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Bartleby 2.0


Scegliere: la ricchezza del possibile

Ci sono momenti precisi, momenti in cui delle scelte vanno fatte con coraggio e determinazione.

Bartleby nasce proprio da qui.

Noi ripartiamo da qui. Perché non sono tempi in cui la fase permette di stare fermi. Noi siamo in movimento contro la crisi. Uniti ed unite.

In tanti e tante a Bologna nel marzo 2009, a partire dal movimento dell’Onda Anomala, abbiamo aperto le porte di uno stabile universitario in via Capo di Lucca. Questa scommessa conteneva in sé un percorso lungo anni in cui l’elemento della ricerca politica era cardine e diamante del progetto. Per anni è stata questa la forza di Bartleby.

Il presente, l’oggi, invece ci parla di un’altra storia. Di una storia in cui questa ricchezza non viene più riconosciuta, la differenza diviene problema ed “ostacolo” anziché valore e bandita dal dibattito politico. Nell’ultima assemblea che abbiamo vissuto, pubblica e pubblicamente convocata, c’è stato un attacco frontale nei nostri confronti con parole quali “mettere alla porta” e “sabotaggio interno”, parole che non hanno bisogno di commenti. Il solito confronto propositivo e costruttivo degli anni passati, frutto delle differenze politiche che hanno sempre caratterizzato lo svolgimento delle assemblee, è venuto totalmente a mancare. In questo caso si è trattato di una forzatura interna costruita anche per il maledetto vizio del tatticismo.

Non ci interessa la miseria del presente.

Vogliamo sottolineare il fatto che la genealogia dello scontro in atto è interamente politica e che si è voluto evitare di dare dignità in forma di aperta discussione ai nodi politici di fase.

Rendiamo quindi pubblico ciò che ripetiamo da mesi all’interno delle nostre assemblee e che ci è stato sempre contestato fino ad invitarci ad andarcene, pensando così miopemente di “risolvere il problema”.

Crediamo che lo spazio politico di Uniti contro la crisi, le straordinarie lotte dell’autunno appena trascorso e la ricchezza del seminario/meeting di Marghera ci consegnino una nuova fase di movimento. Una fase che ci pone immediatamente l’urgenza e la necessità della costruzione di alternativa. Solo così sarà possibile uscire da questa crisi sistemica che mette essa stessa in crisi il postulato lotte-ristrutturazione-sviluppo e che infatti produce ancora più povertà ed inquinamento proprio nella ripresa economica.

Siamo di fronte ad un attacco alla democrazia sostanziale nel paese e non solo, vediamo crescere con forza il grido di una generazione stanca del ricatto della precarietà e delle nuove forme di povertà produttiva. Una generazione nella quale la categoria di “studente” non è sufficiente ma va ibridata nel suo rapporto con la valorizzazione capitalistica, con il suo carattere pienamente sociale e metropolitano.

Pensiamo che sia definitivamente tramontata ogni utopia possibile nei confronti del capitalismo cognitivo. Il drammatico blocco della mobilità sociale è oggi sempre più palesato dallo scarto esistente tra potenza produttiva e creativa e il suo rapporto con il mercato del lavoro. Le coordinate della nuova soggettività precaria sono infatti declassamento, assenza di prospettive e sfruttamento.

Le mobilitazioni di quest’autunno ci consegnano uno scenario che, rompendo identità e recinti precostituiti, va ben oltre il confine delle università e parla ad un’intera generazione. Punti strategici da cui partire si sono dimostrati la difesa del welfare e del pubblico. A nostro avviso questi elementi non possono essere visti solo come meri dati conservativi o difensivi, ma rappresentano un punto di attacco tramite il quale va immediatamente affermata una difesa costituente, che ci sappia parlare di una nuova riappropriazione democratica che punta al comune.

Crediamo che per leggere la fase attuale non ci sia bisogno di schemi teorici passati: non vi può essere scissione tra pratica politica e produzione di discorso teorico. Quelli che ci servono sono infatti saperi comuni oltre e contro i saperi universali, scolastici, sempre pronti ad innalzare barriere e confini. Ci serve un sapere nuovo che riesca a far incontrare la difesa del contratto nazionale di lavoro con la richiesta di un reddito minimo garantito, formazione di qualità con i diritti nel lavoro, questi ultimi con la riconversione produttiva ed ecologica.

Anche a Bologna vogliamo contribuire alla costruzione di questo comune politico.

Di più: scegliamo di fare comune politico rompendo opportunismi ed ambiguità.

Proprio questi hanno formalmente ingessato l’assemblea di Bartleby e materialmente hanno reso privatistica ed opportunistica la sua gestione.

Pensiamo che la prima occasione sarebbe potuta essere la partecipazione come soggetto studentesco al grande corteo della Fiom il 27 gennaio, e non in forma separata come si è in effetti dato. Sono stati infatti scelti da Bartleby partner alternativi ad Uniti contro la crisi ed alla Fiom.

Quella piazza era già di per sé per lo sciopero generale e sarebbe stato importante ibridare, non solo in piazza ma anche nel corteo, i linguaggi della democrazia e dei diritti sul lavoro con quelli che reclamano reddito e nuovo welfare. La richiesta di uno sciopero generale e generalizzato è la vera discriminante, anche dentro le relazioni con il sindacato, per la costruzione di un’uscita a sinistra dalla crisi.

Bartleby ha fatto parte della rete Uniriot fin dalla sua nascita. Una rete a progetto che ha avuto un ruolo centrale nella costruzione dei movimenti universitari degli ultimi anni, uno spazio di dibattito che ha espresso la sua potenza nelle facoltà di questo paese, connettendo esperienze, lotte e costruzione di pratiche comuni. Autoriforma e autogestione del percorso formativo da un lato e richiesta di reddito e costruzione di un nuovo welfare dall’altro, sono stati i due claims che hanno innervato le mobilitazioni contro la riforma Gelmini.

Pensiamo che la fase attuale renda necessario mettere in discussione la rete stessa, proprio a partire da alcuni dati per noi centrali.

Assumere in pieno la scommessa politica di Uniti contro la crisi e il suo portato di connessioni possibili tra tanti e diversi, a nostro avviso vuol dire considerare il workshop sugli stati generali della conoscenza del seminario/meeting di Marghera l’inizio, l’embrione, di un nuovo percorso di discussione politica che guardi al nodo della formazione. Questo esperimento politico, per noi fondamentale, non può essere assunto né in forma tattica né “stando alla finestra”. Non è insomma tempo dei “ma anche…”.

La gravità della crisi attuale da un lato e il divenire possibile delle lotte dall’altro, non ci permettono questo lusso. Abbiamo bisogno di tornare a parlare fra tante e tanti in questo paese e non solo, di rimettere al centro la produzione di lotte, di tracciare nuovi orizzonti di libertà. Solo così un’uscita dalla crisi è possibile.

Il progetto della rete Uniriot sembra invece aver assunto il ruolo di semplice coordinamento o, peggio ancora, di sommatoria di aree politiche di movimento. A nostro avviso troppo diverse sono state le valutazioni sull’autunno appena trascorso da poter ancora permettere la prosecuzione di un percorso comune.

Scegliere, dunque. Non essere scelti o peggio travolti dalle non scelte.

Pensiamo che non possa esistere una contrapposizione tra lo straordinario tumulto del 14 dicembre e la giornata romana del 22 dicembre. Questo però può avvenire solo usando lenti differenti da quelle dell’identità e del settarismo: la potenza di queste due giornate sta proprio nel nesso conflitto/consenso. L’incontro con il Presidente della Repubblica è stato un passaggio importante per il movimento, oltre e contro la rappresentanza politica, capace di porsi, a partire da noi stessi, il dato dell’alternativa possibile e non quello del perpetrare il proprio recinto identitario o scolastico.

Le mobilitazioni di questo autunno tracciano un quadro europeo e mediterraneo di lotte presenti e future. Accogliamo con interesse la possibilità di costruire un meeting europeo delle lotte studentesche alla Sapienza di Roma la prossima primavera: un meeting che sappia anche guardare oltre gli attuali confini continentali ed andare ben oltre il soggetto studentesco in sé, consapevoli che nessuno in questa fase può dirsi autosufficiente e che i perimetri del sapere non stanno solo all’interno delle facoltà universitarie, ma sono diffusi territorialmente e socialmente tanto dal punto di vista della loro produzione e riproduzione quanto dal punto di vista della loro messa a valore.

Si tratta, insomma, di unire e produrre positivamente unità laddove solo la crisi e la miopia della tattica separano ed isolano.

Se si è capaci di notare come la centralità del sapere abbia pervaso l’intera fabbrica sociale e le reti lunghe e corte dell’accumulazione capitalistica, allora si deduce immediatamente come un operaio della Gd o dell’Ima sia sapiente come un assegnista di Lettere e Filosofia e, viceversa, come un migrante sulla gru a Brescia usi il linguaggio e la pratica simbolica nella lotta così come i book-blockers romani e londinesi.

Riteniamo che il piano delle lotte transnazionali sia troppo importante per non essere prima costruito e condiviso dentro una rete di relazioni nazionali e territoriali. A nostro avviso questa attenzione dentro la rete Uniriot non è mai venuta meno. Crediamo invece che il meeting di Parigi dell’11/13 febbraio non vada in questa direzione. E ce ne dispiace molto. Il punto è superare i recinti ed i limiti di un tentativo che rischia di fermarsi allo studentismo. Non si va in Europa a cercare la sintesi ideologica, al contrario: si fa l’Europa se e solo se si costruiscono percorsi di movimento reali nei territori, si ricerca il comune sociale nella crisi, si lavora soggettivamente per il comune politico contro la crisi.

Da questi presupposti e senza volontà ecumeniche un nuovo discorso politico incentrato sul nodo della formazione deve, a nostro avviso, ripartire.

All’interno dell’assemblea di Bartleby sono quindi sempre più evidenti le diverse prospettive politiche. Non solo non vengono riconosciute differenze ed eterogeneità di percorsi, ma i punti di cui sopra non hanno più cittadinanza politica e agibilità pubblica.

Questo ci sembra francamente inaccettabile.

Bartleby è un bene comune che per noi doveva rifuggire “messe alla porta” e pretese di allineamenti forzosi e forzati che appartengono forse al Partito Comunista Cinese.

La ricchezza di Bartleby è stata distrutta solo da questi atteggiamenti e non da altri.

Ne prendiamo atto, ma ribadiamo la volontà di andare avanti dentro le mura di San Petronio Vecchio 30/a e non altrove. Senza rancore o risentimento verso niente e verso nessuno, ricordiamo a tutti che le tre occupazioni prima e l’assegnazione poi di quello spazio passano anche da noi.

Non possiamo però negarci che uno spazio politico, pur contro la nostra volontà, si è irrimediabilmente chiuso. Essere invitati ad andarsene vuol dire snaturare e buttare a mare il progetto complessivo.

Ci piace ricordare un compagno di viaggio, anch’egli messo alla porta, che, molti anni fa, ebbe a scrivere: “falso è il vanto di chi pretende di possedere, all’infuori della ragione, un altro spirito che gli dia la certezza della verità. […] Lascio, dunque, che ognuno viva a suo talento e che chi vuol morire muoia in santa pace, purché a me sia dato di vivere con la verità”.

Da oggi noi ci rimettiamo in viaggio. Vogliamo farlo scommettendo a partire dalle coordinate politiche che il workshop sugli stati generali della conoscenza di Marghera ci ha lasciato, in una discussione che sia veramente libera da steccati identitari ed ideologici francamente improduttivi. Vogliamo farlo dentro lo spazio politico di Uniti contro la crisi nella costruzione di alternativa possibile. Un viaggio che comincerà a partire da noi stessi, dai nostri bisogni e dai nostri desideri. La vita per noi è movimento, colore, passione. Il grigio lo lasciamo volentieri ad altri.

Fin da ora rilanciamo il tema della costituente dello spazio politico di Uniti contro la crisi nella scuole, nelle facoltà universitarie, negli istituti di ricerca.

Ripartiamo dalla battaglia per lo sciopero generale e generalizzato.

Compagni e compagne di quello che era Bartleby oggi in un nuovo viaggio

______________

 

Good Night and Good Luck – Risposta a chi se n’è andato

 

Dire la verità su di sé e sugli altri è un esercizio difficile e lo è ancora di più quando è in gioco la passione politica. Tuttavia, proprio nelle circostanze più complesse, diventa un esercizio indispensabile con cui è necessario misurarsi. Raccontare una storia omettendo intenzionalmente particolari importanti non aiuta di certo la produzione di verità. E allora, forse, riempire le lacune di un racconto può aiutare a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti.

Partiamo da lontano. Che cosa dovrebbe essere uno spazio autogestito? Domanda difficile, ce ne rendiamo conto. Ma non possiamo esimerci dal dare una risposta, seppure modesta e a partire dall’abc. Di più, ogni risposta non può che essere semplicemente un’ipotesi di lavoro politico da mettere alla prova quotidianamente con le persone che incontri, con i loro desideri e bisogni.

Ecco, questo è un primo elemento: uno spazio autogestito è innanzitutto la ricerca continua della relazione con l’altro da sé. Ne andrebbe della sua stessa capacità trasformativa, che sarebbe modesta senza l’incontro con ciò che sta fuori. Perché ci pare che un corpo possa accrescere la sua potenza solo componendosi con altri corpi. L’autoreferenzialità, la chiusura identitaria, certamente rassicurano e fanno sentire a casa ma impediscono di leggere cosa nel frattempo accade intorno a sé.

Bartleby esiste perché sin dalla prima occupazione ha avuto la capacità di aprirsi all’incontro. Assumere la relazione come metodo della propria azione politica costringe sempre a fare i conti con una parola difficile da manipolare: eterogeneità. Bartleby non si è mai sottratto a questa sfida, al contrario ha sempre cercato di rendere produttiva la molteplicità delle posizioni. In una stessa assemblea tanti punti di vista sono riusciti a convivere. Lo sarebbero ancora se non fossero venuti meno la cura e il rispetto per un corpo collettivo.

Ecco un secondo elemento di definizione: uno spazio autogestito, se non vuole rischiare l’impotenza politica, deve poter giungere a delle decisioni e riuscire a metterle in campo. Con la condivisione e il rispetto di tutt* e di ciascun*. E’ capitato però che passi falsi e gravi scorrettezze abbiano consumato irrimediabilmente una risorsa fondamentale: la reciproca fiducia.

Ecco il terzo elemento: uno spazio autogestito, se vuole dare sostanza alle sue decisioni, necessita di un piano di condivisione. Quando si compiono sabotaggi contro decisioni prese collettivamente, evidentemente ci si sente già estranei al progetto politico e lo spazio fisico che lo contiene diventa posta in palio, territorio di conquista. Le differenze rappresentano un’inestimabile ricchezza, ma se in nome di queste si alimentano puerili forme di boicottaggio – espressione di un disperato tatticismo appreso chissà dove – diventano incompatibili. L’omissione nella vostra narrazione di alcuni importanti episodi non è semplicemente scorretta ma rappresenta il chiaro tentativo di cucirsi addosso l’immagine della vittima. L’obiettivo è dichiarato: con la forza del vittimismo “andare avanti dentro le mura di San Petronio Vecchio 30/a”. Proprio nei locali di Bartleby, un progetto politico di cui non si condividono più i punti programmatici e di metodo, tanto da attaccarlo direttamente con la stesura di un documento pubblico.

Ecco il quarto ed ultimo elemento: uno spazio autogestito non può essere espressione di due contrapposte assemblee politiche.

Ci fa sorridere dover consegnare a chi è stato nostro compagno di viaggio l’abecedario delle nostre pratiche di cooperazione e di decisione politica: sappiamo bene che le conosce a menadito. Forse allora la faccenda ha a che fare con l’onestà intellettuale. Ma quella – si sa – per taluni è al servizio del tatticismo.

Bartleby ha scelto l’indipendenza e l’autonomia come pratica politica, non come parola vuota da spendere su comunicati e volantini. Indipendenza significa libertà di scelta, autodeterminazione del proprio percorso. Queste parole però non possono essere intese in senso debole. L’autodeterminazione non può mai dissociarsi da un’idea forte di progettualità. Quest’ultima rischia di venire meno quando strade e percorsi incompatibili tentano invano di incontrarsi. Si impone, allora, il tempo della scelta. E la scelta, per noi, non è mai una questione di fedeltà. Non serve a distinguere gli amici dai nemici. Il pensiero binario e la forma partito, non ci sono mai piaciuti. Per noi, tra compagn*, esistono solo esperienze, singole e collettive, che possono prendere strade diverse.

L’assemblea di Bartleby ha scelto e continua la sua strada, nello spazio che ha conquistato e che tanti e tante continuano a rendere vivo e libero. A chi ha scelto un altro viaggio auguriamo buona fortuna. Sicuri che sia un viaggio che sappia guardare avanti anziché vivere di risentimento e rancore, categorie che hanno ben poco di politico.

Bartleby, spazio autogestito

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