Una sofferenza sociale investita di enorme potere
Il covid19 è l’irruzione violenta, rapida e ingovernabile di un virus che sta piegando la salute della popolazione globale diffondendosi tramite contatto umano nelle vie respiratorie, compromettendole, e uccidendo decine di migliaia di persone, per ora.
Il covid19, con la sua diffusione tramite le reti del commercio globale, è stato, da subito, una crisi sanitaria. Ha reso visibile l’effetto dei tagli sugli investimenti pubblici e sulla qualità dell’agire sanitario, terapeutico e di prevenzione primaria; la mancanza di strategie di prevenzione e di formazione epidemiologica dei vertici istituzionali; l’assenza di una organizzazione fatta di corridoi sanitari alternativi,di reti di assistenza sul territorio e di mezzi di protezione adeguati (tamponi, d.p.i.) per il personale medico che si sta infettando a flotte.
Ma la crisi sanitaria sta diventando/è già diventata crisi “del sociale”: del blocco della mobilità e dell’isolamento umano; della logica e continua estensione del virus lungo le linee della produttività; della mancanza di risposte economiche (fame, debiti) e di servizi per la popolazione (basti pensare al lutto senza la sua elaborazione rituale del funerale). Diventerà crisi economica, con la frenata dell’accumulazione e della realizzazione di valore. Licenziamenti, fallimenti, pignoramenti, contesa inter-capitalistica nello scarico\assorbimento della crisi sono solo alcuni aspetti perfino banali e già sotto gli occhi di tutti.
Insistere sulla crisi di comando del capitalismo
Ma c’è una consapevolezza altra che alberga tra le élite globali. “L’alternativa – la distruzione permanente della capacità produttiva, e pertanto della base fiscale – sarebbe molto più dannosa per l’economia e, in ultima analisi, per la fiducia nel governo”. Queste parole di Mario Draghi nel suo appello accorato a prendere coscienza dello stato di guerra nel quale ci troviamo, istigando le autorità a squarciare i veli del pareggio di bilancio immettendo centinaia di miliardi di liquidità nelle vene del paziente morente del corpo socio-economico complessivo. Il grande timore è che la crisi si trasformi in crollo, che sia la tenuta complessiva di Governo ad essere in gioco nel contagio pandemico, ossia l’organizzazione gerarchica della società per la loro Economia. L’ipotesi del divenire “crisi” del comando, si manifesta nell’incapacità sistemica di pensare a delle alternative effettive capaci di riorganizzare la produzione di merci con la riproduzione sociale dell’umano in maniera durevole e coerente. Le vie di uscita di parte capitalistica, delineate sapientemente dall’ex-governatore della BCE, ripropongono e riproporranno le cause della crisi. Ancora debito per salvare il capitale fittizio, forse un pò di helicopter money per permettere al valore di realizzarsi nel mercato. Perciò il piano di “allentare i cordoni della borsa” per trasformare un po’ di finanza in reddito da consumo, è il primo grande segnale di un’opposizione dall'”alto” al tracollo della civiltà capitalistica.
Però, alle latitudini comuni della realtà sociale, quelle dove stiamo quasi-tutti – in quarantena, a lavoro o in ospedale – la crisi della riproduzione capitalistica nell’Emergenza, fa sorgere delle nuove domande, prima incorporate dal continuo fluire dell’ordine sociale. Come un criceto che gira nella giostra, quando la giostra si ferma, il roditore dalla sua nuova prospettiva – stordita – si accorge della gabbia, la scruta, guarda fuori, cerca di capire come è fatta, prima ancora di pensare ad erodere le sue sbarre per allargarne le cavità. In questa “guerra al covid19” il parziale ma significativo blocco della riproduzione capitalistica apre ad una nuova serie di molteplici Esperienze, di Dimensioni collettive e massificate non completamente eterodirette (poiché vi si addensa lo sforzo umano e perché “influenzate” dalla diffusione del virus stesso – come elemento d’ingovernabilità), che possono contribuire a variare il corso della Storia. È quindi su questo piano che bisogna pensare un agire comune all’altezza.
L’ipotesi politica che proponiamo in queste pagine è di mettere a fuoco l’emergenza pandemica, come distruzione e opportunità, nei termini soggettivi di un soggetto ancora da costruire: per trasformare l’oggettività della crisi in destrutturazione del comando capitalistico. Cioè far emergere e rinforzare le energie dei soggetti con le loro finalità antagonistiche al sistema dominante attuale dentro uno scontro che è già in atto. Uno scontro che non può essere, ad oggi, una questione di potere, di forza, di combattimento frontale con la controparte, di autorità di chi decide nel cosiddetto stato di eccezione. Non può esserlo non perché si tratti di una concezione “novecentesca” dei rapporti di forza tra le classi; ma perché il Soggetto Storico non esiste in quanto tale. Per ora, vive solo nella sua disseminazione materiale in forma di presenza dentro i gangli della riproduzione sociale. Esiste in potenza, come donne e uomini impegnati in un certo modo nella lotta per sopravvivere dentro e contro l’emergenza del Covid19.
Ma come si liberano queste energie latenti che ogni giorno già si manifestano dall’inizio del contagio di massa? Con un appello agli Stati, per un nostalgico “avevamo ragione noi”, rivolto o al passato della Pianificazione Socialista o a quella attuale che spira da Oriente, a cambiare le sorti dello sviluppo capitalistico? Oppure nella fiducia verso la trasgressione spontanea di massa contro le regole di isolamento che cambieranno le sorti della gestione dell’emergenza? Evidentemente no: Autonomia del Politico e Autonomia del Sociale sono entrambe delle miopi proiezioni del materialismo storico. Per confliggere e trasformare conta essere fonte di stimolo e ricomposizione della potenza autonoma di questa varietà proletaria immersa, più o meno direttamente, nell’esperienza di massa di guerra al coronavirus. Dobbiamo capire, e quindi condividere, queste contraddizioni a partire da un certo punto di vista. Porsi semplicemente fuori significa da subito rinunciare a giocare qualsiasi partita di lotta perché dentro questa Esperienza di massa stanno le possibilità di costruzione dei soli movimenti collettivi che hanno la forza del cambiamento.
Nell’emergenza Covid19 c’è la grande possibilità di conoscere, e quindi potenzialmente organizzarci, con una miriade di soggettività che esprimono bisogni, prima compressi dalla normalità, che si configurano come vere e proprie risorse ed utilità collettive. Le troviamo nelle infrastrutture sociali dei quartieri, nella conoscenza vitale nei distretti sanitari e negli ospedali, nella paura di ammalarsi come istinto di protezione che si scontra col paradigma industriale. Ma è solo un abbozzo. Più in generale, chiamiamo Risorse tutti quegli strumenti della riproduzione sociale che nel capitalismo sono catturati e organizzati sotto forma di impresa, scomposti in operazioni di lavoro e consumo mediante denaro e alienazione. Parliamo di capacità umane, di vita, di materiali, di sostanze naturali e di conoscenze. Sono i mezzi di riproduzione vitali: sistemi di rifornimenti sanitari, idrici, alimentari, energetici. Sono saperi utili e già incorporati in tecnologie; abilità organizzative, di educazione, di prevenzione. Il successo, sino ad oggi, di questa forma-impresa nell’organizzare queste risorse, stava nei suoi codici di espressione, nei suoi riti dell’iperconsumismo, nelle sue mediazioni e fluttuazioni delle leggi commerciali, nella sua ideologia performativa del marketing e nella pervasività (a)morale della merce. Nella crisi attuale, l’interruzione dei contatti umani e il collasso emotivo-relazionale del corpo sociale, stanno fortemente incrinando questa forma-impresa. Nella straordinaria parte di popolazione che “resiste” al virus, i movimenti e le attività di protezione, di cura, di ricerca e di sopravvivenza, impediscono alla macchina aziendale ed alla sua logica di accumulazione di catturare e governare pacificamente tutte le necessità sociali, tutti gli stimoli, tutte le esigenze. Ed è sempre in questa lotta al covid19, che il mercato capitalistico non riesce ad assorbire totalmente queste risorse: la loro erogazione, la loro fruizione, sono pesantemente compromesse.
Come si interviene?
Nella guerra al Covid19 quindi i ruoli sociali sono in mutazione. Guardiamo alla macchina politico istituzionale: tutta compatta, omogenea, quasi impersonale nel riprodurre sé stessa. Obbedisce al virus, è sua dipendente. Sbiadiscono di tono e vitalità, perdono valore e brillantezza i soggetti mainstream, diventano pallidi ripetitori di procedure sempre uguali a se stesse. Fanno a gara ogni giorno a spararla più grossa, ma la verità è che riproducono dei compiti – i decreti, le dirette, le autocertificazioni – che non stanno sul livello reale dello scontro: “cura” del sistema tecnoscientifico (che si nutre di soldi, di contatti, di nodi, di reti, di flussi) da una parte; dall’altra la riproduzione sociale divenuta “malattia”, e quindi vulnerabilità, che ha bisogno di riposo, salute, nutrimento.
In questo campo, i soggetti potenziali sono coloro che non digeriscono, sino a sentirlo inaccettabile, ciò che sta succedendo: il prezzo troppo alto della gestione di questa emergenza. Il costo ineguagliabile in termine di fatica, sforzo, sofferenza – un vero e proprio tragico sconquasso – di un sistema reso fragile perché è solo ad uso e consumo dei privilegi di pochi. Le differenze ritornano a nutrire pensieri collettivi della lotta di classe. Chi ha i tamponi e chi non lo può fare. Su cosa si risparmia e su cosa si spende. Chi è costretto a lavorare e chi invece dà ordini in video-chiamata. Chi è in ospedale e chi no. Chi è in carcere e chi no. Chi è protetto e chi no. Chi rischia e chi no. Chi ha fame e chi no.
“Conosce veramente chi veramente odia”, si diceva. Come prigionieri in preparazione della propria evasione: una grande motivazione per un grande progetto. L’odio della propria costrizione come fonte di invenzione organizzativa per la propria liberazione. Analizzare e studiare i ritmi, i meccanismi, i dispositivi penitenziari fingendo di aderirvi, ma scorgendovi le falle, i punti di blocco. Per passare all’azione, per segare le sbarre e fuggire, liberi. Una grande con-ricerca oggi è motivata dalla stessa avversione di chi è rinchiuso in una cella e odia la propria condizione. Anche noi ci odiamo, qui rinchiusi nelle nostre piccole case, qui costretti nel lavoro rischiando il contagio, a soffrire la frustrazione di una tragedia causata e scaricata da chi comanda su tutta la popolazione. Poniamo delle ipotesi, per produrre una conoscenza condivisa e conflittuale insieme a coloro che su più piani vivono l’esperienza di massa della guerra al covid19. Ma quali sono queste ipotesi? Su che livello le possiamo porre? Come le verifichiamo?
È una questione, intanto, di capacità di lettura e orientamento, in questa disgregazione delle forme riproduttive del sistema. La risposta sta già nel provare a porre in modo scientifico, politicamente finalizzato, organizzativamente preparato, le domande giuste. Nello scomporle. Per fare ciò proviamo a utilizzare il pensare ed il praticare come due aspetti della medesima assenza, quella del soggetto, del progetto e della sua organizzazione.
Quando parliamo di “emergenza coronavirus” come crisi del comando, proponiamo di verificarlo in queste tre dimensioni:
• la cura come campo di battaglia: l’ambito socio-sanitario-ospedaliero come nodo baricentrale della riproduzione sociale, nell’essere prima linea della guerra al covid19;
• un diverso modo di stare al mondo: l’esperienza della quarantena e dell’isolamento come crisi del consumismo e della lavorizzazione del “tempo riproduttivo”;
• il lavoro e contagio sociale: la “paura di ammalarsi” e il rifiuto del lavoro.
La cura come campo di battaglia.
Per cominciare bisogna scendere nel “segreto laboratorio della (ri)produzione” capitalistica della merce speciale per eccellenza: la capacità umana, come base della riproduzione del Sistema Sociale complessivo. E vedere se e come sta mutando il rapporto di riproduzione di capacità nel suo epicentro politico ed economico: l’ospedale, laddove la tenuta in vita e lo smaltimento dei corpi in un verso o nell’altro sancisce l’avanzamento o la retrocessione nella guerra al virus.
Uno dei punti di “saturazione” del sistema capitalistico è quello dell’industrializzazione del vivente (e del morente). Nella fabbrica sociale, Sezione Ospedaliera, il “servizio pubblico” è da trent’anni investito da criteri di produttività. Questi hanno riorganizzato il rapporto riproduttore-riprodotto, o anche operatore\utente, nella sua combinazione con la scienza (medica, farmacologica etc..). Un rapporto sempre più di distruttività dell’“umano”. L’alienazione stava nel subire e nello scorporare le operazioni di cura dal senso della cura stessa. Nell’oggettivare il “malato” e nell’interpretare procedure impostate dall’alto per l’operatore sanitario. E’ la disumanizzazione iperproduttiva che ha governato nelle Aziende sanitarie. Quello che sta esplodendo negli ospedali oggi è un conflitto che mette in luce questa contraddizione. La paura di medici e infermieri, purtroppo fondata, di essere contagiati a migliaia dagli stessi pazienti, e viceversa, crea un inedito riconoscimento comune. La mancanza di mezzi, procedure, esperienza e saperi forniti dall’alto del sistema dell’industria sanitaria, è via via sostituita con una autogestione da campo. La rottura delle iperspecializzazioni, coinvolge direttamente tutti i gradi dell’utenza e degli operatori medici e sanitari. Questa crisi prende forma compiuta in uno dei migliaia di commenti di infermieri sui social che afferma:
“eliminate questi premi di produttività che non fanno altro che arricchire i Dirigenti che sono la causa principale dei disastri della sanità perchè per raggiungere gli obiettivi ed il premio di produttività si deve tagliare sugli acquisti di materiale sanitario e sulle assunzioni, stremando il personale con turni massacranti, pochissimi giorni di riposo e tante notti nell’arco di un mese. Come si può pretendere che il personale regga all’infinito?”
Sì, nei reparti di ospedale ci si contrappone al comando. Questo perde di legittimità, poiché la sua autorità politica diventa privilegio. Non condivide il rischio del contagio. Non sta sulla prima linea. È vivido il ricordo dei mille “NO!” alle richieste di aumentare le spese vive per i materiali, per il personale, per la formazione, che ora si traducono in aumento del carico di lavoro, in usura del fisico e della mente, in esponenziale crescita del rischio di contagio tra chi ci lavora. Basta leggere le “lettere dal fronte” di infermieri, medici specializzandi, operatori socio sanitari, e si scoprirà allora che il potere della capacità umana contro la diffusione del COVID19 contiene i germi di un contropotere.
Un diverso modo di “stare al mondo”.
In questo momento le “lotte” cambiano forma perché la dimensione complessiva dell’esistenza è mutata radicalmente. Tutta la società nel suo insieme, come riproduzione di un sistema capitalistico, è investita da questo “stress”, non solo i piani bassi. Perciò comprendere, condividere e quindi organizzare i “vissuti” diventa altamente difficile quanto significativo. Questa esperienza della quarantena si fa storica poichè rende uguale per decine o centinaia di milioni di persone l’imperativo del “sopravvivere”: si tematizza il nodo del gioco, del mangiare, del curarsi, dell’amarsi, dello scontrarsi, del pulirsi, del conoscere, come aspetti non più derogabili interamente all’organizzazione capitalistica o per lo meno non nello stesso modo ordinato di “prima”.
Nel quotidiano la tensione è frutto di paura di ammalarsi e della mancanza di mezzi utili a superare questa crisi. Ogni campo è attraversato dallo sforzo e dal coraggio di chi è in prima linea a combattere questo covid19, ma le “retrovie”, come sono attrezzate? Che relazione esiste tra l’imperativo del “prendersi cura” oggi assunto come meta-obiettivo della nostra società, ed i bisogni quotidiani percepiti da noi stessi e dalle persone che ci stanno vicino? C’è un’altra storia che sta crescendo in questa guerra alla pandemia, rispetto a quella Ufficiale fatta di dati, numeri, racconti romanzati: è fatta di turni massacranti, mancanza di formazione, di mezzi, di dispositivi adeguati alla protezione sanitaria di chi è obbligato a lavorare e di chi è utente. E’ fatta di isolamento che sviluppa la crisi sociale, abitativa, relazionale ed economica: pressa il lavoro di cura enormemente, per chi ha malati gravi in casa, (sono più di un milione di famiglie), per chi è solo, per chi ha bambini o ragazzi che deve “mantenere” e “rieducare” alle nuove norme di igienizzazione sociale di massa. Pone radicalmente la questione delle distribuzione risorse in relazione all’insolvenza di classe: per chi è privato di reddito, di servizi, di utenze. Le Esperienza Collettive si nutrono di queste singolarità: nella guerra al virus c’è una sofferenza sociale investita di enorme potere. La disciplina normativa della Prevenzione, della Quarantena, del Sacrificio, vede irrompere domande, azioni, impressioni, valutazioni, cambiamenti per milioni di persone, che stanno riformulando soggettivamente “il modo”di stare al mondo: la propria Presenza.
“Cosa vuol dire igiene? Salute? Cura? E per chi? Perchè ci fanno lavorare in queste condizioni? Come è arrivato il Virus? Cosa faccio se mi ammalo? Cosa possono fare per non ammalarmi? Come pago l’affitto? E il mutuo? Come riempirò il frigo vuoto? Come rispondo per la prima volta a muso duro al capo?“ E altri milioni di nuovi input.
Sono queste invenzioni della quotidianità che sballano l’ordine imposto, che obbligano gli Stati a sforare di centinaia di miliardi i deficit, che sbloccano i turnover, che fanno assumere laddove si è sempre licenziato, che pagano per stare a casa, che spingono per la redistribuzione di risorse, che costringono i vertici sindacali a tenere conto della pressione delle basi. È la guerra al Covid19 che sta producendo uno sciopero di massa della riproduzione. Che sta impegnando e valorizzando – letteralmente facendo capire l’importanza – del lavoro di consumo, di cura, sanitario, ospedaliero. È questa la vera ricchezza sociale che produce Utilità differenti, che lega e unisce. Le risposte del Capitale tengono conto dell’impossibilità attuale di scaricare tutti i costi sulla riproduzione sociale, non per bontà, ma per non voler compromettere ulteriormente il Comando sulla Società. Il conto che ci presenteranno sarà ancora più salato per riprendersi tutto con gli interessi.
Lavoro e contagio sociale.
La vulnerabilità, il rischio e il fatto del contagiare/essere contagiato, si sono scontrati (per decine di migliaia di lavoratori) col paradigma industriale. Tutto ciò si è configurato come oggettiva negazione della prestazione capitalistica, come Costo non scaricabile sulla parte operaia. Se da una parte, la “paura di ammalarsi” è condizione necessaria per la Sopravvivenza del Sistema Capitalistico, d’altra parte le “misure di contenimento” del virus sono state un vero dispositivo di soggettivazione, di rifiuto del lavoro al tempo del covid19. Per gli operai il “restare a casa” è sempre un conflitto. La paura di ammalarsi dipende dalla mancanza di mezzi di protezione, ma nonostante protocolli e rifornimenti di presidi sanitari in extremis, il dato politico emerso a suon di mutua di massa, di scioperi bianchi o rivendicati, soprattutto nel centro e nord Italia, è stato l’incompatibilità tra il regime produttivo e la salute della forza-lavoro. L’epicentro Lombardo dei focolai non dipende solo dal collasso del sistema regionale sanitario bensì dall’oramai nota insistenza di Confindustria nel condizionare le scelte del governo, nel tenere “libera” la forza lavoro di ammalarsi nelle industrie. Con la collaborazione diretta dei Sindacati confederali nel placare il sabotaggio operaio, il Governo ha emanato da una settimana un Decreto di chiusura delle attività produttive non essenziali, prevedendo comunque larghe possibilità di deroga. Dagli scioperi e dall’astensionismo di massa si sta passando ad una sorta di contrapposizione originaria per nuove generazioni di lavoratori “essenziali”: corrieri, facchini, autisti, operaie multiservizi (igiene, pulizie, verde ), commesse e lavoratrici del commercio. Sotto la spinta della paura del contagio e grazie all’aumento del proprio oggettivo rapporto di forza nell’Emergenza, anche qui la forma impresa fatica a rimanere in piedi con lo stesso equilibrio che l’aveva forgiata. I nuovi conflitti prendono piede con un orizzonte rivendicativo che sembrava dimenticato: orari di apertura\chiusura aziende, tamponi non effettuati, dispositivi di protezione insufficienti, tempi e i ritmi di lavoro, formazione inadeguata, compensi e indennità sottocosto, breve durata dei contratti. Caratteristiche tipiche dello sfruttamento, oggi si radicalizzano come “domande” sul senso del proprio lavoro, su ritmi, gli spazi e la cattura del tempo di vita da parte Aziendale. È un fenomeno inaudito e qualitativamente differente perché non si limita a chiedere di salvare il posto di lavoro o ad avere più salario ma impatta con altri fini sulla sfera più sacra e inviolabile dell’Impresa: l’organizzazione aziendale.
In particolare nel cosiddetto “lavoro di consumo” o “riproduttivo”, lotte che prima andavano ricercate con il lanternino, oggi assumono una dimensione pubblica e di massa, anche degli aspetti più sovversivi. Sconfinando anche laddove lo “sciopero” viene accusato d’irresponsabilità, nel campo sanitario. Questi focolai di lotta nascono non solo dall’intensificazione del carico di lavoro dovuto al particolare momento, ma anche relativamente alle condizioni di base che questi tipi di lavoro “di cura” comportano: cura, responsabilità, pulizia, manutenzione sono alcuni degli aspetti che già di norma vengono sfruttati da imprese e multinazionali. Adesso sono proprio quelle funzioni “riproduttive” che implicano un “contatto” fisico e sociale ad essere pesantemente ridisciplinate, e che però non possono essere vietate!Basti pensare a chi lavora in case di riposo, per anziani, per disabili: non serve aspettare la notizia di qualche utente “positivo” per far scattare tutta una procedura di vestimento\svestimento di materiali protettivi per limitare i contatti. Ma queste faticose operazioni diventano insostenibili laddove avvengono in contesti già stressati dalla mancanza di tempi spazi e forniture! In quest’ottica, l’impossibilità di scioperare “formalmente” per questi settori essenziali, rende ancora più evidenti le contraddizioni di questo campo.
Epilogo/ripartenza: nel capitalismo siamo merce in scadenza
Il virus Covind19 sta quindi radicalizzando l’enorme ambivalenza della metropoli capitalistica. Da una parte vettore di sviluppo, di razionalità scientifica piegata al progresso industriale e finanziario, di iperconnettività logistica, di promessa e di speranza di contare come individuo, di potenzialità di accesso infinito alle merci più disparate. Dall’altra parte, invece, come macerie di una civiltà in rovina. Come agglomerato di cemento e merda, fecondissimo vettore di infezioni e virus. Come dense nuvole di polvere tossica che schiaccia arterie e polmoni. Come incertezza massima di ogni esistenza che poggia i piedi ai piani bassi, come perdita di senso e di possibilità. Come reset delle proprie identità e radici. Come dominio teleorganizzato di una vita resa plastica ad uso e consumo di forze visibili solo su schermi.
Il Coronavirus, il divenire globale dell’epidemia, celebra una nuova verità di massa: in questo sistema saremo costantemente tenuti in vita come “merce in scadenza”.
Se l’uscita da questa emergenza è tutt’altro che scontata, di sicuro non esisterà un “dopo” che sia il ritorno alla normalità precedente. Raramente le crisi sanitarie non hanno lasciato delle tracce persistenti nell’organizzazione degli spazi urbani e della circolazione delle risorse umane. Il prezzo per il proseguimento di questo sistema sarà l’approfondimento di reti iperproduttive telematiche, l’inseguimento della chimera dell’intelligenza artificiale come stimolo ad una più spinta automazione, per tenere in piedi un modo di vivere dannoso per la maggioranza della popolazione – tra scarsa igiene, infezioni, povertà – ma “cosmico”per l’infimo gruppo dei ricchi. Fantascienza del capitale, in cui già nessuno vuole vivere.
Intanto vengono a galla le tensioni relative al risparmio scientificamente organizzato come astinenza, come mancanza, di mezzi, di saperi, di risorse di cui, come genere umano, siamo espropriati. Una terribile verità fa capolino: l’indebolimento di massa è connaturato all’accumulazione capitalistica. Indebolimento dei sistemi immunitari, dei sistemi ecologici, delle facoltà cognitive, come condizione necessaria per sfruttare corpi, terra, relazioni. E più è produttivo il sistema industriale, più è nocivo per la salute della stragrande maggioranza dell’umanità. Questa dinamica immanente al progetto capitalista arriva a oggi a uno dei suoi numerosi punti di rottura. La frattura tra capacità umana e meccanismi del mercato si disloca e definisce più chiaramente dentro la lotta al virus, diventando patrimonio più o meno consapevole di molti e ponendo nuovi nodi per un agire militante. Tutti questi nodi segnano il divenire Divisivo e Conflittuale della società tutta. E ci pongono la questione di una differente organizzazione sociale, da costruire. Potremmo anche dire: incanalare le tensione prodotte dalla crisi di comando, in nuove protezioni sociali dal basso.
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