Fazio ritorna in ginocchio da Lui
Nel frattempo la socia del sorcio viscido veniva premiata come personaggio dell’anno, dedicato simbolicamente alla Bellezza, tramite pistolotti vergognosi e Oscar ai peggiori stereotipi locali. Così che per par condicio lo vogliamo per la d’Urso, per Sallusti, che Minzolini si è già premiato da solo.
Si sa che qualunque bruttura diventa confortevole col tempo e l’abitudine. All’inizio magari si prova repulsione per ala cortigianeria più sgangherata, per l’adulazione più commerciale, poi lo spirito critico si stanca, si addomestica attraverso una sia pure amara rassegnazione, finché l’accettazione di ciò che è inutile rifiutare conduce a familiarizzare con attrezzi pericolosi che entrando a far parte dell’arredamento del tinello, sembrano inoffensivi, disarmati.
Si sa che ogni regime ha aspirato a creare un suo stile nazionale unitario, impiegabile dalle Alpi alla Sicilia. Mussolini confezionò la sua Grande Immagine sia pure di cartapesta, i suoi Trionfi imperiali, un trabocchetto solo apparentemente grottesco se ci cascarono D’Annunzio, Pirandello, Marinetti, grandi comunicatori si direbbe oggi, insieme a filosofi, intellettuali, scienziati ammaliati dal culto dell’italiana superiorità, anche razziale. La Dc esaltò lo spirito unificante, il collante della religione, della Grande Famiglia, al cui consolidamento dovevano contribuire tutti, lavoratori e padroni, operai e contadini, in una artificiale ed edificante condivisione che ripartisse con rigida e iniqua disuguaglianza oneri e onori. A questi Miti ha sempre contribuito la stampa, con un potere di persuasione che è andato sempre più intrecciandosi con propaganda, “apostolato” e spettacolarizzazione via via che si affermava l’egemonia della televisione e del suo tycoon. Con la Milanodabere, con l’Italian Style, lo strapotere mediatico si è mostrato in tutta sua autorità, intridendo la società e sostituendosi all’opinione pubblica, per testimoniare e rappresentare segmenti “prestigiosi” ed esemplari. Erano gli anni di Class, il mensile della classe dirigente, le riviste patinate che insegnavano a un tempo a comandare e a consumare in modo che i padroni sfruttassero con più rapacità ma minor volgarità, modernizzando in purezza le gerarchie ottocentesche, collocando al primo posto profitto e quattrini, poi l’economia, poi il potere e le leggi che lo garantiscono e infine la Cultura, con il disegno industriale, la moda, l’arredamento, i vini, tanto che perfino manager e industriali si mettono a dettare libri oltre che a comprarne metri ben rilegati per abbellire l’ufficio. E i giornalisti li intervistano, li portano sulla ribalta dei primi talk show, li fanno sfilare in oscene passerelle.
Forse è l’ultima volta che si parla con proprietà di Classe, categoria poi negata quando arriva l’uomo che le riassume in sé, presidente, cantante,seduttore, operaio, manager, imprenditore, barzellettiere, sciupa femmine, padre, esemplare in ogni sua manifestazione e per questo irrinunciabile protagonista, adulato, ammirato, esaltato. Unico, insostituibile, poderoso motore per le vendite ancor prima di padrone assoluto di stampa, Tv, editoria, capace di riempire carta e schermi di delle sue gesta, delle corna nelle foto ufficiali e di quelle che incoronavano la moglie reietta, di intercettazioni pruriginose e di scorribande in bandana, di pericolose amicizie e di reati di ogni genere, delle sue campagne acquisti di giornalisti, deputati, ragazze, città terremotate, ville a Lampedusa, e voti, voti, voti rendendo accettabile con l’abitudine, come già detto, illegalità, licenziosità, trasgressione, convertendo in virtù imprenditoriali e vocazione al comando, i vizi della sopraffazione, dell’autoritarismo, del razzismo.
In quegli anni, infiniti come il secolo breve, chi voleva distinguersi è caduto nella trappola della cosiddetta stampa indipendente, la Repubblica, Santoro, Fazio e le loro figurine, nell’illusoria convinzione di liberarsi dal conformismo della volgarità con il conformismo alternativo di chi era andato in Via Veneto, di chi partecipava di una liturgia culturale comprando, se non leggendo, In nome della Rosa, essendo a un tempo moralista e disinvolto, frivolo e predicatorio, come chi ha trovato accoglienza confortevole e gratificante n un club esclusivo a disposizione di tutti.
È cominciato così, con il costo della copia di un giornale ti compri la soddisfazione di essere insoddisfatto, la libertà di essere scettico, la licenza di cambiare opinione vorticosamente, segnale di pragmatica intelligenza, tra Berlinguer e De Mita, in abbracci mortali dai quali esce vivo solo il direttore poi evangelizzatore che colloquia con Dio con o senza il tramite di papi. Con una puntata di Fazio, ospite Saviano, contribuisci alla condanna della camorra. Ti guardi Santoro e fai del sano necessario giustizialismo, nemmeno fossi sotto la ghigliottina a sferruzzare. Stai in prima fila davanti a Che tempo che fa e contribuisci al Fare del nostro tempo.
I giornalisti dovrebbero essere meglio della media dei lettori, non per incarico divino, ma solo per ragioni deontologiche, per non doversi fare la barba al buio per non incontrare il proprio sguardo. Dovrebbero evitare il conflitto di interesse tollerato in politica per poterlo denunciare, esimersi dal corteggiare liste elettorali soprattutto se non sono corrisposti, per dare conto con lucidità se non con l’inarrivabile obiettività, di caratteristiche qualità di programmi e candidati. Dovrebbero sottrarsi alla tentazione del doppio binario: giornale di regime dove si scodinzola, blog e tweet dove si abbaia.
Ma non sono migliori di noi.. e viene la tentazione di sollecitarli a fare come la Spinelli, come i cinquantenni e sessantenni della nomenclatura che scelgono la via delle europee, vadano, è una sine cura ben pagata, si lavora poco, si vive come in colonia, si partecipa di un disegno, di un progetto vincente, quello di annichilire ogni forma di libertà e responsabilità democratica, compresa quella di informare e essere informati.
Anna Lombroso
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