Torino: una grande rabbia
La nottata appena trascorsa ha visto un livello di mobilitazione e conflitto diffuso su tutto il territorio dello stivale come non si vedeva da diverso tempo.
Da Milano a Napoli, da Torino a Trieste, da Cosenza a Terni migliaia di persone sono scese in piazza in risposta ai provvedimenti del nuovo DPCM. Piazze estremamente composite e ricche di contraddizioni che hanno dato l’impressione che un tappo sia saltato, una mediazione si sia consumata. La mediazione era quella di accettare le imposizioni del primo lockdown di fronte ad un bene superiore e cioè la salute collettiva della società. Privarsi giustamente di parte delle libertà individuali (e anche di una significativa parte del proprio reddito) per difendere la propria salute e quella altrui. Questa mediazione ha retto finché non si è affacciata la seconda ondata e si è scoperto improvvisamente (nonostante i diversi segnali) che nulla era cambiato da quel lockdown. Che quel “niente sarà come prima” che per mesi era stato sbandierato in TV e sui giornali in realtà è stato una menzogna. Tutto è rimasto uguale, gli unici interessi tutelati sono stati quelli di Confindustria, mentre poco e niente veniva fatto per i disoccupati, i lavoratori, la prima linea impegnata nella battaglia negli ospedali e molte altre categorie che nella crisi hanno visto peggiorare la propria condizione economica e sociale. In questo scarto, in questo “nulla è andato bene” è maturata una grande rabbia piena di contraddizioni e ambiguità.
Questa rabbia è esplosa come una pentola a pressione senza sfoghi. La mancanza di supporti al reddito, di adeguate tutele nella crisi è stato il detonatore.
A Torino sono state due le piazze che hanno espresso questa rabbia, a loro modo differenti. Da un lato piazza Vittorio dove si sono concentrati commercianti e ristoratori, dall’altro piazza Castello dove si è trovata una composizione molto più mista: ultras, giovani proletari metropolitani delle periferie, seconde generazioni, lavoratori dipendenti della ristorazione e dello spettacolo.
Dieci minuti prima dell’inizio del concentramento ufficiale in piazza Castello già scattano i primi scontri. La questura interviene con la mano pesante da subito di fronte ai primi petardi e fumogeni. Carica spingendo i manifestanti verso via Roma e via Cernaia. Zona in cui gli scontri andranno avanti per ore crescendo di intensità e determinazione. Se inizialmente la contrapposizione sembrava porsi nei confronti della Regione di fronte alla gestione confusa della Questura gli scontri si diffondono e si focalizzano sui cordoni di polizia e carabinieri, sulle vetrine delle vie dello struscio.
Nel frattempo dopo qualche attimo di tensione anche in una Piazza Vittorio completamente blindata dalle forze dell’ordine inizia il lungo comizio dei commercianti e dei ristoratori. Gli interventi sono variegati, ma molti insistono sulla “libertà di poter lavorare”. Qui gli interessi sono più chiari e omogenei, il discorso che va per la maggiore è quello da piccoli imprenditori in sofferenza. A parte rari interventi che pongono il problema su una scala diversa, come uno che critica apertamente il neoliberismo, il resto individuano come controparte il governo Conte e ricalcano dinamiche da bottegai che difficilmente riescono a parlare alle composizioni meno vicine a quelle maggioritarie in piazza. Il ricambio tra le due piazze è costante, chi per respirare lontano dai lacrimogeni si unisce al comizio in piazza Vittorio, chi per noia o curiosità si affaccia sull’altra piazza.
L’impressione che si ha è che i due fatti sociali si svolgano in parte indipendentemente, che in Piazza Vittorio ci sia il corpo politico della manifestazione, quello che ha chiari i suoi obbiettivi, la sua collocazione di classe e le sue rivendicazioni corporative, mentre dall’altro lato, in Piazza Castello ci sia una composizione più magmatica, variegata, senza le parole adeguate, le rivendicazioni palesi per esprimere la propria rabbia, per renderla un fatto politico. Quindi le parole sono mutuate dagli altri, quelle poche che ci sono.
Giovani delle periferie, lavoratori della ristorazione scesi in piazza con il grembiule, disoccupati e ultras che interpretano lo spazio aperto dai commercianti come un momento di possibilità per esprimere la propria rabbia, pura, senza che riesca ad articolarsi, perché poi materialmente chi ne parla, chi li parla, chi si prende la scena e le telecamere per quanto riguarda il discorso pubblico è l’altra piazza.
Il messaggio forte dei giovani di Piazza Castello emerge più propriamente nell’immagine della vetrina di Gucci spaccata, nel rovescio della realizzazione nel consumo, nell’appropriazione della ricchezza. Si manifesta in quella scena minore l’inconscia contrapposizione tra gli interessi delle diverse composizioni che stanno negli stessi luoghi, ma non marciano insieme.
E’ l’alleanza di questi tempi, un’alleanza tra ostili di cui però non è ancora maturata una rottura, perché banalmente non sembrano profilarsi altre opzioni, altre possibilità che realmente colgano questa disponibilità al conflitto, che diano prospettive credibili di contrapposizione a chi vive in cinque in sessanta metri quadri, con uno stipendio quando va bene. L’alleanza tra i “non garantiti” e il ceto medio che ha investito su se stesso e adesso è in sofferenza. Dall’altro lato c’è la grande impresa, la Confindustria, c’è il grande capitale che per continuare a prosperare deve sottrarre possibilità tanto ai primi che ai secondi. Alla finestra la parte alta della classe, quei proletari che hanno ancora la “possibilità” di sperare che il terremoto all’orizzonte non sia così terribile, ma che in questi mesi hanno dato dei primi tenui segnali di insofferenza. Che fare dunque in questo contesto?
Non abbiamo risposte certe, sappiamo bene che per costruircele è necessario vivere la realtà che abbiamo davanti, conoscerne le contraddizioni e pensare a degli itinerari che materialmente sconvolgano gli assetti e i contesti presenti, nella prospettiva che la fase più generale che stiamo vivendo, quella di una pandemia che sta facendo emergere tutta la violenza di questo sistema che contrappone la salute alla possibilità del reddito chiarisca meglio i prossimi passaggi.
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