C’era una volta la spesa
Spoiler.
26 marzo 2020. In principio fu a Palermo: un po’ di famiglie di quartiere in passaparola vanno a fare la spesa minacciando di non pagare. Giornalisti e carabinieri si precipitano a inquadrare la questione sociale del momento. Il lockdown blocca l’accesso al reddito di una vastità di popolazione che campa a giornata e che, senza aiuti e senza sussidi, promette di tradire il principale patto del nostro assetto sociale, l’accesso alle merci in cambio di denaro.
Pochi giorni dopo, la direzione del centro commerciale “conca d’oro” situato a margine del quartiere “zen 2” di Palermo, “dona” assieme alla locale caserma dei carabinieri, tremila euro di buoni spesa in tagli da 50 euro l’uno a 60 nuclei familiari individuati dal programma di contrasto ala povertà assoluta dell’associazionismo locale. Vogliono dare “un aiuto concreto a coloro che a causa dell’emergenza sanitaria si sono ritrovati nell’incapacità di assicurare un pasto caldo per sé e i propri cari”. Così dicono. Più pragmaticamente, vogliono evitare di essere un obiettivo sensibile delle proteste dei “cattivi pagatori”. E’ l’inizio di una nuova contrattazione che vede nel decreto del 29 marzo di Conte la ratifica di un “salvagente” dell’ordine sociale. Il governo istituisce la misura – universale su tutto il territorio ma declinata in maniera variabile nei migliaia di comuni – dei “buoni spesa” e dei “pacchi alimentari” smistati dalla protezione civile e dalle altre “grandi” del volontariato, croce rossa in testa.
Carrellata.
Nei piccoli e medi comuni e nei paesi del sud si esprimono le prime tensioni e la fragilità istituzionale della promessa di “non lasciare nessuno indietro”. Ortanuova, in provincia di Foggia. Decine e decine di abitanti del paese si ritrovano sotto il comune e prendono a calci le porte del municipio. Vogliono sapere quando arrivano i buoni spesa. Non accettano ulteriori scuse né ritardi.
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A Sant’Antimo e in altri comuni del napoletano si danno spontaneamente presidi e proteste dalla prima metà di aprile, contro esclusioni e inefficienze nella comunicazione delle graduatorie. A Quarto, Napoli nord, addirittura i carabinieri intervengono e denunciano alcuni dei presenti.
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In provincia di Messina, a Sant’agata di Militello, stesse scene. Raggruppamenti istintivi per pretendere risposte contro gli odiosi criteri che escludono centinaia di famiglie. Passano le settimane e.. il piatto piange. La cassa integrazione promessa, arriva a solo un quinto degli idonei su tutto il territorio nazionale. È già passato un mese e mezzo dal lockdown e gli unici aiuti credibili sembrano essere questi buoni spesa. Sono incaricati i comuni, con i loro municipi e servizi sociali nell’erogazione. Solo a Milano più di 36mila famiglie chiedono l’accesso a questa misura. Lo riceveranno solo in quindicimila. E si parla di un bonus unico dai 150 ai 300 euro a seconda del nucleo familiare, non reiterabile, per fare la spesa. 21 mila nuclei invece sono esclusi.. per mancanza di fondi. Rispetto a chi era già abituato a fare i conti con la “maledizione del chiedere un aiuto”, quella che si affaccia nel mese di aprile è una vera e propria nuova valanga sociale, stordita dalla chiusura dei rubinetti della liquidità, impossibilitata a fatturare, a riscuotere e quindi a consumare nella forma precedente.
Controluce.
Ci si ammassa fuori ai discount e ai grandi supermercati, dove le misure di distanziamento sociale per i “clienti” si scontrano con la mancanza di adeguati dispositivi di sicurezza per le dipendenti, le cassiere, i magazzinieri, e con lo stress provocato dall’allungamento dei turni di lavoro. Sono lontani i ricordi delle musiche soavi dagli altoparlanti che stimolano i sensi all’acquisto gratificante. Adesso quegli stessi megafoni ripetono con voce metallica le necessarie procedure di sicurezza. E fuori le “file” si scompongono spesso e volentieri in capannelli agitati dove si trova sempre qualcuno che alza la voce più degli altri. “Il virus l’hanno fatto in laboratorio i cinesi, anzi gli americani. Devo andare a fare una visita ma me l’hanno spostata. Mia nipote è infermiera non vede la sua figlia ha paura del contagio. Mio figlio non riscuote la cassa integrazione. Per quella là gliel’hanno pagato il riscatto a noi invece niente.” Frammenti di senso comune condensati nei piazzali in attesa di poter riempire il bagagliaio di sacchi di spesa, o forse no questa volta. Nel frattempo i prezzi dei beni alimentari crescono in media del 10 per cento ed i guadagni della grande distribuzione sono aumentati talmente tanto che i giganti del commercio – primi responsabili della nocività del sistema agroindustriale (concausa dell’esplosione corona-virus) – si sono sentiti in dovere di realizzare una serie di spot tv per ringraziare preventivamente le masse della rinnovata fidelizzazione. Pure per il culo ci prendono.
Panoramica.
Nelle ultime settimane è un susseguirsi di mobilitazioni. Prendono corpo da nord a sud del paese, qui con più frequenza. Sono composte da volontari e famiglie, da giovani e da cassaintegrati. Hanno tutte lo stesso ritmo e parlano tutte lo stesso linguaggio, quello della semplice e dirompente incazzatura di chi non ha più i soldi per comprare le cose necessarie a sopravvivere, quello di chi si è stancato di veder finire troppo presto gli aiuti che solo le comunità sono state in grado di racimolare.
A Catania il comitato casa-reddito-lavoro organizza dal basso la distribuzione alimentare. Lì le famiglie si conoscono e decidono di piazzarsi di fronte ai servizi sociali; pretendono risposte positive alle domande di buoni spesa, e non le solite giustificazioni dell’inefficienza burocratica e della mancanza di fondi. Circa diecimila nuclei infatti sono condannati al purgatorio degli “idonei non assegnatari”. A Cosenza dopo aver sopperito in modo straordinario, dal basso, con la solidarietà di quartiere, con i piccoli negozianti, con gli ultras, le associazioni, i comitati di lotta cittadini si piazzano di fronte al municipio. Vedono quel portone mezzo aperto e le mezze risposte delle istituzioni non sono più sufficienti a sfamare un’intera città sull’orlo della disperazione. Si prova a entrare in quel portone, si è costretti dalla questura a tornare indietro. Per ora. A Roma sono partiti al Quarticciolo, dai comitati e dalle palestre popolari gli abitanti diventano volantari per non fare appassire la borgata. Nella capitale la truffa dei buoni spesa, a decine di migliaia non consegnati, diventa troppo grande per essere sostenuta dalla generosità del popolo. Vengono accatastate decine e decine di cassette dove per due mesi sono state trasportate centinaia di spese alimentari alla gente del quartiere e non solo. Per protesta. Anche negli altri rioni si susseguono cortei e presidi. Al Tufello, a san Basilio, a Roma nord ovest si denuncia in piazza e in rete che non si può andare avanti così. Che i buoni spesa devono essere estesi, devono essere consegnati, devono essere eliminate le odiose distinzioni tra i meritevoli e no.
A Torino, quartiere Aurora, sono settimane che va avanti in piena emergenza Covid, l’attività del Comitato. Aiutare, segnalare, informare, condividere, redistribuire risorse. Qualche giorno fa di fronte alla circoscrizione erano tante le persone che hanno preteso risposte in merito ai buoni spesa. 8mila esclusioni. Le cause sono le medesime: se nel tuo nucleo c’è qualcuno che riceve altri (miseri) contributi, come la pensione sociale, poche decine di euro del reddito di cittadinanza, o se aspetti la cassa integrazione (da più di due mesi!), non ti spetta il buono spesa. Prendono parola coi megafoni e con i cartelli, si fanno sentire bucando la spregevole indifferenza degli apparati amministrativi, che sul risparmio ottenuto tramite discriminazioni hanno fondato leggi e regolamenti oggi più che mai percepiti come assurdi per la maggior parte della popolazione.
Messa a fuoco.
Anche negli agglomerati urbani fondati sulla logistica o sulla produzione del tessile, come a Piacenza e a Prato, sono tante le richieste di buoni spesa insoddisfatte dalle amministrazioni. Qui le raccolte alimentari, l’organizzazione delle donazioni di beni di prima necessità, hanno preso consistenza a partire dalle comunità operaie organizzate col sicobas. Nel distretto del tessile a migliaia sono rimasti a casa senza sussidio: i lavoratori sono per lo più richiedenti asilo ed in duemila con il problema della residenza non hanno potuto neanche accedere al buono spesa. Impressionante il disequilibrio tra la ricchezza prodotta da questi operai nella filiera della moda e la miseria a cui sono condannati non appena “non possono produrre”.“Chi siamo se non produciamo?” scrivevano qualche anno fa gli studenti sugli striscioni nelle scuole superiori, per pretendere rispetto e considerazione dal sistema scolastico, indipendentemente dalla valutazione. Adesso si potrebbe aggiungere.. “cosa mangiamo se non produciamo?” E’ su questa contraddizione ridisegnata su scale geografiche e caratteristiche sociali differenti che si fonda la pratica di centinaia di individui, riuniti in vecchie e nuove collettività, della raccolta alimentare. In metropoli come quelle di Milano o Roma, piuttosto che nelle città più piccole come Perugia o Pisa, squadre di ragazzi, donne e uomini, cercano di immagazzinare tramite offerte, donazioni, autotassazione quante più risorse possibile. La distribuzione avviene nei centri di quartiere o a domicilio. Sono volontari che riflettono su di sé la tensione di questa crisi. Raccattare gli scarti industriali della produzione alimentare, convincere i benestanti a frugarsi, socializzare i costi della crisi tra chi ha già poco, sono opzioni differenti che coabitano nello stesso movimento di collaborazione. Di questa miriade di progetti di azione sociale è importante la traiettoria, lo scopo e come si realizza.
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Infatti in Italia l’assistenza ufficiale è una grande impresa che struttura il mercato della “solidarietà”. E’ il governo che la sponsorizza per attutire gli spiriti bollenti di una classe proletaria in astinenza di consumo e liquidità. Centinaia di associazioni sul territorio nazionale che vedono centinaia di volontari coordinati in maniera centralizzata secondo i diktat che impartiscono gli enti locali assieme a protezione civile e croce rossa. Per impedire una effettiva redistribuzione delle risorse, per corrispondere pacchi alimentari come merci, per inibire il confronto e la collaborazione tra chi aiuta e chi è aiutato, per non favorirne l’aggregazione. Ma la gestione sociale del Coronavirus nella “fase due” è tarata su un’emergenza. Invece il mondo “di quelli di sotto” è in via di espansione e la crisi della liquidità, l’insolvenza, cambieranno violentemente l’accesso ai consumi in modo duraturo. Ed anche gli sforzi effettivi dell’assistenza, quelli pagati in prima persona dagli operatori di strada delle associazioni del terzo settore, non sono affatto ripagati dalla “missione” svolta. Non serve aspettare di veder finire “gli aiuti”, è sufficiente l’elenco delle privazioni e delle ingiuste sofferenze cui la nostra gente è sottoposta già adesso, per sentirsi strettissimo il vestito del missionario.
Dissolvenza.
Inutile girarci troppo attorno: dalla crisi corona-virus in poi la possibilità di nutrirsi e fare la spesa nello stesso modo di prima, verrà compromessa per milioni di persone. L’accesso al reddito non è l’unica motivazione. Produzione, logistica, commercio agro-alimentare compongono una delle più estese e nocive filiere globali. Il “rischio contagio” ha determinato smottamenti profondi in tutte le sue articolazioni: mancanza di forza lavoro per la raccolta dei prodotti, rallentamento/deviazione delle rotte dei rifornimenti internazionali dei prodotti a basso costo, regolazione del flusso dei clienti nei centri commerciali, affaticamento delle lavoratrici e lavoratori facchini, commessi, magazzinieri resi “indispensabili” al mantenimento del servizio essenziale. Nella fase “due”, i compromessi al ribasso nella regolarizzazione dei braccianti extracomunitari, la mancanza dei dispositivi adeguati di protezione, i salari da fame per mantenere il commercio “competitivo” e la radicalizzazione della crisi dei “consumatori” sono solo alcuni dei fenomeni correlati che stanno già aprendo a macchia di leopardo brecce di contestazione all’egemonia del sistema della grande distribuzione organizzata.
Massive: folla in movimento.
Lo spazio della crisi viene rappresentato più da Papa Francesco che dalle istituzioni dello Stato, non a caso la Caritas è da tempo il regista delle proposte “sociali”. Questo magma va dalle Partite Iva ai venditori ambulanti, dal parrucchiere pieno di debiti al richiedente asilo impiegato nelle concerie. Ma viene descritto come “indigenza”, come “povertà”, come bisognoso di cure e assistenza. Tutto ciò con un unico fine: spersonalizzarlo, governarlo, scongiurarne le possibilità di lotta, per attutire i contraccolpi di questa nuova Grande-crisi senza modificare la direzione “già” scritta dalle classi dirigenti nel destino celeste delle valutazioni economico finanziarie. Le stesse che hanno imposto finanziamenti di miliardi di euro a pioggia solo per le grandi imprese multinazionali.
In questo spazio invece c’è il ribollire dei – non uno ma cento – conflitti sociali. Non quelli idealizzati nelle memorie letterarie militanti degli “espropri proletari” nei tempi che furono, che rivendicavano il diritto al lusso. E neanche la pacifica collaborazione tra settori di classe diversi ma solidali tra loro – senza scontri. Quello che s’intravede è il violento premere sui canali di accesso delle risorse esistenti. La folla consumatrice potrà cedere il passo allo sgomitare di nuove tribù in feroce concorrenza tra loro, ridefinendo gerarchie e mercati anche dello “scadente” per i più poveri. Oppure… c’è la lotta sul consumo come nuova lotta di classe al tempo dell’insolvenza di massa. Cosa si sta radicalizzando come percezione, come sentimento, per coloro che hanno difficoltà a fare la spesa, per coloro che sono costretti a “privarsi” della serenità di acquistare tutto l’occorrente? L’attenzione malfidata nella scelta dei prodotti, l’immorale beffa della crescita dei prezzi alimentari, il disgusto e la repulsione nei confronti dell’imperativo resiliente contenuto negli spot pubblicitari. E di fronte a tutto ciò, la piena delegittimazione dello Stato e dei suoi Governi nell’incapacità di proteggere i consumi necessari, anche nel verso di calmierarne i costi, di fronte allo strapotere dei Creditori.
Verso il sequel.
“Questa sera ho mangiato un’insalata per lasciare la carne a mio figlio e credo di non essere l’unica, sapete dove potete mettervi le lacrime?” Durante l’ultimo discorso di Conte in digital-visione, la sera del 13 maggio, scorrono i commenti social sotto alla diretta che annuncia le nuove misure della “riapertura”. Il bersaglio diretto è contro il “piantino” della ministra Bellanova per la minisanatoria approvata per reclutare braccia nei campi di raccolta. Ma l’obiettivo e il soggetto interpretano una amarezza profonda data dalla privazione cui sono sottoposte milioni di persone in Italia, che non sentono di meritarsi le disgrazie che stanno subendo. Siamo al terzo mese di assenza di entrate. La scarsità di soldi è una vera tribolazione interiore, un profondo sconquasso emotivo, ed una terribile fonte di ansia. Ha degli effetti diretti, ed il cibo è il primo immediato bisogno dalla cui soddisfazione si misura molto la qualità del proprio vivere. Fare i conti in fondo al mese, fare i conti alla settimana, fare i conti ogni giorno, farsi i conti in tasca ad ogni spesa.
C’è una domanda politica fondamentale che aleggia dentro la crescente difficoltà a consumare: chi e come si risponderà a queste richieste di aiuto? La disabitudine ad ascoltare i problemi, a riconoscere quelli degli altri come nostri, a individuare delle soluzioni praticabili senza ricadere in circuiti di scambio monetario o di prestazione è la disabitudine a percepirci non come singoli individui ma come specie, come insieme sociale, come collettività. E nessun artificio teorico risolverà questo nodo, senza che si sappia scorgere nelle trasformazioni che questa crisi sta causando le nuove relazioni che combinano in modo differente le persone l’une con le altre. Ma la generosità nasce sugli alberi? Se l’individuo si vive come impresa in concorrenza con gli altri, la repentina corsa verso il fallimento obbliga a guardarsi attorno, per cercare appigli per “risalire”. Chissà se in ogni condominio o in ogni borghetto c’è qualcuno che si presta a indirizzare il superfluo al necessario… di sicuro in cento città d’Italia giovani disoccupati, studenti, donne e uomini si dedicano a rispondere al telefono dopo aver fatto circolare il numero sui volantini nei portoni delle case, dei negozi o sulle bacheche dei gruppi sei di xxx se.. Rispondono prontamente laddove i centralini dei servizi istituzionali sono staccati, squillano a vuoto o rispondono dicendoti di chiamare altri numeri inesistenti. Nelle chiamate di questi circuiti popolari dell’assistenza le famiglie raccontano i propri drammi, rompono la vergogna e tracciano gli obiettivi delle lotte a venire. “Non mi è arrivata la cassa integrazione. La banca non mi ha sospeso il mutuo. L’Enel mi vuole staccare la luce. I buoni spesa non mi sono arrivati o sono già finiti.” Un’economia dell’insufficienza descrive la controparte creditizia. Da questa parte invece, il centralino non è la fredda logistica dei flussi di dati, ma il materiale dispositivo di inchiesta dei rapporti sociali. Ci si sbatte per creare legami, per conoscere, per acquisire un surplus di sapere capace di traghettare la confusione dell’angoscia in percorsi di organizzazione. Gestire le informazioni allora diventa l’esigenza di condividere, di protestare per mettere in luce la disparità di trattamento a cui si è sottoposti. Lo spreco dei beni primari, necessario ai profitti della grande distribuzione, diventa insopportabile. Tanto quanto l’indifferenza della macchina statale nei confronti dei bisogni popolari. Dai problemi se ne deve sortire insieme, lottando. Non è (ancora) un programma, ma pur sempre una preziosa indicazione…
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