di utilizzarla per attaccare il più possibile i diritti dei lavoratori.
Non stupisce che, giocando il loro ruolo in questa governance in via di riammodernamento, i sindacati si associno alle grida che vediamo nei video degli operai Fincantieri, Irisbus, Ferrovie dello Stato in lotta: il grido “lavoro,lavoro” è l’unico che quei sindacati possano ascoltare, incapaci per volontà propria di offrire un rinnovamento della forma-sindacato che andrebbe a negarne le stesse basi attuali, quella concertazione che a furia di concertare ha portato allo sfacelo di oggi.
L’esempio fornito dalla vicenda Omsa ci fa vedere inoltre come i grandi gruppi economici in realtà non abbiano bisogno di essere in crisi per giustificare i loro processi di downsizing o di delocalizzazione. Tuttavia pone la questione necessario del ritorno dell’analisi dei rapporti di forza come grimaldello da utilizzare per impedire l’assoluto potere d’imperio delle aziende di gestire a loro modo le variabili determinate dal contesto di crisi.
E’ la dottrina liberaldemocratica che da Kelsen in poi cela nell’interesse generale costituito dalla forma-legge i processi che quelle leggi vanno a costruirle. Lo Statuto dei Lavoratori nasceva infatti dalle spinte portate dall’ampia conflittualità sociale degli anni ’60 che, in un contesto in cui il capitalismo nostrano ancora non eccelleva nella pratica delle delocalizzazione, permise comunque degli avanzamenti significativi per la classe operaia in lotta nelle grandi fabbriche e a cascata per gran parte del lavoro dipendente.
Ma in una fase in cui il mercato del lavoro è compiutamente globale, e’ il momento di sperimentare parole d’ordine nuove (che in realtà proprio nuove non sono, basti pensare a “meno orario, più salario“!) Nella complessità della situazione attuale, nella necessità di sostentamento immediato da parte di chi scende in piazza alla maniera degli operai Fincantieri, c’è bisogno di una lotta che superi la richiesta di lavoro per riprendere in mano il tema cardine del reddito. Che affermi con chiarezza che se la tendenza al ribasso è ormai irreversibile, se la produzione ormai è diffusa nei territori, ci vuole una risposta che vada oltre la difesa dell’esistente sempre più in via di marginalizzazione e incapace di difendersi in questo modo dagli attacchi diabolici di questi giorni.
Maria Meleti
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