Contro la violenza maschile sulle donne. Che fare?
Non ci sono ricorrenze oggi, nessuna giornata mondiale da celebrare. È un giorno qualsiasi, di quelli ordinari, di quelli che sui calendari sono contrassegnati in modo anonimo, gli uni uguali agli altri. Per noi la violenza di genere va concepita come un fatto ordinario, lo abbiamo ribadito più volte. E allora ci troviamo a scriverne oggi, ma non per caso. Da pochi giorni il collettivo romano “Cagne sciolte” ha occupato uno spazio per portare avanti un progetto territoriale contro la violenza di genere. Dedichiamo a loro queste riflessioni.
Nel 1975 Silvia Federici e Nicole Cox scrivono un articolo particolarmente importante dal titolo Counterplanning from the kitchen,1 in cui si prendono la briga di chiarire il senso delle lotte femministe per il cosiddetto “salario contro il lavoro domestico” a una sinistra istituzionale e ideologica che non riusciva a comprenderle. Al di là della condizione storica precisa, la proposta di una “contro strategia dalla cucina” – la traduzione è un po’ forte, ma non infedele e la formula è chiaramente ironica 2 – coincide con un gesto fondativo. Essa, infatti, risponde alla necessità di costruire un punto di vista politico, femminista e materialista sul lavoro a partire dall’esperienza storica delle donne e, con esso, di completare l’orizzonte analitico marxiano sul nesso produzione-riproduzione.
La “contro-strategia dalla cucina” allude, dunque, all’elaborazione di una prospettiva politica (ovvero: di una tattica e di una strategia). É esattamente di questo di cui sentiamo il bisogno per affrontare il problema della violenza maschile sulle donne ed è questo che, tutto sommato, ci sembra mancare. Possedere una prospettiva politica, infatti, non vuol dire maneggiare una collezione di opinioni da mettere sul mercato del dibattito pubblico. Ben diversamente, come spiega Federici in un saggio del 1974, significa saper condurre un insieme di lotte in grado di produrre un cambiamento radicale nelle nostre vite e nel nostro potere sociale come donne. Da questo punto di vista, la domanda “come combattere la violenza di genere?” andrebbe sostituita con un’interrogazione su “come le donne possono acquisire (organizzare) una potenza tale da sconfiggere la violenza di genere?”. La seconda formulazione differisce radicalmente dalla prima per due ragioni: anzitutto perché nomina un soggetto (le donne) e, in secondo luogo, perché dichiara di voler condurre una battaglia per vincerla – il che non è sempre scontato.
La questione del soggetto è dirimente in quanto capovolge l’ordine discorsivo sulla violenza. Quest’ultimo, infatti, si fonda su una sorta di “asimmetria originaria” che impone alle donne il ruolo unico di oggetto della violenza mentre distribuisce la facoltà soggettiva di combatterla come si distribuiscono le caramelle ai bambini. In questo quadro, a difesa delle donne si fa appello in modo schizofrenico alle istituzioni, alle associazioni, alla legge, allo Stato tout court e, non da ultimo, addirittura alle forze dell’ordine. Tutti questi attori, d’altro canto, non sono alieni alla questione della violenza di genere, ma nel mondo reale – quello che magari non ci piace, ma che abitiamo – non costituiscono un soggetto contro la violenza quanto piuttosto un dispositivo complesso di mediazione e regolazione della violenza di genere. Quanta e quale violenza di genere è contemplata nel patto democratico? Chi (e in quali contesti) può perpetrare violenza di genere legittima? Quali forme di tamponamento sociale per le “vittime di violenza”? Quali donne sono degne di ricadere sotto le misure di contrattazione della violenza e quali possono crepare a suon di botte senza che si muova un dito? Questi – tradotti in soldoni – sono i problemi posti dalle campagne contro il femminicidio, spesso edulcorati tramite il ricorso rituale all’educazione. Contro la violenza bisogna insistere sull’educazione – quante volte lo abbiamo sentito, in buona o in cattiva fede!
D’altro canto, nella misura in cui l’educazione è una forma di socializzazione di immaginario e pratiche (di soggettivazione, potremo dire), l’ingiunzione è valida. Tuttavia, molto spesso, la via pedagogica maschera il ricorso ad una sorta di “soluzione civilistica” che attribuisce alla cosiddetta società civile il compito di combattere la violenza di genere. A questo livello, la dimensione educativa assume carattere paradossale, se non esplicitamente ideologico. Le istituzioni della società civile – in primis la famiglia – lungi dall’essere forme universali della socializzazione (a meno di non volersi dichiarare hegeliane, ma non è il nostro caso), sono forme materialmente determinate e all’interno delle quali le cose non si cambiano con la bacchetta magica. Ad esempio, ragionando sulle lotte delle donne afro-americane degli anni ’60, Federici e Cox sottolineano che «non fu con le buone parole, ma con l’organizzazione del loro potere che [quelle donne] resero i loro bisogni comprensibili».3 Dal nostro punto di vista, il punto è dirimente: l’educazione al rispetto e all’amore delle donne è una componente essenziale nella lotta contro la violenza soltanto se si afferma attraverso il potere delle donne. Mai e in nessun modo, se l’educazione esprime l’esercizio di un potere alienato alle donne e cerca di metterle al sicuro a partire dal dizionario. Scrivono ancora Federici e Cox: «nel caso delle donne, cercare di educare gli uomini ha sempre significato che la loro battaglia venisse privatizzata e combattuta nella solitudine delle loro cucine e delle loro stanze da letto. Il potere educa.»
Il potere che educa – seguendo questa prospettiva from the kitchen – è quello che le donne sanno costruire nell’immanenza delle pratiche politiche, non è un potere di rappresentanza. È una manifestazione di potenza e non un’elemosina alla debolezza. Da questo punto di vista, gli uomini educati contro la violenza non sono quelli che difendono (si difende pur sempre una proprietà) ma quelli che lottano insieme alle donne e – al limite – anche contro se stessi: contro tutte le forme di implicazione soggettiva negli ingranaggi complessi della macchina del sessismo. In tal senso, la diade “donne e uomini” non sta a indicare né due gruppi biologici né due aggregati sociali, ma soltanto due posizioni conflittuali rispetto alle quali i processi di soggettivazione sono molteplici ed eterogenei. Non ci interessa né l’essenzialismo, né la riduzione delle differenze: ci importa, però, sottolineare che nella lotta contro la violenza ci sono due posizioni che vanificano la proiezione di uno spazio liscio di mediazione entro il quale i soggetti vengono portati al confronto.
Per quanto ci concerne, affrontare politicamente la violenza di genere significa assumere quest’ottica rovesciata, questo sguardo sui generis e from the kitchen. Non basta questo per risolvere i problemi, e lo sappiamo. Ma, allo stesso tempo, siamo convinte della necessità di una prospettiva politica. Ne abbiamo bisogno e per questo dedichiamo le nostre riflessioni alle compagne romane che hanno fatto un passo per immaginare, pensare, costruire relazioni forti contro la violenza di genere.
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[1] S. Federici e N. Cox, Counterplanning from the kitchen, in S. Federici Revolution at point zero. Hosework, reproduction, and feminist struggle, PM, New York 2012, pp. 28-40.
[2] Per una lettura dell’ironia in termini genealogici in relazione alla scrittura e alla presa di parola femminile, cfr. T. De Lauretis, Genealogie femministe. Un itinerario personale, in Sui generis. Scritti di teoria femminista, Feltrinelli, Milano 1996, pp. 17 – 35.
[3] S. Federici e N. Cox, Counterplanning from the kitchen, cit., p. 36.
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