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Governo Draghi: il “marciare divisi, colpire uniti” della borghesia italiana

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Marx ed Engels nel Manifesto del Partito Comunista definivano il potere statale moderno come il comitato d’affari della borghesia. Questa considerazione, arcinota e spesso abusata, sembra calzare a pennello sulla genesi del governo Draghi e sul suo probabile ruolo all’interno dello scenario politico attuale.

La beatificazione a reti unificate, l’entusiasmo delle cancellerie occidentali, il cicaleggio di Confindustria e delle altre consorterie imprenditoriali parlano chiaro. Allo stesso modo la lista dei ministri, di cui abbiamo già parlato qui, del governo Draghi lascia davvero poco spazio a dubbi ed aspettative.

Dunque il governo Draghi come convergenza momentanea o meno delle borghesie italiane (e per alcuni aspetti transnazionali) sulla governance, nonostante le precedenti fasi di tensione più o meno aleatorie. Ma con quali obbiettivi?

La prima risposta è semplice, ne abbiamo già parlato. Si tratta di concentrare i flussi di capitale del Recovery dove è massima la possibilità di valorizzazione per le grandi imprese. Rilanciare la crescita a prescindere, nel più breve termine possibile. Nonostante i differenziali di sviluppo del paese, nonostante la storia recente insegni che sempre meno spesso il paradigma della crescita abbia ricadute sull’occupazione, i redditi ed altre determinanti sociali. Quindi concentrare i capitali nel nord ormai vera e propria piattaforma intermedia della catena del valore tedesca. Qualsiasi forma di redistribuzione, che sia di classe o geografica è considerata superflua persino nel caso in cui sorregga una qualche specie di compromesso sociale. Draghi è stato scelto come il campione di questa opzione. Non senza rischi ed ostacoli.

La seconda, meno schematica e molto più ipotetica, in parte conseguenza della prima riguarda i soggetti di rifermento sul piano sociale. Il governo Conte è stato nel bene o nel male il garante di un patto sociale con i ceti medi in affanno e con alcuni settori proletari. L’intera politica del governo giallo-verde e di quello giallo-rosa si possono vedere in una certa continuità in questo senso. La paura dell’emersione di un conflitto sociale latente durante la pandemia, l’onda lunga delle articolazioni neopopuliste e sovraniste in Italia hanno determinato questa collocazione che è sempre stata stretta ai confindustriali ed oggi lo diventa in maniera ancora più netta. Dal lato della “grande” borghesia nostrana la questione è semplice: il ceto medio, la piccola borghesia vanno compressi, dimagriti. E’ necessaria un’ulteriore concentrazione del capitale per rispondere alla crisi e le risorse che stanno arrivando dall’UE non vanno disperse in mille rivoli di stimoli una tantum utilizzati come paracadute per il declassamento. Il governo Draghi in questo senso nasce contro il patto sociale portato avanti da Conte. Come questa rottura si concretizzerà è tutto da vedere. E’ probabile ad esempio che non assisteremo ad una cancellazione istantanea di misure come il Reddito di Cittadinanza, ma piuttosto ad un suo progressivo depotenziamento.

Il terzo obbiettivo è quello della “normalizzazione” del piano politico. Dopo aver imbrigliato e portato ad una totale compatibilità il Movimento Cinque Stelle con un mix di integrazione e delegittimazione, in cui il meschino personale politico grillino si è tuffato come un dodo dalla rupe, adesso l’obbiettivo, molto più malleabile, è la Lega. Con il riflusso del movimento sovranista globale, la sconfitta di Trump negli States a fare la voce grossa torna ad essere il partito del Nord rappresentato da Giorgetti. Svestiti i panni dell’euroscetticismo resta un Salvini senza salvinismo. Il progetto dello sfondamento a Sud, la retorica sovranista finiscono in soffitta nel giro di un mese dall’assalto a Capitol Hill. Le forche caudine della responsabilità istituzionale sono il prezzo da pagare per un eventuale futuro governo di centro-destra con il favore degli industriali.

Dunque al momento questa “piccola restaurazione” incarnata da Draghi e dai suoi accoliti sembra procedere senza intoppi ma i nodi scoperti rimangono molti.

Sebbene salutato con entusiasmo dalle cancellerie di mezzo mondo il governo Draghi dovrà confrontarsi con sfide geopolitiche di un certo peso. Il neopresidente infatti incarna in sé tanto un profondo europeismo, quanto un dichiarato atlantismo. La scelta di introdurre il Quantitative Easing da guida della BCE (per cui viene quotidianamente osannato dai giornali) fu una mossa in velato contrasto con la posizione di austerity dei paesi core dell’UE e prese ispirazione da quanto fatto precedentemente dalla FED negli Stati Uniti. Nello scontro di allora sulla crisi del debito sovrano europeo tra Merkel ed Obama, Draghi appariva nei fatti più vicino al secondo.

Come si posizionerà questo governo di fronte al probabile rifarsi avanti di uno scontro tra le elites europee e quelle sull’altra sponda dell’atlantico? Ci sono pochi dubbi che gli Usa di Biden, se pure con altri toni rispetto a Trump, lavoreranno comunque ad una riduzione dei margini di autonomia dell’eurozona (d’altronde come dimostra la vicenda dei vaccini una “periferizzazione” dell’UE sembra essere più un dato di fatto che una tendenza).

Proprio sulla questione dei vaccini, o meglio più in generale, di un’uscita dalla crisi sanitaria il meno prolungata e “dolorosa” dal punto di vista economico possibile, si giocherà il primo banco di prova del governo Draghi. L’efficienza del banchiere e i suoi contatti internazionali prevarranno sulla masnada di “migliori” che costellano il governo e la geopolitica del vaccino?

Sul piano politico poi la vera domanda è chi rappresenterà (se ancora qualcuno sarà in grado di farlo) gli elettori traditi del 5 stelle e in parte della Lega? Difficile pensare che la Meloni, unica rimasta fuori dal governo dell’intero arco costituzionale, sarà in grado di farlo, troppa poca penetrazione al Nord, troppo carico ideologico e poca visione politica, tanto di più di fronte al momentaneo crollo dell’opzione sovranista internazionale.

E ancora: cosa produrrà a livello di anatomia sociale lo sblocco dei licenziamenti, la razionalizzazione della forza lavoro via digitale, l’ulteriore investimento sulle grandi opere inutili, l’utilizzo del tema della transizione ecologica come strumento di valorizzazione del capitale?

E’ possibile che la dialettica tra inclusi ed esclusi utilizzata come frattura dentro la classe venga superata materialmente dalla portata della crisi e dalle misure che il governo Draghi si troverà a mettere in campo. Un attacco ai settori di proletariato garantiti è tutt’altro che improbabile, da definire se mai è quale ne sarà la portata, considerando che lo spettro del debito è sempre al di là della collina e che le concessioni dell’Europa sono tutt’altro che soldi gratis.

 

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