Di bandiere blu, superstrade e turismo
Nello scorso mese di maggio si sono sovrapposte due notizie che per la comunicazione mainstream hanno assunto valore strategico per il futuro della Calabria: il conferimento delle Bandiere Blu a 14 comuni calabresi e la posa della prima pietra, qualche giorno dopo, del 3° megalotto della SS106. In entrambi gli eventi l’enfasi comunicativa è ricaduta sul potenziale effetto volano che poco più di 30 chilometri di strada e quattordici lembi di stoffa blu produrranno sullo sviluppo economico regionale a partire proprio dal maggiore afflusso turistico che queste due chimere dovrebbero garantire ai territori interessati.
Ora, tralasciando il fatto che il riconoscimento della cosiddetta bandiera Blu è attribuito annualmente dalla ONG internazionale FEE (Foundation for Environmental Education) sulla base dei prelievi delle Arpa e che in Calabria quest’ultima è sostanzialmente sconfessata scientificamente e che, probabilmente, per vedere l’ultimazione dei lavori (se mai ci saranno) del 3° megalotto della SS106 dovremo aspettare quasi un decennio, proviamo a interrogarci su quali possano essere le reali ricadute economiche e soprattutto occupazionali che, processi spinti di messa a valore del territorio tramite il turismo,dovrebbero garantire.
Il settore turistico è un’industria capace di incidere per oltre 10 punti sul Prodotto interno lordo e per l’11,6% sull’intera occupazione nazionale. Fin qui le notizie buone, poi ci sono quelle cattive sulle quali vogliamo soffermarci: i salari e gli stipendi dei lavoratori di questo settore sono abbondantemente sotto la media nazionale delle retribuzioni di operai e impiegati di altri settori del comparto privato. È la fotografia scattata dall’Osservatorio JobPricing che, con cadenza regolare, aggiorna il suo rapporto sulla filiera della ricettività, degli hotel e in generale delle vacanze. Gli stessi dati trovano riscontro nel report annuale di Federalberghi Trend e statistiche sull’economia del turismo. Entrambi i lavori sono basati sulle elaborazioni dei dati forniti dall’Istat e dall’Inps.
Da una attenta ricognizione sul valore medio nazionale della RAL (Retribuzione Annua Lorda) riferita a un lavoratore con contratto full time, emerge chiaramente una divaricazione importante legata alla composizione occupazionale del segmento: gli operai (ma anche gli impiegati) percepiscono un quinto della retribuzione media di un dirigente portando a casa un salario medio che, al netto delle trattenute, significa 900/1000€ al mese. Questo valore inoltre rappresenta una media su base nazionale che non rispecchia per nulla la reale situazione del settore nel Meridione dove spesso si lavora per 12 ore al giorno con paghe abbastanza lontane dal dato appena citato.
Anche in questo settore ovviamente l’analisi di parte datoriale del mercato del lavoro viene portata avanti enfatizzando i dati sulla crescita del livello occupazionale, raffigurando un settore in cui nel 2017 circa 191 mila aziende con almeno un dipendente hanno impiegato circa un milione e 176 mila lavoratori; inoltre, il confronto con i dati dell’anno precedente evidenzia un incremento consistente dei livelli occupazionali (+14,6%), dovuto al consolidamento del ritmo di crescita dell’economia nazionale che ha generato ricadute positive anche sul settore turistico.
Sempre secondo Federalberghi «tutte le categorie di lavoratori hanno registrato degli aumenti, ancorché di diversa intensità. La crescita più rilevante si è avuta tra gli apprendisti, passati da 65,5 a 79 mila unità con un balzo in alto del 20,6%. A stretta distanza si collocano gli operai, che costituiscono la netta maggioranza dei dipendenti nel turismo e che sono aumentati del 15,8%. Meno performanti, seppure accomunate dal segno positivo, sono state le dinamiche delle categorie medio-alte: impiegati, dirigenti e i quadri, cresciuti rispettivamente del 3,2%, 1,6% e 1,1%».
Un settore quindi dove apprendisti e operai rappresentano la stragrande maggioranza degli occupati e dove, nel solo settore alloggio, il 51% è costituito da lavoratrici e il 22% da lavoratori che provengono prevalentemente da nazioni al di fuori dell’Unione Europea.
Un recente studio del CRISP (Centro di Ricerca Interuniversitario per i Servizi di Pubblica utilità) sulla Configurazione occupazionale del comparto alberghiero nel turismo leisure in Italia fa emergere chiaramente come a prevalere fra le tipologie contrattuali non è certamente il full-time a tempo indeterminato.
Infatti, sempre secondo questo studio, all’interno del settore è possibile individuare almeno quattro diverse categorie contrattuali: lavoratore dipendente, autonomo, esterno e temporaneo. Ma il dato interessante che emerge è che, nonostante nel settore alloggi tre quarti degli occupati sono impiegati con un contratto di lavoratore dipendente, più della metà (57%) hanno un contratto a tempo determinato. Negli ultimi 5 anni, i contratti a tempo determinato in questo settore sono cresciuti a un tasso medio annuo del 3,8%, mentre quelli a tempo indeterminato solo dello 0,44%. Ciò significa che, degli oltre 23 mila nuovi contratti per lavoratori dipendenti stipulati negli ultimi cinque anni nel settore alloggi, il tempo determinato è stato scelto per il 91% dei nuovi contratti.
Stagionalità (la Calabria è tra le regione con un livello alto) in questo settore fa rima con precarietà e flessibilità e anche la tendenza che porta a un cambiamento della tipologia contrattuale (da determinato a tempo indeterminato) è molto debole. Nel quinquennio 2013-2017, infatti, i contratti a tempo indeterminato siglati nell’intera economia nazionale hanno rappresentato il 31% contro il 9% del settore alloggi.
Il ricorso alla flessibilità emerge anche dalla quantità di contratti a tempo parziale (cosiddetti part-time) stipulati nel settore. La crescita dei contratti part-time nel Settore Alloggi (+6,2%) è stata più elevata che negli altri settori (+4,6%). Questo a ulteriore dimostrazione del progressivo ricorso a meccanismi di iperflessibilità.
Infine un altro dato da evidenziare è che tra i lavoratori cosiddetti indipendenti, il 7,6% è rappresentato da familiari e coadiuvanti, che sono solamente il 5,4% nel resto del mercato del lavoro italiano. I voucher ovviamente sono uno strumento particolarmente apprezzato dalle imprese del settore. L’origine dei voucher risale alla “legge Biagi” (2003) sulla riforma del mercato del lavoro. Hanno, poi, trovato una loro sistematicità nel sistema retributivo con la legge di riforma del lavoro firmata dal ministro Fornero (2012) e successivamente con il cosiddetto “Jobs Act” del governo Renzi (2014-15). Stando ai dati Inps, il numero di lavoratori coinvolti nella retribuzione tramite voucher è passato dagli oltre 600mila del 2013 a 1,7 milioni del 2016. Di questi, i lavoratori impiegati nel turismo sono stati circa 350mila.
Tuttavia, il valore potrebbe essere molto più elevato se si considera che non si hanno dati chiari sui voucher erogati nel 2015.
Le nuove disposizioni per i voucher presenti nel cosiddetto “Decreto dignità” (2018) ha introdotto il concetto di lavoro occasionale accessorio che prevede per le aziende alberghiere e le strutture turistico-ricettive che il ricorso al contratto di prestazione occasionale venga esteso alle imprese che hanno fino a 8 dipendenti a tempo indeterminato, a fronte del limite di 5 lavoratori subordinati a tempo indeterminato previsto dalla normativa vigente. Un meccanismo che mette al riparo la quasi totalità del comparto turistico che esprime una media nazionale di 6 dipendenti assunti per azienda.
Questo elemento di precarizzazione assume carattere di evidenza empirica: il settore turistico viene “attraversato” da milioni di lavoratori ipersfruttati, caratterizzati da bassi livelli salariali, contratti inutili sul piano delle tutele sindacali e reclutati con un sistema che, per i lavoratori migranti e non solo (si pensi alle agenzie del lavoro), passa per un caporalato mascherato da intermediazione. Questo nonostante i fatturati da capogiro di albergatori e manager del settore e la forte incidenza del comparto turistico sul PIL (10%).
D’altronde un iperliberista come Michele Boldrin, in una recente intervista rilasciata al giornale online Linkiesta.it, ha provato a disarticolare la presunta relazione tra ricchezza e turismo: «Chi se ne frega se il turismo è da record! Il turismo è un settore marginale ed a basso valore aggiunto nel sistema economico italiano: hai presente cosa siano i salari medi nel settore turistico? Perché continuare a diffondere questa bufala del turismo che dovrebbe portare ricchezza? Il turismo porta ricchezza per pochi, lavori miserabili per alcuni e scempio delle città storiche e degli ambienti naturali».
Nella concorrenza turistica infatti si vince grazie alla competitività ricettiva che è frutto, abbiamo visto, della moderazione salariale e della progressiva precarizzazione del settore.
Tutto questo si scarica socialmente sul tessuto territoriale proprio perché ampi settori sociali ipersfruttati rendono possibile, tramite il proprio lavoro, la messa a valore della competitività turistico-ricettiva intesa come possibilità, data al turista, di scegliere il meglio per sé e con costi d’accesso sempre più bassi spesso legati al costante e crescente ricorso a piattaforme digitali come airbnb.
Nessuna redistribuzione di questa enorme montagna di denaro (il solo settore ricettivo fattura ogni anno circa 26 miliardi di euro) vedrà protagonisti camerieri, cuochi, lavapiatti, guide, autisti, ecc. ossia tutti coloro che, come abbiamo già detto, rendono possibile la competitività turistica.
Infine, resta la questione estremamente importante della messa a valore dei territori ai fini turistici: stiamo assistendo alla progressiva rovina paesaggistica, culturale, ecologica e umana dei nostri luoghi voluta da politiche governative − nazionali e locali − che hanno come unico intento quello di rendere il territorio ricettivo rispetto alle richieste del turismo globale.
L’unicità dei nostri ambienti viene stravolta, deformata e poi piegata alle esigenze della ricettività turistica. L’esito di ciò è sotto gli occhi di tutti: ambienti costieri, montani e urbani vengono ridisegnati per poter assecondare le esigenze effimere di settore − quello turistico e ricettivo − che, alle nostre latitudini, prova a uniformarsi agli standard internazionali ma che, puntualmente, deve fare i conti con un’economia, quella meridionale e calabrese, perennemente depressa e che difficilmente riuscirà a trovare risposte nel turismo massificato.
Se non esiste nessuna relazione tra turismo e ricchezza, intesa come benessere diffuso su un territorio, allora è giunto il momento di rivendicare un altro modello di gestione che non guardi al meccanismo della messa a profitto del territorio che produce ricchezza per pochissime persone, ma piuttosto a un’economia socialmente ed ecologicamente orientata che possa garantire benessere diffuso.
Per fare questo occorre rompere con il paradigma capitalista della messa a valore e iniziare sin da subito a sperimentare pratiche radicalmente alternative che vedano nella riappropriazione sociale dei beni comuni e dei servizi la base per la costruzione di una nuova comunità autogovernata che, come tale, inizi a confliggere con il sistema dato, partendo proprio dalla necessità collettiva di comprendere cosa, come, dove e per chi produrre. Una pratica sociale collettiva, dunque, che sperimenti la riappropriazione della ricchezza sociale prodotta per garantire redistribuzione e investimenti socialmente ed ecologicamente orientati e che faccia della partecipazione sociale l’humus per un nuovo modello di società.
Redazione Malanova
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