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Sulla morte di Papa Francesco

In un mondo in cui comanda la prevaricazione e l’ipocrisia la morte di Papa Francesco segna un passaggio politico della nostra storia.

Gli stessi ministri, capi di governo, commentatori tv, giornalisti che nei prossimi giorni si sperticheranno nel dipingere il suo ricordo sono gli stessi rimasti totalmente sordi all’unica indicazione chiara in merito alla guerra e al genocidio in Palestina di cui, bisogna riconoscerlo, Papa Francesco è stato altresì l’unico a farsi portavoce.

Fuori dalla retorica e dal romanticismo di cui la contemporaneità è imbevuta quando si tratta di narrare qualsiasi fatto, non va offuscato il ricordo che il cardinale Jorge Mario Bergoglio, origini piemontese, chiamato il “Papa degli ultimi” fu arcivescovo di Buenos Aires e venne accusato di collusione con la dittatura argentina che sterminò novemila persone. Poco dopo la sua elezione le madri di Plaza de Mayo levarono la propria voce contro i media, impegnati a ritrarre unanimemente un’Argentina in festa per l’elezione del nuovo Papa e hanno ricordato come Bergoglio all’epoca della dittatura di Videla si fosse rifiutato di riceverle perché rappresentava una Chiesa ampiamente collusa col regime.

Nel corso del suo pontificato il papa ha avuto la capacità di porre l’attenzione laddove il dibattito politico era assuefatto e silente. Nel 2013 va a Lampedusa, ricoprendo uno spazio politico lasciato vuoto dalle istituzioni, in particolare da una “sinistra” incapace di sintonizzarsi con le istanze sociali che, anche in questo caso, lasció vincere a mani basse la partita sul tema dei migranti alla Chiesa. Nel 2016 si reca in Chiapas, visita la tomba di Don Samuel Ruiz, ex vescovo di San Cristobal vicino agli zapatisti e praticante della teologia della liberazione. Con la sua seconda enciclica intitolata “laudato si” guadagna il ruolo dell’unico critico del capitalismo neo-liberale al mondo. E ancora, nel 2019 incontra Greta Thunberg, proprio a sancire l’impegno per il clima in un momento di forte effervescenza giovanile su questo tema.

Se papa Francesco è stato utile al mantenimento degli equilibri del potere al livello generale in tutta la prima fase della sua storia ecclesiastica e politica, il cambiamento repentino e le accelerazioni imposte dal 2020 in avanti ridefiniscono il campo e i ruoli.

É un dato oggettivo che a rompere le ipocrisie sulle responsabilità della guerra in Ucraina e della NATO sia stato il papa, oltre a essere l’unica istituzione politica a riconoscere il genocidio in Palestina. La scorsa Pasqua lava i piedi alle detenute del carcere di Rebibbia e parla di amnistia, in una fase di governo in cui la guerra ai proletari si acuisce.

La realtà è che anche se ad assumere un posizionamento forte sulle questioni bollenti dell’attualità sia stato il papa, nessun leader politico ha scelto di dargli il benché minimo credito. A riprova del fatto che l’unico potere in grado di influenzare chi sta nei gradi più alti della catena di comando sia sempre soltanto il dollaro e ci sia sempre una sola egemonia da garantire.

Più in generale, va fatto un bagno di realtà e, senza paura di doverlo ammettere e con estremo realismo, va anche detto che in questa fase di guerra e attacco ai territori un certo tipo di cattolicesimo aperto ai movimenti sociali e che condivide con noi la necessità di ragionare, seppur in altri termini, di comunità in lotta di fronte all’individualismo imperante e alla legge del profitto è un compagno di strada con cui poter immaginare alleanze strategiche.

“Niente di questo mondo ci risulta indifferente” è quanto più ci sembri riassumere una lucidità di sguardo che di questi tempi è tutt’altro che scontata. E che se anche viene dal papa va fatta propria, per essere all’altezza della sfida.

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