Pensieri di Natale
Il 7 novembre Benedetto XVI ha consacrato, a 138 anni dall’inizio della sua costruzione, il Tempio Espiatorio della Sagrada Familia di Barcellona. Nell’omelia ai fedeli ha concentrato la sua attenzione, come c’era da aspettarsi, sul tema della famiglia, definendola “unione tra un uomo e una donna” e “finalizzata alla procreazione”. Una concezione nota, che si scontra drammaticamente con la realtà che miliardi di esseri umani vivono in queste ore natalizie: nel momento in cui la tradizione porta a ritrovarsi con i propri affetti, ciascuno finisce per trascorrere il Natale non soltanto in modo diverso ma, ciò che più è importante, con persone con cui il legame è vario e differenziato. Lo spettro delle complicazioni “innaturali” va, fatto salvo chi taglia il panettone con marito/moglie e figli, da chi abbraccia genitori giuridici e non biologici, o ritrova fratelli e sorelle che vivono in famiglia diverse, a chi scarta i regali con il partner omosessuale o la compagna lesbica, fino a coloro che utilizzano il tempo eventualmente liberato per fornicare con partner che non hanno sposato, amanti segreti, amici del proprio o dell’altro sesso, mutazioni bio-genetiche in corso d’opera, ecc.
Il Natale altro non è, infatti, alla prova del XXI secolo, che un’ottima occasione per disertare le chiese (ammesso che qualcuno se le ricordi) e ritrovare i propri amati/amanti; i quali, poco sorprendentemente, molto raramente sono frequentati allo scopo di procreare. La famiglia che il papa e la chiesa difendono appare un modello tra i tanti, non l’unico, e per questo a giusto titolo chi vive in modo diverso, per avventura o per scelta, percepisce le parole del “santo padre” – che è in fondo una sorta di innesto non richiesto nelle famiglie di tutti noi – come attacchi, offese, provocazioni. La stessa celebrazione di Barcellona è stata turbata da centinaia di omosessuali riuniti a protestare, all’arrivo del papa, contro le sue prepotenze linguistiche e politiche. La “Sacra Famiglia” cui è dedicato il luogo di culto è modellata su un fenomeno sociale, storico e antropologico specifico, ancorché a lungo egemone presso alcune civiltà: la famiglia mononucleare, monogamica, eterosessuale – anche se quella di Betlemme non era bianca né occidentale, nonostante duemila anni di affreschi e presepi abbiano pervicacemente tentato di farcelo dimenticare (e non era propriamente volta a procreare, dal momento che sembra non ce ne fosse stato bisogno).
Per un’ironia che accomuna religione, storia e architettura, quella stessa basilica sembra, contro le intenzioni dei committenti e persino del famoso architetto, esemplificare al meglio la natura contraddittoria, artificiale e perversa dell’esistenza, piuttosto che lo stato immobile ed ideale in cui il cattolicesimo ha sempre tentato di relegarla. Iniziata nel 1882 e tuttora in fase di costruzione, ha patito l’intervento di centinaia di architetti, collaboratori, scultori, artigiani e artisti, divenendo – non di rado tra le polemiche dei critici e degli addetti ai lavori – un monumento all’infedeltà della “materia” dell’opera allo “spirito” del monumento, o dell’impossibilità dell’obbedienza al padre progettista dei figli esecutori, la cui scottante eredità è depositata su tracce che si sono perse nel tempo. Dopo l’improvvisa morte di Gaudí, che nel 1926 fu investito da un tram, la costruzione della chiesa è stata un persistente conflitto interpretativo. Il suo progetto, improntato a una complessità tecnica, formale, espressiva e decorativa che lo hanno reso di difficile realizzazione (la lirica folle dello slancio verso l’alto, ottenuto attraverso geometrie contorte, ha sfidato persino le leggi della statica) è stato più volte interrotto per le controversie sui metodi e le scelte costruttive dei progettisti successori.
Quella chiesa è diventata, negli anni, il paradossale tentativo di realizzazione, in forma materiale, di un’eredità ideale mediata da più soggetti; è un’entità spuria, che esiste in parte qui e in parte altrove, in un pensiero creativo e progettuale di volta in volta trasformato dall’attraversamento di diversi corpi e diverse menti. Eppure il Tempio racconta nelle sue pietre – quelle già posizionate, e persino quelle che non ci sono – anzitutto del protagonismo dei conflitti sociali nelle storie religiose, artistiche e culturali, di cui sono lo sfondo rimosso e misconosciuto. La Sagrada Familia fu, storicamente, espressione architettonica del terrore della classe dirigente per tutto ciò che, nell’Europa di fine Ottocento, cominciava ad essere etichettato con i termini “comunismo” e “anarchia”. I terreni su cui l’edificio iniziò a prendere lentamente forma erano stati acquistati nel 1881 dall’Associazione Spirituale dei Devoti di San Giuseppe, una confraternita di membri dell’aristocrazia catalana che intendeva seguire gli appelli del Vaticano di allora (molto simili a quelli attuali) alla riscoperta cristiana del culto di San Giuseppe. Nella simbologia cattolica questo personaggio, il padre e capostipite terreno della Sacra Famiglia, è simbolo dell’ordine costituito e di un’autorità maschile custode del potere e della tradizione.
Di fronte al progresso della scienza, dell’industria e delle idee liberali, democratiche e socialiste, questa enfasi sul potere maschile ereditato dal passato, in grado di inculcare nei figli il rispetto delle regole dei padri, e sulla correlata concezione cattolica della famiglia, era espressione di un esorcismo politico, e della ricerca di una stabilità culturale impossibile nel decennio successivo allo shock della Comune di Parigi (si veda J.J. Lahuerta, Antoni Gaudí 1852-1926. Architettura, ideologia e politica, Milano, Electa). Una visione delle cose che aveva già margini di consenso popolare paragonabili a quelli attuali – cioè minimi – se è vero che, alla morte di Gaudí, l’unico modo che la vecchia classe dirigente aveva di governare la Spagna era la dittatura di José Primo del Rivera. La guerra civile aspettava la penisola al varco nel 1936, quando i vertici dell’esercito insorsero, con l’appoggio della Chiesa e delle forze reazionarie, contro il governo del Fronte Popolare uscito dalle urne, espressione dei nuovi modi di guardare alla società. Durante la guerra civile Barcellona appartenne al fronte repubblicano, e fu attraversata da una rivoluzione operaia che consegnò il potere ad assemblee che presero in mano la città fisica e quella economica, assoggettando terre e fabbriche ad un uso comune. Sembrava a molti possibile, infine, farla finita con l’autorità del passato e della tradizione, ben esemplificata dal culto cattolico di San Giuseppe; e fu così che, in quei mesi di attraversamento rivoluzionario della città, gli insorti incendiarono la chiesa (prendendo forse alla lettera il detto di Gaudí secondo cui essa era affidata “alla volontà del popolo”).
La storia successiva, fino a oggi, è quella della ricostruzione, che è avvenuta in parallelo con quella delle gerarchie sociali che la rivoluzione aveva abbattuto, e della rinnovata imposizione del cattolicesimo, nel periodo fascista, come religione ufficiale a una popolazione ormai in gran parte non più credente. Ricostruire edifici incendiati o distrutti sarebbe stato tutto tranne che originale, di lì a pochi anni, visti i danni causati dalla carneficina mondiale del periodo 1939-1945, provocata da quella sorta di confraternita internazionale degli amici di San Giuseppe e della Sacra Famiglia (e, purtroppo, di molte altre cose) che fu il nazifascismo. Originale fu un’altra circostanza, e cioè che l’incendio del 1936 aveva distrutto, oltre alle mura, anche l’archivio dei progetti di Gaudí che esse custodivano, lasciando i successori senza tracce scritte dell’idea del maestro: di qui la difficoltà a restare fedeli all’opera, ma anche la sua trasformazione in qualcosa di ancora più complesso e differenziato, dove in molti hanno potuto esprimere la propria creatività, o anche solo i diversi modi di interpretare l’eredità del maestro.
Da quando il sistema liberale è arrivato anche in Spagna, alla morte di Franco – per scongiurare una nuova rivoluzione – essere cattolici, o far parte di una famiglia simile a quella della grotta di Betlemme, è tornata ad essere una scelta, anche se tuttora la Spagna, come l’Italia e gran parte del mondo, deve patire l’arroganza di un potere clericale che tenta di determinare le scelte di tutte e tutti, imponendo alla collettività la fede e le opinioni di una parte della società, per di più, ormai, neanche tanto convinta. In quegli anni di passaggio un ragazzo di nome Mark Burny, allievo a Cambridge dell’architetto che diresse i lavori della chiesa negli anni Settanta, Bonet i Garí, studiò a fondo le applicazioni informatiche al disegno architettonico, riuscendo, con complessi calcoli, a dedurre disegni planimetrici bidimensionali dai plastici sopravvissuti, e rendendo possibile una riscoperta ideale, per via matematica, dell’eredità del maestro. Nuove carte sono così oggi a disposizione di Bonet i Armengol, l’attuale architetto, e dei suoi collaboratori. Questo – quello matematico – l’unico cielo, a quanto pare (o l’unica regione intangibile) che ha reso possibile la resurrezione del progetto, e l’incarnazione di esso nella materia dell’edificio: la scienza.
Oggi, sullo sfondo della disseminazione e decostruzione del concetto di famiglia, l’appello della chiesa all’uniformazione coatta dei vissuti esistenziali appare la ben nota volontà di imporre il particolare come universale (ciò che in fondo è l’essenza della chiesa cattolica, una fede che si pretende la fede di tutti). Dopotutto, è come se si volesse attribuire al solo Gaudí la paternità della Sagrada Familia, o ai soli cristiani l’eredità dell’Europa. Di fronte all’incubo della conservazione dell’identico, per fortuna, è l’inesauribilità del reale che tiene svegli: la contaminazione, l’imprevisto, il diverso e l’impreciso non si possono aggirare, in questo mondo, e là dove la paternità è relativizzata dalla pluralità, o la fede può esprimersi soltanto grazie alla scienza, un demone tentatore o uno spettro piromane hanno in qualche modo già ipotecato la loro vittoria. Se c’è qualcosa che non è possibile governare, dopotutto, è proprio quel genere di incendio.
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